SANT'AGATA (Bg): il carcere che crolla in Città Alta [FOTO]

Abbandonato dal 1977. Entrarci è come fare un salto nel tempo

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    Bergamo:
    nel carcere che crolla a un passo da Piazza Vecchia.


    Sant’Agata è abbandonato dal 1977. Entrarci è come fare un salto nel tempo

    È a pochi passi dalla Corsarola...

    ...dai negozi, dalla vita di tutti i giorni. E per secoli ha segnato la storia di Bergamo, ma è un luogo che per la città non esiste. Fino al 31 dicembre del ‘77 è stato uno spazio di vita nel cuore di Città Alta, ma estraneo. Alieno. E lo è ancora. L’effetto che fa il Carcere di Sant’Agata è straniante, come di un luogo all’interno del quale il tempo e la vita sono stati sospesi. Alla chiusura, trasferiti i detenuti e le guardie carcerarie al Gleno, il carcere - per cui, nelle idee di Comune e Demanio, c’era un piano di recupero restato senza soggetto attuatore vista la spesa milionaria che implicherebbe - è stato semplicemente abbandonato. Non del tutto, o meglio non in tutte le sue parti. Le tende buttate per terra, i quadri elettrici divelti e un adesivo con lo stemma del Comune appiccicato alla porta del Parlatorio sono tracce di vita quasi recente, perché fino a qualche anno fa, sul lato est, riattato e nemmeno troppo malconcio, ci stava la Circoscrizione 3 e gli uffici comunali poi trasferiti altrove. Segni di vita a brandelli, un quadro con le chiavi, le risme per la fotocopiatrice, riloghe rotte si intravedono oltre il cancello di ferro, il limite invalicabile del «lasciate ogni speranza voi ch’entrate».


    Benvenuti nel braccio uno di Sant’Agata. C’è un soffio gelido che fa il giro del corridoio e sembra non lasciarti mai, tra una cella e l’altra. La vita, la dignità non solo di chi ci passava pezzi di vita scontando pene fino a 10 anni, ma dello stesso edificio, sono tutte in quei muri scrostati, con l’intonaco che si sfoglia come gli strati di una cipolla. Ogni nuovo direttore che arrivava, voleva lasciare il suo segno inconfondibile, scostandosi cromaticamente dal predecessore e riuscendo, in alcuni casi, anche a compiere dei piccoli capolavori di imbiancatura. Qualcuno ha perfino messo una mano di bianco alle piastrelle nei locali dell’infermeria, ricavata al secondo piano e voluta da Leopoldo Pollack, archistar del ‘700 dalle idee illuministe che aveva pure pensato ad una piccola aula per la scuola dei detenuti. La lavagna c’è ancora, intatta al crollo dei calcinacci, è il simbolo della resistenza culturale contro lo sfacelo strutturale. Fuori, la vista sul cortiletto del Circolino è fatta a quadri, anche l’aria sembra ritagliata in forma geometrica. Il vento, attraverso le sbarre, ha fatto il suo lavoro distribuendo, qua e là, mucchi di foglie di diversi autunni. Annusare anche solo per un secondo l’odore della libertà, mista al quella del fritto del Circolino, è come un miraggio. Al tempo del suo massimo splendore carcerario, in una di queste celle ci passavano la vita in sei. Le pareti si sfogliano e cadono, gli armadietti sono stati strappati, i porta tv fissati al muro sono arrugginiti, i bagni sono qualcosa di inimmaginabile. Così le speranze restano incollate vicine ai letti, tra qualche santo, qualche santino e una bella donna con i seni al vento. Stanno insieme fianco a fianco. Il peccato e la grazia, il sacro e il profano, nomi, date. A cinquanta metri i bergamaschi si crogiolano in Piazza Vecchia. Il secondo braccio di Sant’Agata è fatto di cento gradini, più o meno, perché qualcuno non c’è più. Ne sono crollati un paio anche nella scaletta che porta allo stenditoio dove si facevano asciugare le divise. Qui, la notte di Ferragosto del ‘77 ci passarono gli otto detenuti che, dal finestrone alto, riuscirono a fuggire sui tetti. Furono tutti ripresi, tranne uno. I cinque piani fuori terra sono la Divina Commedia fatta carcere. Dall’inferno del primo, dove si procedeva all’identificazione del detenuto e dove a terra si sparpagliano ancora i faldoni vuoti del Tribunale di Bergamo che aveva utilizzato l’androne come magazzino, al purgatorio dell’espiazione. Il paradiso bisogna guadagnarselo all’ultimo piano, la sezione femminile, dove a terra è rimasta una moquette dal colore indefinito, ma basta alzare gli occhi al cielo per trovare i santi che ti sorridono. Sant’Agata su tutti, con i seni tagliati in mano, perché quest’ala del carcere era la sua chiesa, datata 1631. Quando è crollato il controsoffitto di cartongesso i dipinti di Salvatore Bianchi, pittore varesino del ‘700, sono riapparsi in tutto il loro splendore, anche se violentati dalla canna fumaria della stufa, piantata in centro. La freschezza dei colori è intatta, in un perfetto tripudio di santi, mentre da una cornucopia si intravede, nel buio, una cascata dobloni d’oro. Fonte: Corriere della Sera


     
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    C'erano degli interessanti progetti di recupero ma come al solito si è preferito ignorarli...

    ...per lasciare spazio a manifestazioni strapaesane, mercatini di chincaglieria, turismo di bassa lega, strimpellatori estivi e altre inutilità.

     
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1 replies since 6/10/2014, 12:03   71 views
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