GIUSEPPE UNGARETTI: sentimento di un uomo

Poesie di Giuseppe Ungaretti - 08/02/1888 – 01/06/1970

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    Il taccuino del Vecchio
    da Ultimi cori della terra promessa
    Roma, 1952/1960



    4.

    Verso meta si fugge:
    Chi la conoscerà?
    Non d'!taca si sogna
    Smarriti in vario mare,
    Ma va la mira al Sinai sopra sabbie
    Che novera monotone giornate.

    5.

    Si percorre il deserto con residui
    Di qualche immagine di prima in mente,
    Della Terra Promessa
    Nient'altro un vivo sa.

    6.

    All'infinito se durasse il viaggio,
    Non durerebbe un attimo, e la morte
    È già qui, poco prima.
    Un attimo interrotto,
    Oltre non dura un vivere terreno:
    Se s'interrompe sulla cima a un Sinai,
    La legge a chi rimane si rinnova,
    Riprende a incrudelire l'illusione.

    7.

    Se una tua mano schiva la sventura,
    Con l'altra mano scopri
    Che non è il tutto se non di macerie.
    È sopravvivere alla morte, vivere?
    Si oppone alla tua sorte una tua mano,
    Ma l'altra, vedi, subito t'accerta
    Che solo puoi afferrare
    Bricioli di ricordi.

    8.

    Sovente mi domando
    Come eri ed ero prima.
    Vagammo forse vittime del sonno?
    Gli atti nostri eseguiti
    Furono da sonnambuli, in quei tempi?
    Siamo lonfani, in quell'alone d'echi,
    E mentre in me riemergi, nel brusio
    Mi ascolto che da un sonno ti sollevi
    Che ci previde a lungo.

    9.

    Ogni anno, mentre scopro che Febbraio
    E sensitivo e, per pudore, torbido,
    Con minuto fiorire, gialla irrompe
    La mimosa. S'inquadra alla finestra
    Di qudla mia dimora d'una volta,
    Di questa dove passo gli anni vecchi.
    Mentre arrivo vicino al gran silenzio,
    Segno sarà che niuna cosa muore
    Se ne ritorna sempre l'apparenza?
    O saprò finalmente che la morte .
    Regno non ha che sopra l'apparenza?

    13.

    Rosa segreta, sbocci sugli abissi
    Solo ch'io trasalisca rammentando
    Come improvvisa odori
    Mentre si alza il lamento.
    L'evocato miracolo mi fonde
    La notte allora nella notte dove
    Per smarrirti e riprenderti inseguivi,
    ..
    Da libertà di più
    In più fatti roventi,
    L'abbaglio e l'addentare.

    14.

    Somiglia a luce in crescita,
    Od al colmo, l'amore.
    Se solo d'un momento
    Essa dal Sud si parte,
    Già puoi chiamarla morte.

    16.

    Da quella stella all'altra
    Si carcera la notte
    In turbinante vuota dismisura,
    Da quella solitudine di stella
    A quella solitudine di stella.

    17.

    Rilucere inveduto d'abbagliati
    Spazi ove immemorabile
    Vita passano gli astri
    Dal peso pazzi della solitudine.

    22.

    È senza fiato, sera, irrespirabile,
    Se voi, miei morti, e i pochi vivi che amo,
    Non mi venite in mente
    Bene a portarmi quando
    Per solitudine, capisco, a sera.

    23.

    In questo secolo della pazienza
    E di fretta angosciosa,
    Al cielo volto, che si doppia giù
    E più, formando guscio, ci fa minimi
    In sua balia, privi d'ogni limite,
    Nel volo dall'altezza
    Di dodici chilometri vedere
    Puoi il tempo che s'imbianca e che diventa
    Una dolce mattina,
    Puoi, non riferimento
    Dall'attorniante spazio
    Venendo a rammentarti
    Che alla velocità ti catapultano
    Di mille miglia all'ora,
    L'irrefrenabile curiosità
    E il volere fatale
    Scordandoti dell'uomo
    Che non saprà mai smettere di crescere
    E cresce già in misura disumana,
    Puoi imparare come avvenga si assenti
    Uno, senza mai fretta né pazienza
    Sotto veli guardando
    Fino all'incendio della terra a sera.

    24.

