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Il taccuino del Vecchio
da Ultimi cori della terra promessa
Roma, 1952/1960
4.
Verso meta si fugge:
Chi la conoscerà?
Non d'!taca si sogna
Smarriti in vario mare,
Ma va la mira al Sinai sopra sabbie
Che novera monotone giornate.
5.
Si percorre il deserto con residui
Di qualche immagine di prima in mente,
Della Terra Promessa
Nient'altro un vivo sa.
6.
All'infinito se durasse il viaggio,
Non durerebbe un attimo, e la morte
È già qui, poco prima.
Un attimo interrotto,
Oltre non dura un vivere terreno:
Se s'interrompe sulla cima a un Sinai,
La legge a chi rimane si rinnova,
Riprende a incrudelire l'illusione.
7.
Se una tua mano schiva la sventura,
Con l'altra mano scopri
Che non è il tutto se non di macerie.
È sopravvivere alla morte, vivere?
Si oppone alla tua sorte una tua mano,
Ma l'altra, vedi, subito t'accerta
Che solo puoi afferrare
Bricioli di ricordi.
8.
Sovente mi domando
Come eri ed ero prima.
Vagammo forse vittime del sonno?
Gli atti nostri eseguiti
Furono da sonnambuli, in quei tempi?
Siamo lonfani, in quell'alone d'echi,
E mentre in me riemergi, nel brusio
Mi ascolto che da un sonno ti sollevi
Che ci previde a lungo.
9.
Ogni anno, mentre scopro che Febbraio
E sensitivo e, per pudore, torbido,
Con minuto fiorire, gialla irrompe
La mimosa. S'inquadra alla finestra
Di qudla mia dimora d'una volta,
Di questa dove passo gli anni vecchi.
Mentre arrivo vicino al gran silenzio,
Segno sarà che niuna cosa muore
Se ne ritorna sempre l'apparenza?
O saprò finalmente che la morte .
Regno non ha che sopra l'apparenza?
13.
Rosa segreta, sbocci sugli abissi
Solo ch'io trasalisca rammentando
Come improvvisa odori
Mentre si alza il lamento.
L'evocato miracolo mi fonde
La notte allora nella notte dove
Per smarrirti e riprenderti inseguivi,
..
Da libertà di più
In più fatti roventi,
L'abbaglio e l'addentare.
14.
Somiglia a luce in crescita,
Od al colmo, l'amore.
Se solo d'un momento
Essa dal Sud si parte,
Già puoi chiamarla morte.
16.
Da quella stella all'altra
Si carcera la notte
In turbinante vuota dismisura,
Da quella solitudine di stella
A quella solitudine di stella.
17.
Rilucere inveduto d'abbagliati
Spazi ove immemorabile
Vita passano gli astri
Dal peso pazzi della solitudine.
22.
È senza fiato, sera, irrespirabile,
Se voi, miei morti, e i pochi vivi che amo,
Non mi venite in mente
Bene a portarmi quando
Per solitudine, capisco, a sera.
23.
In questo secolo della pazienza
E di fretta angosciosa,
Al cielo volto, che si doppia giù
E più, formando guscio, ci fa minimi
In sua balia, privi d'ogni limite,
Nel volo dall'altezza
Di dodici chilometri vedere
Puoi il tempo che s'imbianca e che diventa
Una dolce mattina,
Puoi, non riferimento
Dall'attorniante spazio
Venendo a rammentarti
Che alla velocità ti catapultano
Di mille miglia all'ora,
L'irrefrenabile curiosità
E il volere fatale
Scordandoti dell'uomo
Che non saprà mai smettere di crescere
E cresce già in misura disumana,
Puoi imparare come avvenga si assenti
Uno, senza mai fretta né pazienza
Sotto veli guardando
Fino all'incendio della terra a sera.
24.
Mi afferri nelle grinfie azzurre il nibbio
E, all'apice del sole,
Mi lasci sulla sabbia
Cadere in pasto ai corvi.
Non porterò più sulle spalle il fango,
Mondo mi avranno il fuoco,
I rostri crocidanti
L'azzannare afroroso di sciacalli.
Poi mostrerà il beduino,
Dalla sabbia scoprendolo
Frugando col bastone,
Un ossame bianchissimo.
27.
