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    FALLEN ANGELS
    Bob Dylan


    2016 (Columbia)


    Dylan festeggia i 75 anni con una nuova collezione di riletture di classici pop

    Angeli caduti, canzoni dimenticate. Bob Dylan si china su di loro, le prende per mano, le aiuta a rialzarsi. Forse non altro è che questa, la missione del songwriter: la devozione alla canzone. Difficile, del resto, immaginare una motivazione commerciale dietro alla scelta di Dylan di pubblicare un nuovo volume di riletture di standard pop americani: anche se il precedente "Shadows in the Night" ha ricevuto l'immancabile plebiscito della critica, quanti sentivano davvero il bisogno di ritrovare Dylan ancora una volta alle prese con il repertorio di Frank Sinatra? Ma al vecchio menestrello, appunto, interessano solo le canzoni. E queste, per lui, oggi sono le canzoni più vere di tutte. In realtà, lo infastidisce persino definirle cover: "È una sorta di termine denigratorio, una parola che si è insinuata nel gergo musicale. Negli anni Cinquanta o Sessanta nessuno l'avrebbe capita. Fare una cover vuol dire nascondere qualcosa". Il suo scopo, invece, è tutto l'opposto: non coprire, ma svelare. Non sovrapporre alle canzoni la sua personalità, ma permettere alla loro essenza di emergere, di riaffiorare dopo decenni di stratificazioni musicali. "Se non credi a quello che dice una canzone, se non l'hai vissuto, non ha molto senso interpretarla", afferma deciso Dylan. "Un attore finge di essere un altro, un cantante no. Non si nasconde dietro a nulla. È questa la differenza". La chiave di tutto sta in questo tipo di immedesimazione, nel bisogno di riappropriarsi della verità delle parole più semplici. Un po' com'era accaduto oltre vent'anni fa con un altro fondamentale dittico di album, quello composto da "Good As I Been to You" e "World Gone Wrong". La formula, insomma, è la stessa di "Shadows in the Night": arrangiamenti eleganti e austeri, microfoni vintage pronti a catturare il calore di ogni respiro, una band dai meccanismi perfettamente oliati. E Dylan a vestire da par suo i panni del crooner, compensando in convinzione i limiti di una voce non certo nata per un canzoniere di questo genere. "Fallen Angels" si destreggia tra le ombre e i fantasmi delle sale da ballo di ieri con un tocco appena più lieve del predecessore. Questione di sfumature, dall'andatura swingante di "That Old Black Magic" ai profumi esotici di "On a Little Street in Singapore", di accenti grazie a cui le atmosfere del disco sembrano farsi stavolta meno notturne. Eppure, il brano intorno a cui lo struggimento melodico si avviluppa più strettamente è proprio quello che sin dal titolo ("Melancholy Mood") evoca a chiare lettere il velo della malinconia. Scampoli di archi e fiati accarezzano delicatamente i contorni di "Maybe You'll Be There" e "Skylark", mentre la vena sentimentale di vecchie torch song come "All the Way" (regina della notte degli Oscar del 1957) e "It Had to Be You" (ricordate "Harry ti presento Sally"?) assume una declinazione più assorta che mai al passo delle spazzole. La pedal steel di Donnie Herron e la chitarra di Charlie Sexton continuano a tenere il centro della scena, intrecciandosi come fili d'argento al chiaro di luna di "Polka Dots and Moonbeams". Sfiorarsi danzando in un ballo di campagna e restare legati per sempre l'uno all'altra: è proprio questo senso del destino, in fondo, il vero protagonista di "Fallen Angels". Il "simple twist of fate" che lega in una trama misteriosa gli incontri di una vita, come sembrano suggerire le carte da gioco della copertina. Quando il groviglio si dipana, il tempo non ha più l'aspetto di un nemico: "If you should survive to a hundred and five/ Look at all you'll derive out of bein' alive", mormora Dylan trasformando la vecchia hit di Sinatra "Young at Heart" in un apocrifo country. "And here is the best part, you have a head start/ If you are among the very young at heart". Un cuore sempre giovane, un cuore che non mente. Non c'è augurio migliore di questo, a pensarci bene, per le settantacinque candeline di Mr. Zimmerman. (Ondarock)


    Fallen Angels

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    Pubblicazione - 20 maggio 2016
    Tracce - 12
    Genere - Pop
    Etichetta - Columbia Records
    Produttore - Jack Frost

    Tracce

    Young at Heart (Johnny Richards, Carolyn Leigh) – 2:59
    Maybe You'll Be There (Rube Bloom, Sammy Gallop) – 2:56
    Polka Dots and Moonbeams (Jimmy Van Heusen, Johnny Burke) – 3:20
    All the Way (Van Heusen, Sammy Cahn) – 4:01
    Skylark (Hoagy Carmichael, Johnny Mercer) – 2:56
    Nevertheless (Harry Ruby, Bert Kalmar) – 3:27
    All or Nothing at All (Arthur Altman, Jack Lawrence) – 3:04
    On a Little Street in Singapore (Peter DeRose, Billy Hill) – 2:15
    It Had to Be You (Isham Jones, Gus Kahn) – 3:39
    Melancholy Mood (Walter Schumann, Vick R. Knight Sr.) – 2:53
    That Old Black Magic (Harold Arlen, Mercer) – 3:04
    Come Rain or Come Shine (Arlen, Mercer) – 2:37


    Edited by Lottovolante - 25/5/2016, 20:30
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    17^ TAPPA
    MOLVENO-CASSANO D'ADDA


    Giro, Kluge sorprende gli sprinter: Nizzolo ancora secondo


    Quelle strane etichette. Luigi Malabrocca con i suoi occhi da cinese per due Giri non fece altro che vedere il fondo schiena degli altri: ultimo, maglia nera per antonomasia, tutti lo ricordano così dimenticando che seppe vincere una Parigi-Nantes, una Coppa Agostoni e per due volte il tricolore nella disciplina nobile e fangosa del ciclocross. Gaetano Belloni, leggenda del ciclismo eroico, è l'eterno secondo d'Italia: 150 volte dietro al vincitore in un'epoca cannibalizzata da Binda e Girardengo. Eppure vinse un Giro, due Sanremo, tre Lombardia, nonché svariate tappe. Per una di queste il premio fu un quadro che si affrettò a rivendere, era firmato Picasso... La strana etichetta sta diventando la seconda pelle di Giacomo Nizzolo. L'uomo più atteso, la maglia rossa ceduta da Greipel, 'traditore' della filosofia dei Giro con il suo abbandono programmato e tiranno delle volate insieme ad un altro 'disertore' come Kittel. Basta tedeschi, tocca a lui, l'eterno secondo, e invece... La volata la vince, ma non basta: tredicesimo podio al Giro, ci fa poco. La volata la vince, ma la tappa va a Roger Kluge, un pistard del Brandeburgo! E' uno che fa le Sei Giorni, che ha vinto l'argento alle Olimpiadi di Pechino nella corsa a punti. Nel Dna ha il colpo da finisseur, la sparata all'ultimo km capace di sorprendere il gruppo. Prima di lui la prova l'italiano Filippo Pozzato, ma quando c'è una tappa pianeggiante la lingua ufficiale è il tedesco: la Germania arriva così a quota sei vittorie in questo Giro d'Italia.


    Kluge rappresenta l'epilogo a sorpresa dei 196 km da Molveno a Cassano d'Adda, un traguardo dove si respira lo sport. Vi sono nati due capitani storici della Nazionale di calcio come Valentino Mazzola e Giacinto Facchetti, oltre a Gianni Motta, trionfatore del Giro di 50 anni fa. La carta, ma solo quella, prevede tranquillità: un solo GPM 4/a categoria, c'è la fuga di tre uomini sui quali il plotone incombe come un 'grande fratello'. I tre all'attacco comunque non sono banali, se non altro perché se le sono giocata in situazioni del genere. Daniel Oss indossa la maglia ideale del km passati in fuga, con lui ci sono altri due attaccanti dei giorni precedenti come l'albanese Zhupa e il russo Brutt. Sei minuti di vantaggio massimo, viene da dargli zero possibilità di riuscita, ma c'è la variante atipica. Rientra sui battistrada un altro terzetto composto da Konovalovas, Bak e Belkov. E il drappello ricarica le batterie costringendo le squadre dei velocisti a lavorare doppio. Dietro la Trek di Nizzolo non si nasconde, gestisce la situazione da squadra del favorito. Indubbiamente il milanese sembra diventarlo sempre di più, perché la giornata è quella dei ritiri di due velocisti pericolosi: lasciano Mezgec e quella miscela esplosiva di energie di Caleb Ewan. Inoltre a 2 km dall'arrivo Colbrelli finisce nell'erba a bordo strada... Col brivido, ma alla fine i sei di testa sono agganciati. mancano 1500 metri all'arrivo, precisione chirurgica del gruppo vien da dire, ma prima Pozzato rilancia, poi Kluge chiude l'opera. Adrenalina pura in una giornata di teorico recupero delle energie dei migliori in classifica. Steven Kruijswijk mantiene ovviamente la maglia rosa, ma i riflettori sono tutti per Vincenzo Nibali. "Oggi era una tappa relativamente facile: tolto lo stress degli ultimi 40 chilometri, abbiamo una passato buona giornata", spiega lo Squalo. "La condizione è quella che è, vediamo, bisogna aspettare le tappe più dure -continua con realismo-. In questo momento non sono al meglio, non ci sono altre scuse". Venerdì esami clinici per capirci qualcosa di più: "Questi non sono i miei standard, speravo molto meglio anche io. Non è una scusa ma è giusto avere questo riferimento". Ora c'è da chiudere al meglio il Giro, poi la Francia. L'allenatore di Nibali, Paolo Slongo, annuncia che lo Squalo farà il Tour de France: nei piani dell'Astana avrà un ruolo di supporto per Fabio Aru.

