TRIESTE una ventata nuova: metamorfosi di una città [FOTO]

Aprono laboratori e atelier, si restaura il Porto Vecchio

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    TRIESTE
    metamorfosi di una città



    Salvatores l'ha scelta come set per il suo nuovo film. Perché la città di Saba e Svevo è tornata ad essere un emporio culturale e creativo





    Il distributore di carburante dei BBPR (del 1953) trasformato in distributore di cultura


    Cercava una città di mare. Una stampella per la sua storia sull’adolescenza, “quel momento di straordinario cambiamento in cui ci si sente trasparenti, eppure troppo ingombranti, e si vorrebbe avere il potere di scomparire”. E si è imbattuto in Trieste, quel crocevia di storie che parla greco, ebraico, sloveno e armeno, le avanguardie perdute, gli interni solitamente poco svelati. Il premio Oscar Gabriele Salvatores l’ha scelta al posto di Dublino per il suo fantasy Il Ragazzo Invisibile (nelle sale dal 18 dicembre). Un primo sopralluogo, e i Docks di Dublino, nella sceneggiatura ormai riscritta, diventarono i magazzini del Porto Vecchio, quel complesso di hangar e gru di archeologia industriale, d’impronta Art Nouveau. Ed è come se i riflettori si siano accesi, ancora una volta, sul solo fronte del porto. Una visione che non rende giustizia a Trieste, che invece cova fuochi di creatività. In interno.

    SOTTO I TRAVONI BIANCHI

    Non solo tra i libri appena sbarcati allo storico Caffè San Marco o tra le carte nautiche dello Skipper Point, covo dei velisti sul lungomare di Barcola dove si ferma Paolo Rumiz di ritorno dal faro non più segreto di Palagruža. Prendi, ad esempio, una certa mansarda all’ultimo piano di piazza Venezia, dietro le Rive, cui si sale con il fiatone, da un androne poco luminoso. È qui che Barbara Franchin, ideatrice e anima di ITS,International Talent Support, il contest di creatività applicata a moda e artwork, custodisce un archivio di quattordicimila portfolio di abiti, gioielli e accessori che raccontano l’evoluzione della moda negli ultimi quindici anni. Sotto i travoni bianchi, la mansarda pare la quinta di un teatro: compressa nello spazio, ha suscitato l’interesse del Costume Institute del Metropolitan Museum di New York e del Mode Museum di Anversa. Messaggi chiari partiti da una Trieste “alla ricerca di identità”. Seduce Trieste. È accaduto allo scrittore noir Veit Heinichen, tedesco di nascita, autore delle inchieste politicamente scorrette del poliziotto Laurenzi. «Volevo invecchiare guardando il mare. Questa è una città contemplativa, le tracce dell’immigrazione lasciate nei dialetti e nelle pentole». Con la moglie chef Ami Scabar, vive in un’ex pensione a vocazione vegetariana sulla Costiera, a Santa Croce, «tra gli amici che fanno il vino del Carso». Costruita nel lontano 1914 dall’ingegnere di origini svizzere Robert Lutz, «questa è la casa che mi ha cambiato la vita».


    LA BORA RINNOVA TUTTO

    Trieste pare non mutare mai. Ma quella bora che, «quando soffia rende il paesaggio fatato, con gli oggetti che volano come in una fantasia» - parole di Rino Lombardi, inquieto copywriter e ideatore di un Magazzino dei Venti che colleziona scatole di latta con refoli di bora - intacca comunque ciò che pare immobile, nutrendo la metamorfosi. Come quella del pittore Paolo Cervi Kervischer, lo studio con vista sulla Sacchetta, al termine delle Rive, «il più intimo dei miei atelier, quello con il riscaldamento…», nell’edificio progettato nel 1906 dall’architetto Max Fabiani. Tele ovunque, per una creatività poco asservita al mercato, che è «più un atto di meditazione» e che ha sconfinato, complice l’amore per il sassofono, in musica sperimentale che scava il cielo, «a metà tra l’acustica e l’elettronica». Chi si è tanto trasformato è il triestino di origini austro-ungheresi Fabio de Visintini, «farmacista di formazione, di animo inquieto», esploratore di altre vie come l’aromaterapia, la pittura, la fotografia d’arte, «abituato a scomporre l’ordine delle cose e a utilizzare il pensiero laterale», approdato alla produzione di un cioccolato di qualità emulsionato in sola acqua. Nel suo studio situato in viale XX Settembre dipinge a mano le scatole di cartone in cui ripone, in questa nuova vita, i vasetti di cioccolato. Ci sono altri interni in metamorfosi a Trieste.

    CAVANA, GHETTO: IL VENTO NUOVO DELLA GENTRIFICATION

    Sul fronte del porto è in restauro la Casa del Cinema destinata a ospitare la Film Commission, la nuova mediateca e la sede di Maremetraggio, il festival di cortometraggi diretto da Chiara Omero. Partirà da qui la passeggiata cinematografica del critico Nicola Falcinella con tappe in piazza Oberdan, al negozietto dell’orologiaio (La migliore offerta); alla sala degli Incanti (la Ellis Island nel Padrino parte II); al Bagno Pedocin, decadente e retrò, con quell’assurda divisione tra bagnasciuga maschile e femminile dove ha girato anche Salvatores. «Trieste? È una rosa dei venti priva di un centro» commenta Chiara Omero. «Ma con diversi focolai di vivacità» come le zone di Cavana e del Ghetto soggette a una recente gentrification, frequentate anche la sera. O il borgo Giuseppino dove, nel Magazzino dei Vini restaurato dalla Cassa di Risparmio di Trieste, nel 2015 aprirà Eataly.


    IL RESTAURO DEL PORTO VECCHIO

    Segreti, per niente intimi, restano gli spazi del Porto Vecchio, 650mila metri quadri vincolati come porto franco. L’assessore alla Cultura Paolo Tassinari la ritiene «una delle più grandi opportunità di rigenerazione urbana in Europa, in una città nata come emporio di granaglie, caffè e cotone, che deve continuare a vivere come emporio culturale». Dell’intero complesso è stato ultimato il restauro del Magazzino 26 e della Centrale Idrodinamica, che apriranno al pubblico con una collezione di fotografie, documenti d’archivio e reperti industriali affidati alla cura di Antonella Caroli Palladini, esponente di Italia Nostra e instancabile vestale del progetto di recupero.

    LE FOTOGRAFIE DI SALGADO

    C’è invece bisogno di una casa, forse il settecentesco Palazzo Carciotti, per il futuro Museo del Caffè.

    Carlo Bach, direttore creativo di Illy, lo racconta così: «Dapprima una mostra, che diventerà poi una collezione permanente, allestita in contemporanea al Coffee Cluster dell’Expo, l’esposizione-narrazione curata da Illy con le foto di Sebastião Salgado». Un’opera gigantesca quella del fotografo-antropologo: 12 anni di scatti in 10 paesi, la Tanzania e l’Indonesia da ultimare entro febbraio. Nel suo infinito peregrinare per piantagioni e alte terre, Salgado è ancora alla ricerca dell’immagine mancante, quella del fiore del caffè: una stella alpina dei Tropici, che odora di gelsomino e dura per una sola notte. Effimera e difficile da catturare. Come portata via da questo vento.
     
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