L'amore più non è quella tempesta
Che nel notturno abbaglio
Ancora mi avvinceva poco fa
Tra l'insonnia e le smanie,
Balugina da un faro
Verso cui va tranquillo
Il vecchio capitano.. -
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Monologhetto
da Un grido e paesaggi
Sotto le scorze, e come per un vuoto,
Di già gli umori si risentono,
Si snodano, delirando di gemme:
ContUrbato, l'inverno nel suo sonno,
Motivo dando d'essere
Corto al Febbraio, e lunatico,
Più non è, nel segreto, squallido;
Come di sopra a un biblico disastro,
Nelle apparenze, il velario si leva
Lungo un lido, che da quell'attimo
Si scruta per ripopolarsi:
Di tanto in tanto riemergenti brusche
Si susseguono torri;
Erra, di nuovo in cerca d'Ararat,
Con solitudini salpata l'arca;
Ai colombai risale l'imbianchino.
Sopra i ceppi del roveto dimoia
Per la Maremma
E
Qua e là spargersi s'ode,
Di volatili in cova,
Bisbigli, pigolii;
Da Foggia la vettura
A Lucera correndo
Con i suoi fari inquieta
I redi negli stabbi;
Dentro i monti còrsi, a Vivario,
Uomini intorno al caldo a veglia
Chiusi sotto il lume a petrolio nella stanza,
Con i bianchi barboni sparsi
Sulle mani poggiate sui bastoni,
Morsicando lenti la pipa
Ors' Antone che canta ascoltano,
Accompagnato dal sussurro della rivergola
Vibrante di tra i denti
Del ragazzo Ghiuvanni:
Tantu lieta è la sua sorte
Quantu torbida è la mia.
Di fuori infittisce uno scalpiccìo
Frammischiato a urla e gorgoglio
Di suini che portano a scannare, scannano,
Principiando domani Carnevale,
E con immoto vento ancora nevica.
Lasciate dietro tre pievi minuscole
Sul pendio scaglionate
Con i tetti rossi di tegole
Le case più recenti
E,
Coperte di lavagna,
Le più vecchie quasi invisibili
Nella confusione dell'alba,
L'aromatica selva
Di Vizzavona si attraversa
Senza mai scorgerne dai finestrini
I larici se non ai tronchi,
E per brandelli,
E
Da Levante si passa poi dei monti,
E l'autista anche a voce il serpeggio:
Sulla, umbrìa, umbrìa,
Segue, se lo ripete
E, o a Levante o a Ponente, sempre in monti,
Torna il nodo a alternarsi e, peggio,
La clausura distesa:
Non ne dovrà la noia mai finire?
E,
A più di mille metri
D'altezza, la macchina infila
Una strada ottenuta nel costone,
Stretta, ghiacciata, .
Sporta sul baratro.
Il cielo è un cielo di zaffiro
E ha quel colore lucido
Che di questo mese gli spetta,
Colore di Febbraio,
Colore di speranza.
Giù, giù, arriva fino
A Ajaccio, un tale cielo,
Che intirizzisce, ma non perché freddo,
Perché è sibillino;
Giù, arriva giù, un tale
Cielo, fino a attorniare un mare buio
Che nelle viscere si soffoca
Il mugghiare continuo,
Ed incede il Neptunia.
A Pernambuco attracca
E,
Tra le barchette in dondolo,
E titubanti chiattole
Sul lustro elastico dell'acqua,
Nel breve porto impone, nero,
L'ingombro svelto del suo netto taglio.
Ovunque, per la scala della nave,
Per le strade gremite,
Sui predellini del tramvai,
Non c'è più nulla che non balli,
Sia cosa, sia bestia, sia gente,
Giorno e notte, e notte
E giorno, essendo Carnevale.
Ma meglio di notte si balla,
Quando, uggiosi alle tenebre,
Dalla girandola dei fuochi, fiori,
Complici della notte,
Moltiplicandone gli equivoci,
Tra cielo e terra grandinano
Screziando la marina livida.
Si soffoca dal caldo:
L'equatore è a due passi.
Non penò poco l'Europeo a assuefarsi
Alle stagioni alla rovescia,
E, più che mai, facendosi
Il suo sangue meticcio:
Non è Febbraio il mese degli innesti?
E ancora più penò,
Il suo sangue, facendosi mulatto
Nel maledetto aggiogamento
D'anime umane a lavoro di schiavi;
Ma, nella terra australe,
Giunse. alla fine a mettere a un solleone,
La propria più inattesa maschera.