    ORDINE D'ARRIVO

    1. Roger Kluge (Ger-Iam) in 4h31'29"
    2. Giacomo Nizzolo (Ita-Trek) s.t.
    3. Nikios Arndt (Ger-Giant) s.t.
    4. Sacha Modolo (Ita) s.t.
    5. Matteo Trentin (Ita) s.t.
    6. Alexander Porsev (Rus) s.t.
    7. Pim Ligthart (Ned) s.t.
    8. Ramunas Navardauskas (Ltu) s.t.
    9. Manuel Belletti (Ita) s.t.
    10. Paolo Simion (Ita) s.t.

    CLASSIFICA GENERALE

    1. Steven Kruijswijk (Ned-Lotto) in 68h11'39"
    2. Esteban Chaves (Col-Orica) a 3'00"
    3. Alejandro Valverde (Esp-Movistar) a 3'23"
    4. Vincenzo Nibali (Ita) a 4'43"
    5. Ilnur Zakarin (Rus) a 4'50"
    6. Rafal Majka (Pol) a 5'34"
    7. Bob Jungels (Lux) a 7'57"
    8. Andrey Amador (Crc) a 8'53"
    9. Domenico Pozzovivo (Ita) a 10'05"
    10. Konstantin Siutsou (Blr) a 11'03"
    11. Jakob Fuglsang (Den) a 11'21"
    12. Rigoberto Uran (Col) a 13'53"
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    SHAKESPEARE NUDO NEL PARCO
    a Central Park va in scena ''La tempesta'' senza veli


    Per celebrare i quattrocento anni dalla morte di William Shakespeare una compagnia teatrale di sole donne di New York ha messo in scena una versione naturista de "La Tempesta". Dodici interpreti, tutte senza abiti, hanno recitato al tramonto su una collina di Central Park, accompagnate da un violino e una chitarra acustica. La compagnia, Outdoor Cp-Ed Topless Pulp Fiction Appreciation Society, fa parte del movimento dei Topless Book Club, luoghi di ritrovo dove si leggono i classici della letteratura senza alcun abito. Scopo dell'iniziativa è la normalizzazione del corpo nudo femminile.




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    OCTOPUS
    Gentle Giant


    1972 (Vertigo)


    I leggendari menestrelli inglesi all'apice della loro sfrenata inventiva strumentale

    Quando si parla di rock progressivo gli appassionati rievocano all'istante una cornucopia di nomi, immagini e titoli che ne hanno fatto la storia: personaggi divenuti icone in virtù del loro istrionismo e della capacità di forgiare una vera e propria mitologia musicale tra la fine degli anni 60 e la metà dei 70. Un'era dominata da epopee raccontate e suonate con magniloquenza, una gara di bravura tra Yes, Genesis ed Emerson Lake & Palmer, che con le loro suite puntavano ogni volta a una summa della loro sfrenata creatività. Poi negli anni, tra scissioni e dipartite più o meno pacifiche, il sogno sfuma – o perlomeno si ridimensiona vistosamente – andando incontro a soluzioni più attuali, spesso volte a sedurre anche un pubblico meno colto.

    Benché relativamente marginali rispetto ai suddetti numi tutelari del prog, i Gentle Giant sono tra le poche compagini inglesi rimaste fedeli alla propria vocazione sino alla fine, e sempre a livelli più che apprezzabili. Forse anche per questo hanno continuato a essere soprattutto appannaggio di una frangia più “nerd” di entusiasti, che hanno visto in loro il paradigma del gusto per l'arrangiamento barocco e le cavate ritmiche più singolari. Nello stradominio dei concept-album e dei fluviali instrumental, sin dall'esordio omonimo i bardi inglesi hanno convintamente portato avanti una forma-canzone imprevedibile, che a parere di molti trova il suo culmine in “Octopus” (1972), opera poliedrica e inesauribile pur nella sua breve durata complessiva. A loro modo iconici, i Gentle Giant erano un gruppo di capelloni alquanto brutti (tranne il percussionista John Weathers, anch'egli brutto ma quasi del tutto calvo), tre dei quali erano i talentuosi fratelli Shulman. E forse anche questa parentela fa parte del segreto di un'intesa così ineguagliabile: tutti i componenti si destreggiavano disinvoltamente tra più strumenti, come dimostrano anche i filmati che oggi troviamo facilmente su YouTube – live footage che è oro colato. A unirli era infatti uno spirito da antichi menestrelli cantastorie, una fascinazione autentica per la dimensione più “povera” della composizione musicale, la quale però non esclude lo sfoggio di un talento quasi strabordante. La paradigmatica “Raconteur, Troubadour” è una danza per violini gitani e piano elettrico sincopato che ben rappresenta la modesta eleganza con cui si proponevano al pubblico.

    Gather round the village square
    Come good people both wretched and fair
    See the troubadour play on the drum
    Hear my songs on the lute that I strum

    Le invenzioni musicali dei Gentle Giant si rifacevano a tutto un altro immaginario, popolato di miti della letteratura finzionale o scientifica, dal ciclo di romanzi di François Rabelais – ispiratore anche del nome del gruppo e del brano d'apertura dell'Lp “Acquiring The Taste”, come di questo – a grandi pensatori come Ronald Laing, psichiatra scozzese le cui asserzioni risuonano negli intrecci vocali di “Knots”, perla tra le perle che compongono “Octopus”. Exploit di questo tipo restano sempre in bilico tra l'ammiccante ironia da imbonitori e la serietà di professionisti irreprensibili: moog, archi, fiati e vibrafoni imbastiscono un continuo botta e risposta dalle soluzioni più impensate, si rispondono come in una gustosa gag a orologeria svizzera.

    I get what I deserve
    I deserve what I get
    I have it so I deserve it
    I deserve it for I have it

    “The Advent Of Panurge” era un pozzo senza fondo di incastri, richiami che per l'epoca non hanno assolutamente eguali. Ma non ci si inganni a definirli meri virtuosi, o artisti del coup de théatre: i “giganti” non esitano a trasformare in un riff tagliente le ancor più affilate parole di un nichilistico Camus...

    Run, why should I run away
    When at the end the only truth certain
    - One day everyone dies -
    If only to justify life

    [IMG][/IMG]
    Anche se gli episodi di “Octopus” straripano di fantasia, sembra che finiscano sempre per restare coi piedi per terra, nel raccontare le aspirazioni e le miserie della poca cosa umana. Scelte che appaiono ancor più curiose, se si pensa che in quegli anni la tendenza del prog – compreso quello nazionale – era di figurarsi altri mondi, fuggire più lontano possibile dalla realtà rifugiandosi in mitologie apocrife. I Gentle Giant invece trovano persino lo spazio per un'ode malinconica al miglior amico dell'uomo, che nei toni umili e nella preminenza del violino ricorda ancora un quadretto vagabondo; per poi cedere il passo alla commozione più sincera e sovrabbondante nella romantica fanfara di “Think Of Me With Kindness”. Il circo itinerante ha quasi terminato la performance, ma non prima di un altro sorprendente numero: il riff sghembo e imprendibile di “River” – come anche il vorticoso strumentale “The Boys In The Band” – è un altro puro concentrato di inventiva prog, l'estrema conferma del singolare talento di questi improbabili polistrumentisti. Così, mentre in tutta Europa si tentava di emulare i fasti del prog sinfonico più sfavillante, i Gentle Giant battevano con orgoglio una strada tutta loro. La testardaggine – e la bellezza di undici album in studio senza alcun compromesso stilistico – non ha forse pagato quanto avrebbe dovuto, ma per molti sono già da tempo entrati nella leggenda. E se a oggi ancora non conoscete questa gemma, preparatevi a essere stupiti: uno spettacolo senza eguali sta per avere inizio. (Fonte recensione: Ondarock)


    Octopus

    ASCOLTA L'ALBUM

    Pubblicazione - 1972
    Durata - 34 min : 15 s
    Dischi - 1
    Tracce - 8
    Genere - Rock progressivo
    Etichetta - Vertigo
    Produttore - Gentle Giant


    Tracce

    Lato A

    Testi e musiche di Derek Shulman, Ray Shulman, Phil Shulman e Kerry Minnear.

    The Advent Of Panurge – 4:40
    Raconteur Troubadour – 3:59
    A Cry For Everyone – 4:02
    Knots – 4:09

    Lato B

    The Boys In The Band (strumentale) – 4:32
    Dog's Life – 3:10
    Think Of Me With Kindness – 3:33
    River – 5:54


    Formazione

    Derek Shulman - voce, sassofono contralto
    Gary Green - chitarra, percussioni
    Ray Shulman - basso, violino, chitarra, percussioni, voce
    John Weathers - batteria, percussioni, xilofono
    Kerry Minnear - tastiere, vibrafono, percussioni, violoncello, moog, voce, cori
    Phil Shulman - sassofono, tromba, mellophone, voce, cori


    Edited by Lottovolante - 17/9/2016, 19:53
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    GARA
    VERSTAPPEN FA LA STORIA!


    E' IL PIÚ GIOVANE RE DEI GP. FERRARI SUL PODIO


    È nata una stella...

    Max Verstappen all’esordio in Red Bull vince con l’autorevolezza dei veterano il GP di Spagna, diventando, a 18 anni, 7 mesi e 15 giorni, il più giovane di sempre a riuscirci. L’occasione arriva, ma la sfrutta la Red Bull, che scarta il gentile omaggio della coppia Mercedes, che paga la foga di Hamilton, più dell’eccesso di difesa di Rosberg, alla terza curva, con un duplice harakiri che spiana la strada agli altri. La Red Bull stappa e celebra il suo nuovo campione, veloce, maturo e sottoposto pure a una dura prova di nervi nella difesa a oltranza su Kimi Raikkonen, che gli si incolla per oltre 15 giri nel finale, senza però riuscire a scalfirne la leadership. Il finlandese chiude 2° davanti al compagno Vettel. Due Ferrari sul podio appaiono un bilancio confortante viste le premesse, ma il sapore dell’occasione sfuggita, lascia sicuramente un retrogusto molto molto amaro in casa del Cavallino.