Non smetterà più di sedurre
Questo Febbraio falso
E,
Fradici di sudore e lezzo,
Stralunati si balli senza posa
Cantando di continuo, raucamente,
Con l'ossessiva ingenuità qui d'uso:
Ironia, ironia
Era so o que dizia.
Il ricordare è di vecchiaia il segno,
Ed oggi alcune soste ho ricordate
Del mio lungo soggiorno sulla terra,
Successe di Febbraio,
perché sto, di Febbraio, alla vicenda
Più che negli altri mesi vigile.
Gli sono più che alla mia stessa vita
Attaccato per una nascita
Ed una dipartita;
Ma di questo, non è momento di parlare.
E anch'io di questo mese nacqui.
Era burrasca, pioveva a dirotto
A Alessandria d'Egitto in quella notte,
E festa gli Sciiti
Facevano laggiù
Alla luna detta degli amuleti:
Galoppa un bimbo sul cavallo bianco
E a lui dintorno in ressa il popolo
S'avvince al cerchio dei presagi.
Adamo ed Eva rammemorano
Nella terrena sorte istupiditi:
E tempo che s'aguzzi
L'orecchio a indovinare,
E una delle Arabe accalcate, scatta,
Fulmine che una roccia graffia
Indica e, con schiumante bocca, attesta:
Un mahdi, ancora informe nel granito, ..
Delinea le sue braccia spaventose;
Ma mia madre, Lucchese,
A quella uscita ride
Ed un proverbio cita:
Se di Febbraio corrono i viottoli,
Empie di vino e olio tutti i ciottoli.
Poeti, poeti, ci siamo messi
Tutte le maschere;
Ma uno non è che la propria persona.
Per atroce impazienza
In quel vuoto che per natura
Ogni anno accade di Febbraio
Sul lunario fissandosi per termini:
Il giorno della Candelora
Con il riapparso da penombra
Fioco tremore di fiammelle
Di sull'ardore
Di poca cera vergine,
E il giorno, dopo qualche settimana,
Del ,S'ei polvere e ritornerai in polvere;
Nel vuoto, e per impazienza d'uscirne,
Ognuno, e noi vecchi compresi
Con i nostri rimpianti,
E non sa senza propria prova niuno
Quanto strozzi illusione
Che di solo rimpianto viva;
Impaziente, nel vuoto, ognuno smania,
S'affanna, futile,
A reincarnarsi in qualche fantasia
Che anch'essa sarà vana,
E ne è sgomento,
Troppo in fretta svariando nei suoi inganni
Il tempo, per potersene ammonire.
Solo ai fanciulli i sogni s'addirebbero:
Posseggono la grazia del candore
Che da ogni guasto sana, se rinnova
O se le voci in sé, svaria d'un soffio.
Ma perché fanciullezza
È subito ricordo?
Non c'è, altro non c'è su questa terra
Che un barlume di vero
E il nulla della polvere,
Anche se, matto incorreggibile,
Incontro al lampo dei miraggi
Nell'intimo e nei gesti, il vivo
Tendersi sembra sempre.
Monologhetto: per una fine d'anno la Rai ebbe l'idea di chiedere a diversi scrittori un pezzo di prosa sul mese di nascita. A Ungaretti fu chiesto, naturalmente, il febbraio: le prime redazioni erano in prosa, ma una prosa già fortemente scandita e ritmica. Ed ecco che nasce questo vero e proprio poema (da distinguersi dai tre poemetti ) ed è per Ungaretti anche il motivo di una ricapitolazione della sua vita fino al viaggioe al soggiorno in Brasile. Era nell'aria una tendenza che portava al poemetto. Ungaretti la anticipò.. -
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Gridasti soffoco
da Un grido e paesaggi
Non potevi dormire, non dormivi...
Gridasti: Soffoco...
Nel viso tuo scomparso già nel teschio,
Gli occhi, che erano ancora luminosi
Solo un attimo fa,
Gli occhi si dilatarono... Si persero...
Sempre era stato timido,
Ribelle, torbido; ma puro, libero,
Felice rinascevo nel tuo sguardo...
Poi la bocca, la bocca
Che una volta pareva, lungo i giorni,
Lampo di grazia e gioia,
La bocca si contorse in lotta muta...
Un bimbo è morto...
Nove anni, chiuso cerchio,
Nove anni cui nè giorni, nè minuti
Mai più s'aggregeranno:
In essi s'alimenta
L'unico fuoco della mia speranza.
Posso cercarti, posso ritrovarti,
Posso andare, continuamente vado
A rivederti crescere
Da un punto all'altro
Dei tuoi nove anni.
Io di continuo posso,
Distintamente posso
Sentirti le mani nelle mie mani:
Le mani tue di pargolo
Che afferrano le mie senza conoscerle;
Le tue mani che si fanno sensibili,
Sempre più consapevoli
Abbandonandosi nelle mie mani;
Le tue mani che si fanno sensibili,
Sempre più consapevoli
Abbandonandosi nelle mie mani;
Le tue mani che diventano secche
E, sole - pallidissime -
Sole nell'ombra sostano...
La settimana scorsa eri fiorente...
Ti vado a prendere il vestito a casa,
Poi nella cassa ti verranno a chiudere
Per sempre. No, per sempre
Sei animo della mia anima, e la liberi.
Ora meglio la liberi
Che non sapesse il tuo sorriso vivo:
Provala ancora, accrescile la forza,
Se vuoi - sino a te, caro! - che m'innalzi
Dove il vivere è calma, è senza morte.
Sconto, sopravvivendoti, l'orrore
Degli anni che t'usurpo,
E che ai tuoi anni aggiungo,
Demente di rimorso,
Come se, ancora tra di noi mortale,
Tu continuassi a crescere;
Ma cresce solo, vuota,
La mia vecchiaia odiosa...
Come ora, era di notte,
E mi davi la mano, fine mano...
Spaventato tra me e me m'ascoltavo:
E' troppo azzurro questo cielo australe,
Troppi astri lo gremiscono,
Troppi e, per noi, non uno familiare...
(Cielo sordo, che scende senza un soffio,
Sordo che udrò continuamente opprimere
Mani tese a scansarlo...)
Giuseppe Ungaretti questa poesia l'aveva già scritta in Brasile, a caldo subito dopo la morte del figlio Antonietto, ma non l'aveva mai pubblicata. Poi questa drammatica esperienza volle metterla a disposizioni degli altri ( che è addirittura il tema iniziale del Porto sepolto del 1916), la pubblicò. Il vecchio capitano è dunque giunto in porto, in definitiva è tornato a sce gliere il deserto.. -
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Semantica
da Un grido e paesaggi
a Jean Paulhan
Come dovunque in Amazzonia, qua
L'angìco abbonda, e già scoprirsi vedi
Alcuni piedi di sapindo,
Il libarò dei Guaranì;
E, di rado, di qui o di là,
I cautsciò si adunano in boschetti,
Riposo all'ombra sospirata d'alberi
Di fusto dritto ed alto,
Di scorza come d'angue,
Cari ai Cambebba.
Di lontano li scorgi
Mentre più torrido t'opprime il chiaro
E più ti lega il tedio
E gira moltitudine famelica
Di moschine invisibili,
Quando, di fitte foglie a tre per tre,
Con luccichio ti svelano verdissimo
D'un subito le cupole e la stanza,
Tremuli fino al suolo.
Sai che vi dondola per te un'amaca.
I tronchi ne feriscono e, col succo,
Zufoli ed otri plasmano quegli Indi;
Oggetti il cui destino conviviale
Nel Settecento nominare fa
A Portoghesi lepidi
Seringueira, l'appiccicosa pianta,
E dirne la sostanza,
Arcadi cocciuti, seringa,
Chi la va raccogliendo, seringueiro,
L'irrequieto boschetto, seringal,
Con suoni ormai solo da clinica.. -
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La terra promessa
da Cori descrittivi di stati d'animo di Didone
I.
Dileguandosi l'ombra,
In lontananza d'anni,
Quando non laceravano gli affanni,
L'allora, odi, puerile
Petto ergersi bramato
E l'occhio tuo allarmato
Fuoco incauto svelare dell'Aprile
Da un'odorosa gota.
Scherno, spettro solerte
Che rendi il tempo inerte
E lungamente la sua furia nota:
Il cuore roso, sgombra!
Ma potrà, mute lotte
Sopite, dileguarsi da età, notte?
II.
La sera si prolunga
Per un sospeso fuoco
E un fremito nell'erbe a poco a poco
Pare infinito a sorte ricongiunga.
Lunare allora inavvertita nacque
Eco, e si fuse al brivido dell'acque.
Non so chi fu più vivo,
n sussurrio sino all'ebbro rivo
O l'attenta che tenera si tacque.