    Il patatrack arriva alla curva 3, dopo che Rosberg aveva superato Hamilton al via, all’esterno della prima curva, e Lewis – forse innervosito - tenta un attacco al compagno per riprendersi la posizione e non agevolarne la fuga. Hamilton prende l’interno, in un punto in cui di solito non si passa, Nico difende la posizione con una deviazione ulteriore alla sua destra e la Mercedes del compagno finisce nell’erba. Senza controllo. Testacoda inevitabile, perdita di controllo e collisione con Rosberg. Gara finita per entrambi. Nella sabbia. Manovra sotto investigazione. Safety car immediata e per 4 giri e si riparte con Ricciardo al comando, seguito da Verstappen, Sainz e le Ferrari di Vettel e Raikkonen. Pochi giri e le rosse si sbarazzano di Sainz prima della girandola dei pit stop. Inizia Ricciardo (11° giro), seguito da Verstappen e Raikkonen (12°), mentre Vettel ritarda di 4 giri e rientra terzo a 4”8 da Ricciardo, con un ritmo incalzante. È la dimostrazione che la rossa potrebbe farcela. Al 28° seconda sosta di Ricciardo, che monta le soft; un giro e rientra Vettel, in marcatura. Soft pure per lui. Il distacco fra i due scende. Altre soste, per Verstappen e Raikkonen, e al 38° passaggio la mossa della Ferrari: pit anticipato di Vettel, che monta le media. È un undercut sull’australiano. Il tedesco inizia a guadagnare 1” a giro, ma la Red Bull non si adegua alla marcatura, se non al 43° giro quando fa fermare Ricciardo. Troppo tardi. Seb lo passa durante la sua sosta e rientra 3° alle spalle di Verstappen e Raikkonen. Al 50 dei 66 giri Verstapen è in testa con Raikkonen negli scarichi (0”9), Vettel a 9”1 e Ricciardo a 11”2, con una doppia lotta incrociata fra le rosse e le lattine più veloci del mondo. Al 59° Ricciardo attacca in staccata Vettel, le vetture si affiancano e sfiorano, con Seb che tiene la posizione e si arrabbia in radio “è arrivato dritto nella mia macchina, che facciamo, corse o ping pong”. Alle prese con i doppiaggi, Verstappen non trema e Vettel beneficia di problemi che affliggono Ricciardo, nella forma di un cedimento della posteriore sinistra che lo obbliga ai box: finirà 4°. La gloria però è solo per l’olandesino volante, che al via si era prodotto pure in un sorpasso all’esterno della curva 3 – come Alonso nel 2013 – a Vettel, e che vince con doti di velocità, strategia e freddezza. Futuro campione del mondo. C’è da scommetterci. Come ha fatto Marko. In classifica, la Mercedes “perde 43 punti”, come ha detto Toto Wolff a caldo dopo la collisione iniziale, ma vede Rosberg sempre leader con 100 punti, contro i 61 di Raikkonen, i 57 di Hamilton e i 48 di Ricciardo e Vettel. Senza le Mercedes i GP sono bellissimi ed entusiasmanti. Ma la lotta iridata è affare loro.
  6. .


    SPURS VECCHI ALL'IMPROVVISO
    Così si è chiusa definitivamente un'epopea


    Popovich dovrà ripensare alla costruzione di una squadra che aveva fatto di riposo ed esperienza il proprio credo

    E all'improvviso, dopo aver pensato di poter vincere un altro anello, San Antonio si è scoperta vecchia e stanca. Incapace di giocare di sistema, come fatto per 67 vittorie durante la regular season. Incapace di contrastare l'energia degli indiavolati Thunder, passati da brutto anatroccolo a cigno con tre partite una più bella dell'altra. Gli Spurs invece hanno fatto il percorso inverso: dominanti fino a gara-1, si sono involuti fino all'inattesa eliminazione al sesto atto. Quella che sembrava l'alba di una nuova era si è trasformata trasformata nella fine dell'epoca di Tim Duncan e Manu Ginobili, leggende arrivate (forse) al capolinea. Come è possibile che San Antonio sia passata dalla miglior regular season della sua pluridecorata storia a questo tramonto anticipato che potrebbe essere il prologo di una notte buia? La parola chiave sembra essere una: riposo. Popovich ne ha fatto un credo, parte integrante del suo sistema quanto il pallone che gira all'infinito fino a trovare il giocatore con la chance più alta di fare canestro. In regular season il mantra ha funzionato alla perfezione: "riposo" è diventato uno dei motivi più gettonati per l'assenza di un giocatore. Niente back-to-back, qualche sera libera ogni tanto per conservare le energie in vista dei playoff. Dove però il trucco non funziona, anche se non capita mai di giocare due partite in due giorni. Nella serie contro i Thunder gli Spurs hanno vinto gara-1 e gara-3, le uniche con più di un giorno di stacco dalla partita precedente. E contro gli Oklahoma City Thunder nei playoff non puoi permetterti di lasciare fuori un big per fargli tirare il fiato, come capitato tante volte in regular season...


    I San Antonio Spurs sono diventati vecchi all'improvviso perché le star che ne costruiscono l'essenza sono invecchiate all'improvviso. Tim Duncan ci ha messo tanto orgoglio in quella che potrebbe essere l'ultima partita della sua leggenda, chiudendo con 19 punti. Ma la stoppata che ha subito da Ibaka, chiudendo assieme alla schiacciata in contropiede di Durant un parziale di 20-6 San Antonio, ha sancito la fine dei sogni di rimonta Spurs. E questa per il 40enne The Big Fundamental è stata la peggior serie di una carriera leggendaria: 6 punti e 3,8 rimbalzi di media, con la macchia della prima partita in 251 apparizioni ai playoff senza punti a referto. Steven Adams, una delle chiavi della vittoria di Oklahoma City, l'ha demolito sotto canestro. "Ha ancora tanto da dare" ha detto di Tim Duncan il baffuto centro dei Thunder dopo gara-6. Ma Padre Tempo sembra essersi ricordato dell'esistenza di Timmy. E gli ha presentato il conto. "Non ho ancora deciso cosa farò, fatemi prima uscire di qui e capire cosa fare della mia vita" è il modo in cui il monumento Spurs ha liquidato la questione ritiro. Una decisione simile aspetta anche Manu Ginobili, altro giocatore sembrato l'ombra di se stesso in una serie senza acuti, da 6,5 punti di media. Il terzo Big Three di 4 dei 5 anelli dell'epopea Spurs, Tony Parker, non vede la pensione ma deve riflettere su quale ruolo potrà avere nei nuovi Spurs: ha confermato di non essere più il giocatore irresistibile da cui dipende il destino di San Antonio, facendo seguire a due buone partite la pessima gara-5 con tiro finale preso inspiegabilmente e l’esibizione senza acuti di gara-6. L’eliminazione con Oklahoma City è per i San Antonio Spurs una lezione da cui ripartire. Duncan e Ginobili valuteranno con calma se continuare o no, con una player option da esercitare entro fine giugno. Qualsiasi decisione prendano, il loro status di leggende non cambierà. Se dovessero restare, nei nuovi Spurs avranno un ruolo di comprimari, con Kawhi Leonard e LaMarcus Aldridge star attorno a cui ripartire. Entrambi hanno qualcosa da farsi perdonare, entrambi non hanno fatto il passo avanti che sarebbe servito dopo una splendida regular season. Sono i volti dei nuovi Spurs, devono diventarne i leader. Dal mercato serviranno rinforzi: Kevin Durant è un sogno condiviso con le altre 29 franchigie, Mike Conley il play che potrebbe prendere il posto in regia di Parker. Pau Gasol il “consiglio intrigante” suggerito dal fratello Marc. I nuovi San Antonio dovranno essere giovani (hanno chiuso col primo, secondo e sesto giocatore più vecchio della Association nel roster), più tiratori, in grado di abbracciare lo “small ball” funziona tanto in questa Nba.

    Sì, a San Antonio l’eliminazione contro Oklahoma City ha proprio chiuso un’era...
  7. .


    HYPERLOOP
    IL PRIMO TEST E' OK: ECCO IL PRIMO TRENO CHE SFIORA I BINARI


    Il primo test è andato decisamente a buon fine, sono i primi passi verso una rivoluzione del trasporto a terra, lanciato dal magnate Elon Musk di un sistema di trasporto ultraveloce a terra che sfiorerà la velocità del suono. Vicino a Las Vegas, in Nevada, la Hyperloop One https://t.co/KLbewhnTYH (che in occasione dell'evento ha cambiato nome, prima era Hyperloop technologies) ha provato, sulla 'pista' appositamente costruita, il motore elettromagnetico. Si è trattato della prima pubblica all'aria aperta: il motore lineare ha spinto la slitta fino alla velocità di circa 180 chilometri all'ora in un paio di secondi. Il mezzo ha poi terminato la sua corsa in un banco di sabbia perché non è stato messo ancora a punto un sistema di freni adatto. Un primo test di successo al quale, assicurano da Hyperloop one, ne seguiranno altri nei prossimi mesi. La speranza, infatti, è di poter assistere a una dimostrazione del modello completo entro la fine del 2016: un 'treno' che viaggia in un tubo a bassissima pressione grazie alla levitazione magnetica (oppure a qualche altro sistema di sospensione con cuscinetti d'aria) a una velocità di oltre 1.100 chilometri all'ora. L'idea, lanciata dal patron di Tesla e SpaceX nel 2013, si sta concretizzando in particolare grazie a due enormi compagnie californiane, Hyperloop One e Hyperloop Transportation technologies, nelle quali però Musk non è però entrato come investitore...

    CLICCA E GUARDA IL VIDEO


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    The Rising
    (2002 - Bruce Springsteen)

    From: The Rising





    VIDEO


    Can't see nothin' in front of me
    Can't see nothin' coming up behind
    I make my way through this darkness
    I can't feel nothing but this chain that binds me
    Lost track of how far I've gone
    How far I've gone, how high I've climbed
    On my back's a sixty pound stone
    On my shoulder a half mile line

    Come on up for the rising
    Com on up, lay your hands in mine
    Come on up for the rising
    Come on up for the rising tonight

    Left the house this morning
    Bells ringing filled the air
    Wearin' the cross of my calling
    On wheels of fire I come rollin' down here

    Come on up for the rising
    Come on up, lay your hands in mine
    Come on up for the rising
    Come on up for the rising tonight

    Li,li, li,li,li,li, li,li,li

    Spirits above and behind me
    Faces gone, black eyes burnin' bright
    May their precious blood forever bind me
    Lord as I stand before your fiery light

    Li,li, li,li,li,li, li,li,li

    I see you Mary in the garden
    In the garden of a thousand sighs
    There's holy pictures of our children
    Dancin' in a sky filled with light
    May I feel your arms around me
    May I feel your blood mix with mine
    A dream of life comes to me
    Like a catfish dancin' on the end of the line

    Sky of blackness and sorrow (a dream of life)
    Sky of love, sky of tears (a dream of life)
    Sky of glory and sadness (a dream of life)
    Sky of mercy, sky of fear (a dream of life)
    Sky of memory and shadow (a dream of life)
    Your burnin' wind fills my arms tonight
    Sky of longing and emptiness (a dream of life)
    Sky of fullness, sky of blessed life (a dream of life)

    Come on up for the rising
    Come on up, lay your hands in mine
    Come on up for the rising
    Come on up for the rising tonight

    Li,li, li,li,li,li, li,li,li

  9. .