III
Ora il vento s'è fatto silenzioso
E silenzioso il mare;
Tutto tace; ma grido
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Il grido, sola, del mio cuore ,
Grido d'amore, grido di vergogna
Del mio cuore che brucia
Da quando ti mirai e mi hai guardata
E più non sono che un oggetto debole.
Grido e brucia il mio cuore senza pace
Da quando più non sono
Se non cosa in rovina e abbandonata.
VII.
Nella tenebra muta
Cammini in campi vuoti dogni grano:
Altero al lato tuo più niuno aspetti.
VIII.
Viene dal mio al tuo viso il tuo segreto;
Replica il mio le care tue fattezze;
Nulla contengono di più i nostri occhi
E, disperato, il nostro amore effimero
Eterno freme in vele d'un indugio.
X.
Non odi del platano
Foglia non odi a un tratto scricchiolare
Che cade lungo il fiume sulle selci?
Il mio declino abbellirò stasera;
A foglie secche si vedrà congiunto
Un bagliore roseo.
XIII.
Sceso dall'incantevole sua cuspide
Se ancora sorgere dovesse
Il suo amore, impassibile farebbe
Numerare le innumere sue spine
Spargendosi nelle ore, nei minuti.
Spargendosi nelle ore, nei minutì
XIV
Per patirne la luce,
Gli sguardi tuoi, che si accigliavano
Smarriti ai cupidi, agl'intrepidi
Suoi occhi che a te non si soffermerebbero
Mai più, ormai mai più.
Per patirne l'estraneo, il folle
Orgoglio che tuttora adori,
A tuoi torti con vana implorazione
La sorte imputerebbero
Gli ormai tuoi occhi opachi, secchi;
Ma grazia alcuna più non troverebbero,
Nemmeno da sprizzarne un solo raggio,
Od una sola lacrima,
Gli occhi tuoi opachi, secchi,
Opachi, senza raggi.
XV.
Non vedresti che torti tuoi, deserta,
Senza più un fumo che alla soglia avvii
Del sonno, sommessamente.
XIX.
Deposto hai la superbia negli orrori,
Nei desolati errori.. -
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Variazioni su nulla
da Frammenti
Quel nonnulla di sabbia che trascorre
Dalla clessidra muto e va posandosi,
E, fugaci, le impronte sul carnato,
Sul carnato che muore, d'una nube...
Poi mano che rovescia la clessidra,
Il ritorno per muoversi, di sabbia,
Il farsi argentea tacito di nube
Ai primi brevi lividi dell'alba...
La mano in ombra la clessidra volse,
E, di sabbia, il nonnulla che trascorre
Silente, è unica cosa che ormai s'oda
E, essendo udita, in buio non scompaia.. -
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Segreto del poeta
da Frammenti
Solo ho amica la notte.
Sempre potrò trascorrere con essa
D'attimo in attimo, non ore vane;
Ma tempo cui il mio palpito trasmetto
Come m'aggrada, senza mai distrarmene.
Avviene quando sento,
Mentre riprende a distaccarsi da ombre,
La speranza immutabile
In me che fuoco nuovamente scova
E nel silenzio restituendo va,
A gesti tuoi terreni
Talmente amati che immortali parvero,
Luce.. -
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Canzone
descrive lo stato d'animo del poeta
da Frammenti
Nude, le braccia di segreti sazie,
A nuoto hanno del Lete svolto il fondo,
Adagio sciolto le veementi grazie
E le stanchezze onde luce fu il mondo.
Nulla è muto più della strana strada
Dove foglia non nasce o cade o sverna,
Dove nessuna cosa pena o aggrada,
Dove la veglia mai, mai il sonno alterna.
Tutto si sporse poi, entro trasparenze,
Nell'ora credula, quando, la quiete
Stanca, da dissepolte arborescenze
Riestesasi misura delle mete,
Estenuandosi in iridi echi, amore
Dall'aereo greto trasalì sorpreso
Roseo facendo il buio e, in quel colore,
Più d'ogni vita un arco, il sonno, teso.
Preda dell'impalpabile propagine
Di muri, eterni dei minuti eredi,
Sempre ci esclude più, la prima immagine
Ma, a lampi, rompe il gelo e riconquide.
Più sfugga vera, l'ossessiva mira,
E sia bella, più tocca a nudo calma
E, germe, appena schietta idea, d'ira,
Rifreme, avversa al nulla, in breve salma.