    GIRO D'ITALIA AL VIA
    TUTTI CONTRO VINCENZO NIBALI


    Non mancano però avversari molto forti, a cominciare dagli spagnoli Landa e Valverde. Da tenere d'occhio l'outsider russo Zakarin e il polacco Majka


    La maglia rosa imbiancata dalla neve verso le Tre Cime di Lavaredo è l'immagine più suggestiva della storia di Vincenzo Nibali al Giro d'Italia. E' vecchia tre anni, ma resta un spot ad effetto per reggere il confronto complesso con il gigante Tour de France. Perché se è vero che la grandeur francese quest'anno è stata sirena irresistibile per i vari Froome, Contador, Quintana, Fabio Aru, il Giro d'Italia si propone come il nemico della banalità, offrendo situazioni interessanti in ogni dove. Tendenzialmente il manifesto dell' edizione numero 99, al via venerdì dall'Olanda (previste tre tappe, è la dodicesima partenza dall'estero), è il morso dello Squalo. I favori del pronostico sono tutti per Nibali, senza sé e con qualche ma... Vero che l'inizio stagionale (fa testo il Giro dell'Oman) è stato incoraggiante, ma è anche giusto sottolineare una certa opacità tra Milano-Sanremo, Giro del Trentino e Liegi. Tanto basta per preoccuparsi? Non necessariamente, visto che Nibali è abilissimo nel calibrare lo stato di forma sull'evento: l'esempio più calzante è lo storico Tour 2014, quando la prima vittoria arrivò a fine giugno, al campionato italiano, dopo un approccio talmente lungo e timido da sollecitare la famosa letterina di richiamo per 'rendimento non adeguatò -inopportuna come poche- del padre padrone dell'Astana, Alex Vinokourov.


    Dunque mancheranno quattro star mondiali di riferimento, il che ovviamente non equivale ad assenza di spettacolo, anzi... Il percorso ad esempio invoglia, si presenta 'democratico', opportunità offerte a tutti. C'è ovviamente tanta salita: il primo arrivo a Roccaraso (sesta tappa) già darà prime indicazioni, ma è chiaro che i momenti della verità saranno altri. La Alpago-Corvara (14esima tappa) con Pordoi, Sella, Giau; la diciannovesima con la Cima Coppi (Colle dell'Agnello a quota 2.744 metri), la penultima -quasi tutta in Francia - con tre GPM sopra i 2.000. C'è parecchia crono, magari non per specialisti purissimi, anche se Cancellara, nonostante spossato da un virus intestinale, è sempre il riferimento principale: il percorso del Chianti sembra un elettrocardiogramma sotto sforzo, l'Alpe di Siusi è in salita. E poi ci sono i giorni per i cacciatori di gloria e quelli per i velocisti. Ma il sale ovviamente è la rosa. Nibali dovrà guardarsi soprattutto da Mikel Landa. Lo spagnolo lo scorso anno correva proprio con l'Astana, e per Aru fu preziosissimo punto d'appoggio nella conquista del secondo posto. La sensazione che il gioco tattico ne limitò potenzialità ancora superiori ce l'ha avuta anche il Team Sky, che per l'occasione ne ha fatto il proprio capitano. Il recente Giro del Trentino ne ha evidenziato un notevole stato di forma, vediamo come se la caverà da leader e soprattutto l'emorragia di minuti nella crono de Chianti. Un gradino più sotto mettiamo Alejandro Valverde, brillante nelle Ardenne ma destinato a restare una perenne incognita per le corse di tre settimane. Se uno vince la Vuelta (ma ormai sono passati sette anni) e sale sul podio al Tour (nel 2015) non si può mettere tra gli outsider, però forse è troppo conservativo nella gestione. Probabilmente non è sempre una scelta su percorsi così duri, ma è chiaro che per portare la rosa a Torino ci vuole il guizzo in più. Ad esempio, proprio l'ultima volta che si chiuse nel capoluogo piemontese, nel 1982, Bernard Hinault, che con alcuni numeri degni di quel fuoriclasse che era, rintuzzò le velleità di un Silvano Contini mai stato così forte. Non sarà comunque solo una lotta a tre. Ci sono tanti outsider che possono dire la loro. A nostro avviso quello da tenere maggiormente d'occhio è il russo Zakarin, che nel recente Giro di Romandia ha confermato un bel salto di qualità. Poi l'incognita Rigoberto Uran: due secondi posti, poi un declino verso un imprevedibile semi anonimato. Quindi l'olandese Tom Dumoulin: prima della Vuelta dello scorso anno, dove sfiorò l'impresa (Fabio Aru lo spodestò all'ultima occasione buona), non lo avremmo preso in grande considerazione. Lui finge di fare lo stesso, adottando un profilo basso ("Punto alle crono e alle Olimpiadi di Rio"), però...Detto che gente come Domenico Pozzovivo e Chaves può togliersi soddisfazioni e cercare un bel piazzamento, chiudiamo con l'ultimo verso outsider, il polacco Rafal Majka: tre tappe di alta montagna vinte al Tour de France e un podio all'ultima Vuelta ne fanno uno da non sottovalutare. Da qui alla maglia rosa però c'è parecchia strada. Il Giro infatti sarà pure epica, imprese, sofferenza, ma è anche una corsa fondata su tanti piccoli dettagli. Chi curerà meglio tutto, vedrà così il suo nome inciso sul trofeo senza fine.
  10. .


    GIRO D'ITALIA 2016
    IL PERCORSO E LA CRONACA DI TUTTE LE TAPPE



    6-29 MAGGIO 2016


    Il Giro d’Italia partirà per la 12°volta dall’estero. Dopo il via dall’Olanda, con una crono individuale e due tappe piatte, si ripartirà da Catanzaro. Alla 6° tappa il 1° arrivo in salita. In questa edizione non ci saranno cronosquadre, dopo la prova iniziale altre due crono individuali: il Chianti Classico Stage e la cronoscalata di Castelrotto. Ci sarà un grande ritorno sulle Dolomiti che aprirà una settimana di grandissime emozioni sulle grandi montagne.



    1^ TAPPA

    Apeldoorn Apeldoorn






    2^ TAPPA

    Arnhem Nijmegen






    3^ TAPPA

    Nijmegen Arnhem






    4^ TAPPA

    Catanzaro Praia a Mare






    5^ TAPPA

    Praia a Mare Benevento






    6^ TAPPA

    Ponte Roccaraso (Aremogna)







    7^ TAPPA

    Sulmona Foligno






    8^ TAPPA

    Foligno Arezzo






    9^ TAPPA

    CHIANTI CLASSICO STAGE CHIANTI CLASSICO STAGE
    Da Radda a Greve in Chianti






    10^ TAPPA

    Campi Bisenzio Sestola






    11^ TAPPA

    Modena Asolo






    12^ TAPPA

    Noale Bibione






    13^ TAPPA

    Palmanova Cividale del Friuli






    14^ TAPPA

    Alpago (Farra) Corvara






    15^ TAPPA

    Castelrotto/Kastelruth Alpe di Siusi/Seiseralm (ITT)






    16^ TAPPA

    Bressanone/Brixen Andalo







    17^ TAPPA

    Molveno Cassano d’Adda






    18^ TAPPA

    Muggiò Pinerolo





    19^ TAPPA

    Pinerolo Risoul






    20^ TAPPA

    Guillestre Sant’Anna di Vinadio






    21^ TAPPA

    Cuneo Torino


  11. .


    OUT OF THE BLUE
    Electric Light Orchestra


    1977 (Jet)



    Nel 1977 Jeff Lynne realizza il suo magnum opus, pietra di paragone per il pop che verra'

    "Ci vollero tre mesi per ultimare un doppio Lp... oggi non basterebbero tre anni"
    (Jeff Lynne)


    Una navicella spaziale atterra nei negozi di dischi nell'autunno del 1977, e sarà destinata ad accompagnare la band che lo incise fino a diventarne il simbolo riconoscibilissimo: in un momento assai turbolento, durante il quale gran parte del pubblico volgeva la propria attenzione al cantautorato impegnato o alla nascente, fulgida stagione del punk (nello stesso anno, non a caso, usciva un tris d'assi composto da "Never Mind The Bollocks" dei Sex Pistols, il primo omonimo album dei Clash e "Rocket To Russia" dei Ramones), sembrava che nulla sarebbe più stato come prima. Ci sono però due dischi in particolare che, in quel 1977, si impongono e diverranno pietre di paragone per la musica leggera internazionale per gli anni a venire: uno è "Rumours" dei Fleetwood Mac, destinato a vendere qualcosa come quaranta milioni di copie e a vincere un prestigioso Grammy Award, e l'altro è l'ambizioso doppio album degli Electric Light Orchestra "Out Of The Blue". Inaspettatamente, come suggerisce il titolo dell'opera che più di ogni altra rappresenta la summa del pensiero e della visione del pop di Jeff Lynne, quest'ultimo sarà insieme il coronamento artistico di una carriera che andava comunque già a gonfie vele e il lavoro di maggior successo fino alla chiusura del capitolo "Elo", avvenuta nella seconda metà degli anni Ottanta.


    Come mai "Out Of The Blue" ebbe un successo tanto clamoroso? Jeff Lynne ha più volte raccontato che la gestazione del doppio disco, inizialmente, non sembrò neanche troppo fruttuosa: il genio del pop di Birmingham, dopo una lunga tournée e con grandi aspettative da parte della casa discografica e del sempre crescente numero di estimatori, prese armi (beh, piano, si tratta solo di una chitarra) e bagagli e si trasferì in uno chalet in Svizzera ("una casa che assomigliava ad un orologio a cucù, tra le montagne") alla ricerca di nuova ispirazione. Non mancò neppure una puntatina in un piccolo negozio di musica per dotarsi di un piano elettrico e di un registratore, ma nel corso delle prime due settimane non arrivò nessuna idea - colpa soprattutto della nebbia e del maltempo. Pare sia stato proprio il primo giorno di sole, durante quel soggiorno, a scatenare in lui un vero raptus creativo che ha pochi eguali nella storia della musica pop. Tutto inizia con "Mr. Blue Sky" e la sua esplosione gioiosa, destinata a diventare un evergreen saccheggiato per almeno otto spot pubblicitari in giro per il mondo, coverizzato da artisti molto diversi tra loro (vanno citate almeno le riletture di Tony Visconti, Lily Allen e dei Decemberists) e utilizzato nella colonna sonora di film, videogiochi e serie Tv. Una melodia facile e accattivante, il cui sviluppo è però tutto fuorché semplice e lineare: lo stesso Jeff Lynne ammette che ci vollero nove ore per perfezionare il giro di accordi e addirittura una settimana per avere il giro di basso esattamente come desiderava; si aggiunga poi la curiosa scelta di far suonare un estintore a Bev Bevan e la strana magia si concretizza in un classico senza tempo, rincorso dagli stessi Elo anche in alcune canzoni successive (una su tutte "The Diary Of Horace Wimp", dall'album "Discovery"). In dodici giorni, dunque, Jeff Lynne finì di comporre le diciassette canzoni di "Out Of The Blue". Ci vollero tre mesi per registrarlo e missarlo: all'inizio si decise di registrare gli archi in una sala molto grande, ma l'eccessivo riverbero non convinse Lynne che successivamente optò per una stanza più raccolta negli studi Musicland di Monaco. Il suono dell'intero lavoro è denso ma allo stesso tempo cristallino, risultato di una ricerca spasmodica della perfezione da parte di Jeff che durante le registrazioni di "Sweet Talkin' Woman" arriva a reincidere alcune parti stravolgendo il testo (in origine era intitolata "Dead End Street"). La canzone diviene un'altra grande hit, ed è la sintesi perfetta dell'art-pop del passato mescolato con le tentazioni della disco music tanto in voga in quel periodo, tra le bollicine funky della melodia, l'armonia delle parti vocali sovraincise e l'uso intelligente del vocoder che fa da ponte tra la strofa e il ritornello. Qualche anno più tardi Robert "Mutt" Lange copiò (a quanto pare) inavvertitamente la melodia di "Sweet Talkin' Woman" quando compose una canzone per Huey Lewis and the News, "Do You Believe In Love". "Out Of The Blue" riassume con successo gli elementi che caratterizzano il suono degli Electric Light Orchestra fino a quel momento e ha il coraggio di guardare oltre, con un occhio al passato e uno volto coraggiosamente al futuro. Jeff Lynne è tanto serio e meticoloso in sala d'incisione quanto capace di prendersi meno sul serio in fase compositiva: un esempio di questo approccio è fornito da "Jungle", campionata dai Beastie Boys nel 1989. Qui il nostro si traveste da Tarzan e danza su una melodia che si adagia sullo stesso giro d'accordi di "C Moon" di Paul McCartney sostenuto, però, da un gioco di percussioni più vicino a "Cecilia" di Simon & Garfunkel: un pastiche studiato fin nel minimo dettaglio - Lynne si prende gioco di chi l'accusa di inserire messaggi satanici nei propri dischi e fa scivolare con nonchalance una frase in tedesco in realtà assolutamente innocua ("Im Dschungel, da tanzen die Tiere herum", traducibile alla ben meglio come "gli animali stanno ballando nella giungla") e usa uno pseudonimo, Spratley Bagweeds, per inventarsi persino una "dance academy" che balla il tip-tap durante la canzone. Bladys e Goreen Turvis, in realtà, sono due nomi che nascondono gli altri tre membri della band (con le stesse iniziali: Bevan, Groucutt e Tandy). "Turn To Stone" è il primo singolo estratto dal doppio Lp ed è un altro grande successo, costruito partendo da un riff di tastiera venutogli in mente durante il fatidico soggiorno svizzero (accadrà ancora una volta, due anni dopo, con "Confusion"), mentre "It's Over", più che una canzone su un amore finito, è un canto liberatorio dopo aver (appunto) finito con successo di scrivere le canzoni per il disco tanto atteso. Non ci sono solo i Beatles nel carnet delle influenze - "Across The Border" tradisce un ascolto attento anche di "Heroes and Villains" dei Beach Boys, tra un dad-rock sufficientemente tirato e insolite contaminazioni mariachi. Ispirata dal cielo notturno tra le montagne svizzere, "Starlight" ha un sapore rhythm 'n' blues alla Al Green. Lo zenith dell'intero doppio Lp è senza dubbio il primo lato del secondo 33 giri, una suite intitolata "Concerto For A Rainy Day": Jeff Lynne continua a giocare con messaggi segreti - durante "Standin' In The Rain" (con un crepitio della pioggia campionato) fa riprodurre agli archi le lettere E, L e O più volte come un codice morse e intende le quattro canzoni che compongono la suite come un blocco indivisibile. Alla fine del primo brano un vocoder annuncia l'inizio della malinconica "Big Wheels", ma finalmente il giorno di pioggia finisce con l'irresistibile vitalità di "Mr. Blue Sky". Lynne si concede un ennesimo vezzo e fa recitare al vocoder le parole "please, turn me over" - un chiaro avvertimento all'ascoltatore che dovrà presto girare il 33 giri e ascoltare il quarto lato. C'è un solo brano strumentale, ed è lo struggente "The Whale" (composto da Jeff dopo aver visto un documentario sulla mattanza delle balene), ma continua in "Out Of The Blue" il ripescaggio - stavolta più sottile e accennato - di temi cari alla tradizione classica: difficile, infatti, non riconoscere un riff della celeberrima "Rhapsody In Blue" di Gershwin citata in "Birmingham Blues". L'album si chiude, nella prima stampa, con l'onirica "Wild West Hero". La ristampa del 2007, pubblicata dalla Sony con la supervisione di Lynne, contiene tre bonus tracks: un brevissimo provino della canzone appena citata, "The Quick And The Daft" e una canzone al tempo mai completata, "Latitude 88 North", lanciata addirittura come singolo per promuovere la nuova edizione pensata per celebrare i trent'anni di "Out Of The Blue". La rimasterizzazione di Joseph Palmaccio ha ottenuto il plauso anche da parte degli audiofili più intransigenti, e sfugge con intelligenza alla famigerata "loudness war" che ha macchiato tanti album vecchi e nuovi nel corso degli ultimi dieci anni. Il successo continuerà ad arridere all'orchestra della luce elettrica ancora per qualche anno. "Discovery" porta alle estreme conseguenze l'amore di Lynne per l'imperante disco music e si adagerà sugli allori grazie alla fortunata colonna sonora del film "Xanadu". Se Jeff Lynne si impegnerà principalmente in produzioni per altri artisti (come Tom Petty, Roy Orbison e il grande amico George Harrison), qualcuno inizia a riabilitarlo dopo i malumori della critica che ne disprezzavano la magniloquenza e i toni sempre un po' sopra le righe. Negli anni Novanta la cantautrice Beverley Craven ammette di essere fortemente influenzata dagli Elo ("Telephone Line" fu il suo primissimo 45 giri), ma solo di recente confeziona il proprio tributo più esplicito alle loro sonorità con "Rainbows" ("there are no rainbows without the rain" è un'allegoria per il nuovo sorgere del sole nella sua vita dopo aver lottato contro il cancro al seno). Poi certo, sono arrivati gli Oasis, i Divine Comedy, i My Life Story di Jake Shillington, l'affettuoso omaggio dei Take That in "Shine" e quello di Fyfe Dangerfield in "She Needs Me", senza tralasciare le spiritate tinte pastello degli Scissor Sisters - segno che gli Elo hanno lasciato un segno nella storia del pop con una proposta elaborata che filtra elementi diversi e li sa proporre con una naturalezza e una semplicità invidiabili...




    Out of the Blue

    Pubblicazione - 3 ottobre 1977
    Durata - 70:12
    Dischi - 2
    Tracce - 17
    Genere - Rock sinfonico
    Art rock
    Rock progressivo
    Etichetta - Jet Records, United Artists Records
    Produttore - Jeff Lynne


    Tracce

    Lato A

    Turn to Stone – 3:47
    It's Over – 4:08
    Sweet Talkin' Woman – 3:48
    Across the Border – 3:53

    Lato B

    Night in the City – 4:01
    Starlight – 4:26
    Jungle – 3:51
    Believe Me Now – 1:21
    Steppin' Out – 4:39

    Lato C (Concerto for a Rainy Day)

    Standin' in the Rain – 4:21
    Big Wheels – 5:05
    Summer and Lightning – 4:14
    Mr. Blue Sky – 5:05

    Lato D

    Sweet Is the Night – 3:26
    The Whale – 5:02
    Birmingham Blues – 4:23
    Wild West Hero – 4:42


    Formazione

    Jeff Lynne – voce, chitarre, cori percussioni, piano, sintetizzatore, minimoog
    Bev Bevan – batteria, percussioni, cori
    Richard Tandy – piano, tastiere
    Kelly Groucutt – voce, basso, percussioni, cori
    Mik Kaminski – violino
    Hugh McDowell – violoncello
    Melvyn Gale – violoncello
  12. .


    NEW YORK DOLLS
    New York Dolls


    1973 (Mercury)


    Violenza e lascivia, graffi e rossetto, nel fondamentale act delle bambole di New York

    New York, 1971. Tutto è pronto per la prima grande truffa del rock'n'roll...