Rivi indovina, suscita la palma:
Dita dedale svela, se sospira.
Prepari gli attimi con cruda lama,
Devasti, carceri, con vaga lama,
Desoli gli animi con sorda lama,
Non distrarrò da lei mai l'occhio fisso
Sebbene, orribile da spoglio abisso,
Non si conosca forma che da fama.
E se, tuttora fuoco d'avventura,
Tornati gli attimi da angoscia a brama,
D'Itaca varco le fuggenti mura,
So, ultima metamorfosi all'aurora,
Oramai so che il filo della trama
Umana, pare rompersi in quell'ora.
Nulla più nuovo parve della strada
Dove lo spazio mai non si degrada
Per la luce o per tenebra, o altro tempo.. -
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Natale
Napoli il 26 Dicembre 1916
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi cosi
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare
La parola del titolo (Natale), che non compare neppure una volta nel corso della poesia, è parte integrante e indispensabile della lirica. Natale di guerra, 26 dicembre 1916. Ma il poeta-soldato è a Napoli, in licenza, in una tranquilla casa di amici, dinanzi ad un caminetto acceso. Qualcuno lo sforza ad uscire fuori, a mescolarsi alla gente chiassosa, nel dedalo pittoresco delle strade napoletane. Ma il poeta rifiuta: ha tanta stanchezza sulle spalle! Lo lascino lì, come un oggetto dimenticato; lo lascino ad assaporare il caldo ristoratore di quella tepida casa, di quel caminetto acceso. Le quattro capriole di fumo del focolare gli faranno compagnia, lo aiuteranno a deporre ogni pensiero, ogni memoria di cose dolorose.. -
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Fine di Crono
1925
L'ora impaurita
In grembo al firmamento
Erra strana.
Una fuligine
Lilla colora i monti,
Fu l'ultimo grido a smarrirsi.
Penelopi innumeri, astri
Vi riabbraccia il Signore!
(Ah, cecità!
Frana delle notti...)
E riporge l'Olimpo,
Fiore eterno di sonno. -
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Accadrà ?
da Roma occupata
Tesa sempre in angoscia
E al limite di morte:
Terribile ventura;
Ma, anelante di grazia,
In tanta Tua agonia
Ritornavi a scoprire,
Senza darti mai pace,
Che, nel principio e nei sospiri sommi
Da una stessa speranza consolati,
Gli uomini sono uguali,
Figli d'un solo, d'un eterno Soffio.
Tragica Patria, l'irisegnasti prodiga
A ogni favella libera,
E ne ebbero purezza dell'origine
Le immagini remote,
Le nuove, immemorabile radice.
Ma nella mente ora avverrà dei popoli
Che non più tomi fertile
La parola ispirata,
E che Tu nel Tuo cuore,
Più generosa quanto più patisci,
Non la ritrovi ancora, più incantevole
Quanto più ascosa bruci?
Da venti secoli T'uccide l'uomo
Che incessante vivifichi rinata,
Umile interprete del Dio di tutti.
Patria stanca delle anime,
Succederà, universale fonte,
Che tu non più rifulga?
Sogno, grido, miracolo spezzante,
Seme d'amore nell'umana notte,
Speranza, fiore, canto,
Ora accadrà che cenere prevalga?. -
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Mio fiume anche tu
da Roma occupata
I.
Mio fiume anche tu, Tevere fatale,
Ora che notte già turbata scorre;
Ora che persistente
E come a stento erotto dalla pietra
Un gemito d'agnelli si propaga
Smarrito per le strade esterrefatte;
Che di male l'attesa senza requie,
Il peggiore dei mali,
Che l'attesa di male imprevedibile
Intralcia animo e passi;
Che singhiozzi infiniti, a lungo rantoli
Agghiacciano le case tane incerte;
Ora che scorre notte già straziata,
Che ogni attimo spariscono di schianto
O temono l'offesa tanti segni
Giunti, quasi divine forme, a splendere
Per ascensione di millenni umani;
Ora che già sconvolta scorre notte,
E quanto un uomo può patire imparo;
Ora ora, mentre schiavo
Il mondo d'abissale pena soffoca;
Ora che insopportabile il tormento
Si sfrena tra i fratelli in ira a morte;
Ora che osano dire
Le mie blasfeme labbra:
"Cristo, pensoso palpito,
Perchè la Tua bontà
S'è tanto allontanata?"