    I precedenti sono tutti lì che attendono di essere mandati in orbita una volta per tutte: l'apatia alienata dei Velvet Underground e la ricerca tutta della grande stagione dell'underground suburbano, le depravazioni sesso-centriche degli Stooges e le scosse dinamitarde degli MC5, la lasciva rabbia dei Rolling Stones, le movenze marziane-femminee di David Bowie, la sfacciataggine di Marc Bolan. I protagonisti di questo straordinario act sono altrettanto pronti a farne un tutto-somma delle parti che resterà per sempre negli annali della musica popular. Dapprima ideuzza di un paio di compagni di college, Bill Murcia e Sylvain Sylvain, e quindi intricato e maledetto (e persino tragico) andirivieni di personaggi e musicisti, il gruppo - che per il nome trasse ispirazione da uno dei primi “ospedali per bambole” di New York - si stabilizzò attorno alla figura di Johnny Thunders, inizialmente maldestro e svogliato bassista e poi (complice un training tecnico e comportamentale di Sylvain), feroce, Hendrix-iano chitarrista solista. Poi David Johansen, un cantante che imbottiva di anfetamine le vocali e accartocciava con enfasi sovreccitata le consonanti; quindi la mitragliante sezione ritmica, il bassista “Killer” Kane e il nuovo batterista Jerry Nolan, in sostituzione del “maledetto” Bill Murcia. Questi, erano i primi, mitici New York Dolls...


    Già dalle prime esibizioni e dalle prime registrazioni, i cinque esibivano portamenti da mignotte, stivali dal collo vertiginoso, zeppe, lunghi abiti un po’ vamp un po’ caste dive degli inferi metropolitani, rossetto marcato e trucchi pesanti, capigliature folte e - manco a dirlo - variopinte, chilometri al di fuori del bon ton. Ciò che li distingueva dai precedenti era la spavalderia e l’implacabile, ambigua eppure ben esplicita unione di più dimensioni: testi delle canzoni, arrangiamenti, pose sul palco, sguaiato entusiasmo, irruenza spaventosa. Il glam appena nato, e così come lo si conosceva (promiscuità, androginia, mitizzazione, cliché assortiti), era già in una sorta di sballo da overdose. Ma ciò ancora non bastava: bisognava imprimere a fuoco il nuovo nome con una grande opera che fotografasse tutto questo prima che fosse troppo tardi. Quando - nel 1973 - i cinque travestiti entrano in studio per registrare il primo album ufficiale omonimo, cambiano la storia del rock. A supportarli alla produzione c’è un Todd Rundgren nel suo periodo d'oro (uno dei tanti che farà tesoro della lezione negli anni a seguire), ma la band ha ampio spazio di esibizione e di gestione. Quanto esce dalle session ha dello sconvolgente. Il disco definitivo mette nella turbina il lato più scioccante del rock duro fino ad allora ascoltato. Ciò che erutta dai solchi ha qualcosa d’inquietante, come se finalmente si fosse scoperto e portato a compimento un discorso, come se la sorgente di tanto disagio giovanile fosse stata finalmente scoperta. L’anthem d’attacco del lato A, probabilmente quello che rimarrà come il loro capolavoro, “Personality Crisis”, è lampante a dir poco, un proclama furibondo d’intensità Rolling Stones-iana che grida ai quattro venti una perversione tutta laida. Con le fucilate di “Vietnamese Baby”, il ritmo bellicoso di “Looking For A Kiss” (un sermone sconcio che fronteggia i morsi della chitarra distorta), la prima facciata è un monolite di violenza scomposta senza posa, interrotto solo dall’effemminata “Lonely Planet Boy”, l’altro lato della questione, l’unica concessione alla piacevolezza (intonata a mo’ di folksinger, con effetti in lontananza alla “Sunday Morning” e velluto di sax che la trasformano in profferta sessuale non meno provocante). In ogni caso, la devastazione sonica di “Frankestein” estremizza il discorso con un crescendo alla dinamite di fremiti via via più densi di tensione spasmodica, un’inarrestabile trenodia torbida, velenosa, tonitruante. La seconda facciata, con il suo subdolo barattare la violenza per l’inganno e la seduzione malefica, è anche più goduriosa. Tutto è perfetto, non c’è una virgola fuori posto in questi atti unici che prendono di petto qualsiasi argomento e qualsiasi spunto armonico (anche quelli volutamente banali). “Trash” è un’esplosione di coretti beat all’ennesima potenza, con ritmo baldanzoso e chitarre arroganti, il tutto portato avanti come sconcia danza pellerossa, sempre più sopra le righe. “Subway Train”, specie grazie al controcanto tenero e scontroso della chitarra di Thunders, è la zona demenziale dello spettro. “Private World” gioca la carta del calypso (con campanacci e piano alla Fats Domino), dove la chitarra - sempre più pornografica e “fallica” - fuoriesce dal magma di suono e “canta”, mentre canto e cori si limitano a biascicare un motto debosciato. Lo scettro di rock’n’roll più demonico della raccolta va a “Bad Girl”, il più feroce dialogo tra urla e schitarrate, un incrocio straniante tra le canzoni che si autorigenerano di Bob Dylan, le pallottole garage dei Sonics e la catarsi satanica degli Stooges. La "Pills” di Bo Diddley lo stempera in senso cantabile e corale (preconizzando il secondo album), ma con un effetto finale anche più conturbante. “Jet Boy” è l’anthem che chiude il cerchio: riff rotolante, batteria stentorea e implacabile, gradinate di battimani; è un hard-rock-muro di suono che, proprio in chiusa e per la prima e unica volta nel disco, apre a una jam strumentale, tutta costruita in velocità saettante. Per anni snobbato ed enormemente sottovalutato dalla critica (si permisero di salutarli come i fratelli scemi statunitensi dei Rolling Stones, un po’ come i Monkees per i Beatles), al punto che la loro avventura si concluse di lì a poco, con un ben inferiore “Too Much Too Soon” (titolo emblematico), è prima di tutto, il primogenito del “it’s better to burn out than to fade away”. Non proprio una truffa, perché questo attestato di rock androgino-erotico, questo amplesso perenne con l’ascoltatore, è fatto e suonato con l’anima. Sta nella vita. Scopre il primo casus belli del punk-rock, e uno dei temi fondamentali della contemporaneità: il sesso. Un diploma di laurea sulla rivoluzione dei costumi, espressa con rabbia, baldanza, e un eroismo sui generis. E starà nelle vite degli altri; le influenze non si contano: tanta seminalità si può comparare solo con il “Velvet Underground & Nico”. L’ovvio glam e neo-glam, l’ovvio punk, dalla sacra triade di Sex Pistols-Clash-Ramones alle pulsioni dei Dead Kennedys di Biafra, e infiniti altri, ma anche la new wave (newyorkese e non), e l’hard-rock di strada, da Guns N’Roses a Jane’s Addiction, all’hard-rock lascivo (prime tra tutte le Runaways). Ci sono poi influenze indirette, come se non bastasse, che emergono ad ascolti successivi dettagliati: “Trash” spalanca definitivamente le porte al power-pop; in “Frankenstein” si odono fitte persino noise-rock; “Subway Train” riecheggia il pop-core con dieci anni d’anticipo; in “Jet Boy” c’è già quasi l’affanno del primo Nick Cave. Todd Rundgren è più presenza intimorita che altro, ma in un’immagine ideale collega e trasforma e accorda il deus ex machina Andy Warhol (Velvet Underground) al burattinaio Malcolm MacLaren (Sex Pistols): quando si dice “corsi e ricorsi” della storia. Tanta importanza avrà un prezzo salato: una volta sciolto il gruppo, solo gli Heartbreakers di Thunders saranno in grado di proseguire il discorso con “L.A.M.F.”, per poi disperdersi di nuovo, colti un’altra volta dal “too much too soon”. I suoi dischi solisti sono solo dignitosi tentativi di farlo rimanere a galla, prima della morte per overdose. Le avventure stilistiche di David Johansen non hanno nulla a che vedere con il gruppo madre. Trapassato anche Jerry Nolan, i superstiti riavvieranno la saga New York Dolls in tempi recenti con ben due dischi di reunion (“One Day It Will Please Us To Remember Even This”, 2006, e “Cause I Sez So”, 2009), che valgono più che altro come la definitiva riabilitazione-consacrazione di un vero mito. (Fonte recensione: Ondarock)

    New York Dolls

    ASCOLTA L'ALBUM

    Pubblicazione - 1973
    Durata - 42:44
    Tracce - 11
    Genere - Hard rock
    Proto-punk
    Glam rock
    Glam punk
    Etichetta - Mercury Records
    Produttore - Todd Rundgren


    Tracce

    Tutte le tracce sono state composte da Johnny Thunders e David Johansen, eccetto dove diversamente indicato.

    Lato A

    Personality Crisis – 3:43
    Looking for a Kiss – 3:20
    Vietnamese Baby (Johansen) – 3:39
    Lonely Planet Boy – 4:10
    Frankenstein (Johansen, Sylvain Sylvain) – 6:00

    Lato B

    Trash (Johansen, Sylvain) – 3:09
    Bad Girl – 3:05
    Subway Train – 4:22
    Pills (Bo Diddley) – 2:49
    Private World (Johansen, Arthur Kane) – 3:40
    Jet Boy – 4:40


    Formazione

    New York Dolls

    David Johansen – voce, armonica a bocca, gong
    Arthur "Killer" Kane – basso
    Jerry Nolan – batteria
    Sylvain Sylvain – chitarra ritmica, pianoforte, voce
    Johnny Thunders – chitarra elettrica, voce

    Musicisti aggiuntivi

    Todd Rundgren – pianoforte, tastiere, sintetizzatore Moog
    Buddy Bowser – sassofono
    Alex Spyropoulos – pianoforte
  13. .