II.
Ora che pecorelle cogli agnelli
Si sbandano stupite e, per le strade
Che già furono urbane, si desolano;
Ora che prova un popolo
Dopo gli strappi dell'emigrazione,
La stolta iniquità
Delle deportazioni;
Ora che nelle fosse
Con fantasia ritorta
E mani spudorate
Dalle fattezze umane l'uomo lacera
L'immagine divina
E pietà in grido si contrae di pietra;
Ora che l'innocenza
Reclama almeno un eco,
E geme anche nel cuore più indurito;
Ora che sono vani gli altri gridi;
Vedo ora chiaro nella notte triste.
Vedo ora nella notte triste, imparo,
So che l'inferno s'apre sulla terra
Su misura di quanto
L'uomo si sottrae, folle,
Alla purezza della Tua passione.
III.
Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l'uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell'amore non vano.
Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell'umane tenebre,
Fratello che t'immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l'uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D'un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri.. -
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Defunti su montagne
da Roma occupata
Poche cose mi restano visibili
E, per sempre, l'aprile
Trascinante la nuvola insolubile,
Ma d'improvviso splendido:
Pallore, al Colosseo
Su estremi fumi emerso,
Col precipizio alle orbite
D'un azzurro che sorte più non eccita
Né turba.
Come nelle distanze
Le apparizioni incerte trascorrenti
Il chiarore impegnando
A limiti d'inganni,
Da pochi passi apparsi
I passanti alla base di quel muro
Perdevano statura
Dilatando il deserto dell'altezza,
E la sorpresa se, ombre, parlavano.
Agli echi fondi attento
Dello strano tamburo,
A quale ansia suprema rispondevo
Di volontà, bruciante
Quanto appariva esausta?
Non, da remoti eventi sobbalzando,
M'allettavano, ancora familiari
Nel ricordo, i pensieri dell'orgoglio:
Non era nostalgia, né delirio;
Non invidia di quiete inalterabile.
Allora fu che, entrato in San Clemente,
Dalla crocefissione di Masaccio
M'aécolsero, d'un alito staccati
Mentre l'equestre rabbia
Convertita giù in roccia ammutoliva,
Desti dietro il biancore
Delle tombe abolite,
Defunti, su montagne
Sbocciate lievi da leggere nuvole.
Da pertinaci fiumi risalito
Fu allora che intravidi
Perchè m'accende ancora la speranza.. -
.
Folli i miei passi
da Roma occupata
Le usate strade
Folli i miei passi come d'un automa
Che una volta d'incanto si muovevano
Con la mia corsa,
Ora più svolgersi non sanno in grazie
Piene di tempo
Svelando, a ogni mio umore rimutate,
I segni vani che le fanno vive
Se ci misurano.
E quando squillano al tramonto i vetri,
Ma le case più non ne hanno allegria
Per abitudine se alfine sosto
Disilluso cercando almeno quiete,
Nelle penombre caute
Delle stanze raccolte
Quantunque ne sia tenera la voce
Non uno dei presenti sparsi oggetti,
Invecchiato con me,
O a residui d'immagini legato
Di una qualche vicenda che mi occorse,
Può inatteso tornare a circondarrni
Sciogiiendomi dal cuore le parole.
Appresero così le braccia offerte
I carnali occhi
Disfatti da dissimulate lacrime,
L'orecchio assurdo,
Quell'umile speranza
Che travolgeva il teso Michelangelo
A murare ogni spazio in un baleno
Non concedendo all'anima
Nemmeno la risorsa di spezzarsi.
Per desolato fremito aIe dava
A un'urbecome una semenza, arcana,
Perpetuava in sé il certo cielo, cupola
Febbrilmente superstite.. -
.
Nelle vene
da Roma occupata
Nelle vene già quasi vuote tombe
L'ancora galoppante brama,
Nelle mie ossa che si gelano il sasso,
Nell'anima il rimpianto sordo,
L'indomabile nequizia, dissolvi;
Dal rimorso, latrato sterminato,
Nel buio inenarrabile
Terribile clausura,
Riscattami, e le tue ciglia pietose
Dal lungo tuo sonno, sommuovi;
Il roseo improvviso tuo segno,
Genitrice mente, risalga
E riprenda a sorprendermi;
Insperata risùscitati,
Misura incredibile, pace;
Fa, nel librato paesaggio, ch'io possa
Risillabare le parole ingenue..