    BLOOM FOREVER
    Thomas Cohen


    2016 (Stolen Recordings)



    Brillante esordio cantautorale a tinte blues per l'ex-vocalist dei rimpianti S.C.U.M

    Certi fiori non seguono le regole della natura, e non si accontentano di fiorire nel più comune dei giardini, o nella più mite delle foreste. Essi sfidano il destino, sbocciando nelle zone più impervie del pianeta, talvolta a ridosso del cratere di un vulcano, o nel bel mezzo del più arido dei deserti. Sono fenomeni spesso inspiegabili alla ragione umana e che poco collidono con gli stessi principi base della vita. Eppure, è proprio questa inspiegabile capacità di reazione e adattamento a eventi altrimenti contrari a renderli elementi naturali semplicemente unici. Ecco, se potessimo definire con una metafora la breve ma intensa parabola artistica di Thomas Cohen, non dovremmo fare altro che immaginare tali meraviglie della flora. Dopo aver cavalcato la celere onda degli S.C.U.M, band non più attiva e tra le più rimpiante dell'ultimo lustro, il cantante e musicista londinese è praticamente apparso su tutti i rotocalchi del Regno Unito dopo la triste e prematura scomparsa nel 2014 della moglie Peaches Geldof, figlia di Bob, giornalista, conduttrice televisiva e modella di successo. Una morte che ha inesorabilmente scosso la vita del giovane Thomas, rimasto solo con i piccoli Astala e Phaedra. Un evento che l'ex-frontman degli S.C.U.M cerca di "superare" in qualche maniera, dichiarando di non volersi mai più sentire come un giovane genitore single in preda ai rimpianti, ma di voler tornare a vivere e a sorridere alla vita senza alcuna forma di cedimento ad ogni tormento.

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    La nascita del suo primo disco da solista, intitolato "Bloom Forever", palese riferimento al nome del secondo figlio Phaedra Bloom Forever, trae dunque ispirazione dalla volontà di continuare a sbocciare e fiorire al di là degli eventi e dello scorrere inesorabile del tempo. Una dichiarazione di intenti che pone le basi di un nuovo approccio musicale, che si discosta non poco dai fasti rock dalle tinte dark e dagli umori infranti palesati nell'unico album della sua ex-band d'appartenenza e che trova il suo raggio d'azione in un formula blues sbilenca, dai testi semplici e diretti. È l'anima profonda di un cantautore che si ritrova improvvisamente, e ancora troppo presto, a fare i conti con se stesso, con una vita che non fa sconti e che non guarda in faccia a nessuno. Tale dramma è melanconicamente vissuto nel piano morbido e leggiadro di "Only Us", ballata dal sapore antico, densa di nostalgia e di quel sentimento amoroso che mai potrà svanire. È il momento più intenso e nichilista di un album che invece riesce a bilanciare alla perfezione momenti dai risvolti armonici differenti. A tal proposito, si prenda ad esempio il coro arioso, speranzoso e leggiadro di "No Rain", l'elegante climax di "New Morning Comes", i quali segnalano una cura dei dettagli minuziosa, e una scelta certosina delle singole partiture strumentali. Al contempo, la carezzevole title track, sorta di ballad dall'andatura coffee-blues, è una dichiarazione d'amore di Cohen verso il polveroso cantautorato americano nato ai bordi del Mississippi. L'andatura è lenta, dannatamente pacata, con il basso, la chitarra e il piano Rhodes a farla da padroni, mentra il cantato poggia su tonalità tanto struggenti, quanto volutamente fiacche, quasi a volersi cullare nel decadimento strumentale puntualmente sghembo e narcotico. Stesso dicasi dell'open track "Honeymoon", del suo ammaliante sassofono e della sua stralunata struttura armonica, che a tratti rimanda alle brille disarticolazioni lo-fi dei grandissimi Hefner. Nell'album trova spazio anche un'asciutta leggerezza, che prende quota nel brioso trotto acustico di "Hazy Shades", mentre la coda della conclusiva "Mother Mary" pone in circolo l'unico effettivo momento in cui il "fantasma" degli S.C.U.M torna a mostrarsi con tutto il suo carico di tastiere dal pathos cupo e deviato. In conclusione, "Bloom Forever" ci consegna l'esordio di un giovane artista interiormente ferito, ma già estremamente maturo nel seguire con la propria personale inclinazione lo-fi i sentieri cantautorali dei principali modelli di riferimento, Townes Van Zandt e Van Morrison. Un giovane autore pronto a fiorire "per sempre", in tutta la sua meraviglia e nella più accecante sregolatezza.

    Tracklist

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    Honeymoon
    Bloom Forever
    Morning Fall
    Hazy Shades
    Country Home
    Ain't Gonna Be No Rain
    New Morning Comes
    Only Us
    Mother Mary
  14. .


    LUKE WALTON
    L'ex assistente dei Warriors nuovo coach dei Lakers


    Alla prima esperienza da head coach, dovrà riportare in alto una franchigia da tempo in crisi di risultati

    Un po’ a sorpresa per i tempi e i modi, i Los Angeles Lakers hanno annunciato Luke Walton come nuovo head coach nella serata di venerdì, cinque giorni dopo aver dato al benservito a Byron Scott. Il g.m. Mitch Kupchak e Jim Buss hanno incontrato l’attuale assistente dei Warriors giovedì sera a Oakland e trovato l’accordo economico nella giornata di venerdì. I termini e la lunghezza del contratto verranno resi noti successivamente. Walton rientra dalla porta principale nella squadra che l’ha visto protagonista per nove anni come giocatore. Scelto al secondo giro del 2003 (numero 32) dai Lakers da University of Arizona, il giocatore figlio d’arte ha impressionato subito Phil Jackson per la sua intelligenza tattica, che ha spinto la dirigenza gialloviola a far firmare a Walton nel 2007 un contratto di 6 anni a 30 milioni. I problemi fisici cronici ne hanno limitato l’impiego sul campo le stagioni successive, culminate con i titoli nel 2009 e 2010. Finita la carriera di giocatore a Cleveland, Walton ha iniziato l'avventura in panchina come assistente a University of Memphis e ai Los Angeles D-Fenders in D-League, prima dell’approdo ai Warriors nel 2014. L'assenza di Steve Kerr per i problemi alla schiena ha portato Walton a diventare per 43 partite head coach di Golden State, e l'inizio sensazionale lo ha reso uno dei nomi più caldi del mercato. Sotto la sua guida la squadra di Curry e Klay Thompson ha collezionato un record di 39 vittorie e 4 sconfitte, inclusa la fenomenale partenza di 24-0. Per molti è stata la prova del nove, la conferma che tutti aspettavano per capire quanto il figlio del grande Bill fosse pronto ad alto livello.


    Kupchack e Jim Buss, alla disperata ricerca di ridare credibilità e forza a una franchigia in grossa crisi di risultati, non hanno perso tempo, puntando decisi su Walton e chiudendo appena possibile l'affare. “Siamo entusiasti di riportare Luke a Los Angeles – le prime parole di Kup – per quello che pensiamo sia l’inizio di una grande carriera. E’ una delle menti più brillanti oggi nel basket e ci sentiamo fortunati di avere lui a guidare la nostra squadra nell’immediato futuro”. Walton, a soli 36 anni, sarà il 26° allenatore della storia dei Lakers, il 22° da quando la franchigia si è spostata in California, il quinto da quando Phil Jackson ha lasciato la città degli angeli nel 2011. Restano i dubbi se l’affidare una panchina così importante a un giovane con praticamente zero esperienza da capo allenatore NBA sia la mossa giusta, soprattutto in un momento come quello attuale dei Los Angeles Lakers, con tanti giovani e poche certezze sul futuro a iniziare dal quadro dirigenziale. La firma immediata di Walton chiude la strada a Ettore Messina, che godeva altissima considerazione ed era da subito apparso l’alternativa più credibile in caso di no di Walton. I Lakers avevano in programma di incontrare Messina a San Antonio all'inizio della prossima settimana, ma l'intesa con Walton ha ovviamente cambiato i piani. Walton, che inizierà con i Los Angeles Lakers subito dopo la fine della stagione con Golden State, è entusiasta del nuovo incarico: “Ho imparato tantissimo da Steve Kerr e porterò nel cuore per sempre i miei anni con i Warriors. Sarò sempre grato a lui, alla franchigia e ai giocatori. Allo stesso tempo ho sempre sognato di essere head coach in NBA e aver l’opportunità di farlo per i Lakers non è un occasione che capita spesso.” La sua nuova avventura a Lakers può iniziare.
  15. .


    WHITE LIGHT/WHITE HEAT
    Velvet Underground


    1968 (Verve)


    Il secondo lavoro dell'ensemble newyorkese, ancora più dissonante e rumoroso


    In una possibile lettura alternativa, la celebre teoria di Brian Eno su "chi ha comprato The Velvet Underground & Nico poi ha formato una band" può diventare un aneddoto su quanto poco quel disco abbia venduto, e quindi su quanto fosse ignorato e sottovalutato alla fine dei lungimiranti Sessanta. È altamente improbabile che i Velvet Underground potessero mai diventare idoli di qualche folla dando le spalle al pubblico e non avendo in organico nessuno in grado di adoperare il bacino secondo i dettami della gloriosa tradizione dei frontmen, ma è almeno errato dipingerli come gruppo totalmente ignorato. La band (line-up per i neofiti: Lou Reed, voce e chitarra, John Cale, viola, organo e poche volte basso, Sterling Morrison, chitarra e di mala voglia basso, e Maureen Tucker, percussioni) e Nico erano seguiti in tour da Andy Warhol per l'allestimento dell'Exploding Plastic Inevitable, il quale li consigliava, li coccolava e faceva scrivere il suo nome bello grosso sui manifesti. La cosa era più che sufficiente a garantire un certo hype. Per questo, l'esordio uscì in un clima di favorevole aspettativa, almeno in determinati ambienti, di cui è testimone la fulminea entrata nella Top200 di Billiboard e nella Top100 di Cashbox. Impresa eroica, visto che fu recensito da poche riviste e le radio non lo sostennero affatto. Visto che l'uscita fu rimandata per mesi, allo scopo di cedere il passo ai compagni di etichetta Mother of Invention, stemperando non pochi entusiasmi, e che quando sembrava che nonostante tutto stesse ingranando fu ritirato dalle vendite per un dissidio legale con uno che compariva tra il pubblico in una foto live sul retro-copertina e riteneva di avere diritto a dei soldi. Insomma, più che di "perdentismo", si tratta così di scarso tempismo bello e buono...


    Tutti i fattori che fecero di "The Velvet Underground & Nico" un fiasco commerciale, da potenziale macchina da hit che era, furono però determinanti al concepimento del suo successore, "White Light/ White Heat", stampato nel 1969 dalla Verve e inciso da un gruppo a dir poco diverso da quello della banana. E non stiamo parlando solo di line up. All'indomani delle tribolazioni legate all'esordio, i Velvet Underground, frustrati dallo scarso successo, in particolare Reed, e dal non avere soldi per altro che non fosse cibo, sigarette o droga, decidono (o lo fa Lou per tutti) che la cosa da fare è chiudere con le performance nelle gallerie d'arte e confrontarsi con l'industria discografica vera e propria. Per farlo, licenziano Warhol, che ritengono comunque stanco di loro. Suonano molto dal vivo, con gente come Zappa e i grandi nomi della West Coast, o con gli MC5. Questo genera un'evoluzione in ambito strettamente sonoro. La gente che sta sotto il palco vuole ballare, non ha frequentato scuole d'arte e non ci sono immagini proiettate che la distraggano. I Velvet diventano meno minimali e più "hard". Reed che ha sempre avuto un certo amore per i ritornelli catchy e le canzoni "gioiellino", ritiene che la strada da seguire sia quella segnata dai brani che aveva a malincuore fatto cantare a Nico (che è stata elegantemente messa alla porta prima ancora di Warhol). Cale, sempre meno disposto a imbracciare il basso, crede invece che bisogni sperimentare, e la sua strada passa dal rendere i "gioiellini" minacciosi, grandiosi ed epici. Questa è una semplificazione, come si sarà resoconto chiunque conosca i due (in una recente intervista un poco conciliante Cale si vanta del fatto che alcuni dei suoi brani solisti hanno melodie così belle ed efficaci che sarebbero ottime suonerie per cellulari, mentre quelli di Reed no...), ma può essere utile a descrivere una band allo sbando e incerta del proprio futuro. In un clima di discussioni estenuanti e stizza generale, con Sterling che non si piega a suonare il basso che Cale trascura per il suo amato organo e quindi senza un sound definito, la band propone alla Verve un disco registrato in presa diretta e strutturato come un live. L'etichetta, che non ci aveva guadagnato quando con loro c'era Warhol e giustamente ritiene poco probabile riuscirvi ora, senza troppi travagli interiori li affida allo svagato produttore Tom Wilson. I Velvet realizzano così un disco con una qualità sonora di molto inferiore all'esordio, che vendette ancora di meno e non vide mai la luce dell'Fm. Non c’è niente di paradossale in questo però, come stiamo per scoprire... La prima cosa da dire su questo disco è che, su qualunque supporto ne godiate, la qualità audio è indecente. Il luogo comune è che la tecnologia del tempo non era in grado di catturare il suono fantastico della band, ma viene presto sfatato dall'ascolto. In genere, nei dischi degli anni 60 gli strumenti non si confondono tra loro. In questo, talvolta, sì. La leggenda narra che il produttore fosse intento a pomiciare per la gran parte della lavorazione, svoltasi non esattamente nello studio migliore d'America, e che la cosa innervosisse tremendamente Reed. Secondo Cale, l'idea di registrare a volumi follemente alti fu frutto di queste incazzature. Diciamo poi che non usarono molti canali, e la conclusione è che molti bootleg, anche analogici, si sentono meglio. Manca un secondo perché l'album duri 40 minuti, e in fase di composizione coesistono la vena folk e quella proto-noise e sperimentale della band. In fase di esecuzione ci si sbilancia nettamente verso la seconda. "White Light/ White Heat", che apre l'album, è piuttosto diversa dalle celebri versioni sparse nei live di Lou Reed. Per cogliere organo e chitarra dovrete aguzzare le orecchie, e idem per i timidi battiti di Tucker. E non perché siano sovrastati da qualcosa, ma perché la base poco ci manca che sia un unico suono stridente e ovattato. Comunque sintomatica del cambio di rotta sopra illustrato, dato che la si può ballare. Dopo c'è "The Gift". Cale si impadronisce del microfono per la prima volta e recita la surreale storia di Waldo che, per fare visita alla fidanzata, si spedisce in un pacco a mezzo posta. La missiva giunge a destinazione, ma l'amata e ignara Marsha pensa bene di infilzare l'involucro con delle forbici di grosse dimensioni, che penetrano "attraverso la testa di Waldo Jefferson, che si squarciò lieve tra archi ritmici di colore rosso che pulsavano dolcemente nel sole del mattino". Su un canale il serafico Cale, sull'altro una base soul-funk, groovy quanto poco lo è la voce. Rap è eccessivo, visto che voce e base si ignorano sfrontatamente, ma è black music di sicuro. "Lady Godiva's Operation" è un po' più folk, ma strana e ossessiva. Uno dei più bei testi di Reed esplode nel contrasto tra la voce sopita di Cale e quella tagliente dello stesso Lou, che si inserisce a sottolineare la fine dei versi. Splendida, sintetizza e porta agli estremi ciò che li rese unici. Ciò che li rese indispensabili sta più avanti. "Here She Comes Now" era stata scritta per Nico e doveva stare sul primo disco. "I Heard It Call My Name" non è troppo lontana da quello facevano a Detroit gli MC5, solo con un bel po' di beat in più. Protagonista indiscussa di questo pezzo, dopo essere stata fattore determinante degli altri, è la piccola e mai troppo amata Moe. È monotona e veloce, accompagna assoli di chitarra convulsi e scriteriati. L'accompagnamento, ronzii consueti e ritmiche di chitarra, è quasi indistinguibile. Il disco in esame sarebbe un capolavoro anche in virtù delle sole "The Gift", "Lady Godiva's Operation" e "I Heard Her Call My Name", ma dopo c’è "Sister Ray", e si parla di leggenda. Per 17 minuti i nostri si svenano su volumi stratosferici, come si indovina dai difetti di registrazione. Si racconta che per evitare discussioni vertenti su "il mio strumento si sente meglio sull'altro nastro" e prevedendo che la cosa sarebbe stata faticosa, i Velvet avessero stabilito che sarebbe stata buona la prima. Per questo motivo ogni idea doveva essere inserita subito. Il testo raccontava di un festino gay con morto, la musica, o quello che se ne sapeva prima di attaccare le spine, si sarebbe dovuta sviluppare intorno a poche idee melodiche e ritmiche basiche, e dalla linearità non si doveva staccare. Come in tutto il disco, molti drones e tanto feedback. Ingrana melodia e testo, e al quinto minuto l'organo e la batteria si affrontano in un duello epico, che per un po' farà perdere le tracce delle due chitarre. A conferma di quanto sia utile avere del gusto, anche un assolo di tastiere può non essere barocco, qualunque cosa pensi chi è svezzato a pane e punk. Fino ad allora sistematica e precisa, Tucker abbassa il tiro solo al decimo minuto, e inserisce la prima variazione di ritmo. Dopo un bel po' di ritmo e drones, senza altri condimenti e di cantati reediani di cui una tale Patti Smith saprà prendere nota, le chitarre risorgono in un allegro caos e stramazzano felici. Prima di ascoltarla chiunque abbia seguito un percorso di matrice rock 'n' roll non può fare a meno di chiedersi come si possano reggere 17 minuti senza una combinazione di note che possa definirsi "bella" nell'accezione cara a Coltrane, niente che si faccia aspettare particolarmente. Risposta: per l'energia. Al di là della portata rivoluzionaria e degli intenti ambiziosi, mi riferisco alla gioia isterica che trasuda dalla traccia 6 del cd, la stessa di chi conosce due note e le ripete allo sfinimento, facile da riconoscere anche per chi di minimalismo non ha mai sentito parlare. Quella di cui Moe Tucker, caposcuola dei batteristi dislessici, è in fondo un simbolo. L'immagine dei quattro che danno fondo alle loro risorse per imbottire la canzone è poetica come poche, nonché un motivo per mettere su il disco di corsa. A fine ascolto la qualità sonora pessima diventa quasi un tratto determinante: è difficile immaginare "White Light/ White Heat" registrato decentemente. Così com'è, è dotato di una piacevole piattezza che lo rende monolitico e coeso nel suono quanto è aperto e problematico nei temi. Le immagini meno facili rispetto a quelle del predecessore, l'ambizione maggiore e le soluzioni più estreme lo rendono più alieno, la concisione evita che cada nei difetti più consueti per quelli della sua specie. Se l'esordio era una stanza aperta su agghiaccianti finestre, questo è uno sgabuzzino con una porta che dà su strade fredde e buie, ma allettanti. Se di "The Velvet Underground & Nico" si può essere appagati e soddisfatti, di "White Light/ White Heat" no, mai. Se ne vorrà sempre ancora. Non ha banane in copertina ed è il riassunto delle promesse non mantenute da una delle band più grandi di sempre, ma che poteva essere molto di più. Cosa non si riesce a immaginare, ma sicuramente di più. Un disco difficile a parole ma nei fatti di esaltante ascolto, figlio del lato crudo dei 60, quindi di quello vero, pieno di domande e con zero risposte, come tutte le opere oneste che non sguazzano nel loro stato di opere oneste... È e sarà svezzamento di tanti rivoluzionari e imperitura gioia delle loro orecchie.

    White Light/White Heat

    Pubblicazione - 30 gennaio 1968
    Durata - 40 min : 12 s
    Tracce - 6
    Genere - Rock sperimentale
    Proto-punk
    Rock and roll
    Rock psichedelico
    Etichetta - Verve Records
    Produttore - Tom Wilson
    Registrazione - Scepter Studios, New York, settembre 1967


    Tracce

    Lato A

    White Light/White Heat - 2:47
    The Gift - 8:19
    Lady Godiva's Operation - 4:56
    Here She Comes Now - 2:04

    Lato B

    I Heard Her Call My Name - 4:38
    Sister Ray - 17:27


    Formazione

    Lou Reed - voce, chitarra, pianoforte
    John Cale - voce, viola elettrica, organo, basso
    Sterling Morrison - voce, chitarra, basso
    Maureen Tucker - percussioni
2929 replies since 21/4/2008
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