    Mi afferri nelle grinfie azzurre il nibbio
    E, all'apice del sole,
    Mi lasci sulla sabbia
    Cadere in pasto ai corvi.
    Non porterò più sulle spalle il fango,
    Mondo mi avranno il fuoco,
    I rostri crocidanti
    L'azzannare afroroso di sciacalli.
    Poi mostrerà il beduino,
    Dalla sabbia scoprendolo
    Frugando col bastone,
    Un ossame bianchissimo.

    27.

    L'amore più non è quella tempesta
    Che nel notturno abbaglio
    Ancora mi avvinceva poco fa
    Tra l'insonnia e le smanie,
    Balugina da un faro
    Verso cui va tranquillo
    Il vecchio capitano.

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    Monologhetto
    da Un grido e paesaggi



    Sotto le scorze, e come per un vuoto,
    Di già gli umori si risentono,
    Si snodano, delirando di gemme:
    ContUrbato, l'inverno nel suo sonno,
    Motivo dando d'essere
    Corto al Febbraio, e lunatico,
    Più non è, nel segreto, squallido;
    Come di sopra a un biblico disastro,
    Nelle apparenze, il velario si leva
    Lungo un lido, che da quell'attimo
    Si scruta per ripopolarsi:
    Di tanto in tanto riemergenti brusche
    Si susseguono torri;
    Erra, di nuovo in cerca d'Ararat,
    Con solitudini salpata l'arca;
    Ai colombai risale l'imbianchino.
    Sopra i ceppi del roveto dimoia
    Per la Maremma
    E
    Qua e là spargersi s'ode,
    Di volatili in cova,
    Bisbigli, pigolii;
    Da Foggia la vettura
    A Lucera correndo
    Con i suoi fari inquieta
    I redi negli stabbi;
    Dentro i monti còrsi, a Vivario,
    Uomini intorno al caldo a veglia
    Chiusi sotto il lume a petrolio nella stanza,
    Con i bianchi barboni sparsi
    Sulle mani poggiate sui bastoni,
    Morsicando lenti la pipa
    Ors' Antone che canta ascoltano,
    Accompagnato dal sussurro della rivergola
    Vibrante di tra i denti
    Del ragazzo Ghiuvanni:

    Tantu lieta è la sua sorte
    Quantu torbida è la mia.

    Di fuori infittisce uno scalpiccìo
    Frammischiato a urla e gorgoglio
    Di suini che portano a scannare, scannano,
    Principiando domani Carnevale,
    E con immoto vento ancora nevica.
    Lasciate dietro tre pievi minuscole
    Sul pendio scaglionate
    Con i tetti rossi di tegole
    Le case più recenti
    E,
    Coperte di lavagna,
    Le più vecchie quasi invisibili
    Nella confusione dell'alba,
    L'aromatica selva
    Di Vizzavona si attraversa
    Senza mai scorgerne dai finestrini
    I larici se non ai tronchi,
    E per brandelli,
    E
    Da Levante si passa poi dei monti,
    E l'autista anche a voce il serpeggio:

    Sulla, umbrìa, umbrìa,

    Segue, se lo ripete
    E, o a Levante o a Ponente, sempre in monti,
    Torna il nodo a alternarsi e, peggio,
    La clausura distesa:
    Non ne dovrà la noia mai finire?
    E,
    A più di mille metri
    D'altezza, la macchina infila
    Una strada ottenuta nel costone,
    Stretta, ghiacciata, .
    Sporta sul baratro.
    Il cielo è un cielo di zaffiro
    E ha quel colore lucido
    Che di questo mese gli spetta,
    Colore di Febbraio,
    Colore di speranza.
    Giù, giù, arriva fino
    A Ajaccio, un tale cielo,
    Che intirizzisce, ma non perché freddo,
    Perché è sibillino;
    Giù, arriva giù, un tale
    Cielo, fino a attorniare un mare buio

    Che nelle viscere si soffoca
    Il mugghiare continuo,
    Ed incede il Neptunia.
    A Pernambuco attracca
    E,
    Tra le barchette in dondolo,
    E titubanti chiattole
    Sul lustro elastico dell'acqua,
    Nel breve porto impone, nero,
    L'ingombro svelto del suo netto taglio.
    Ovunque, per la scala della nave,
    Per le strade gremite,
    Sui predellini del tramvai,
    Non c'è più nulla che non balli,
    Sia cosa, sia bestia, sia gente,
    Giorno e notte, e notte
    E giorno, essendo Carnevale.
    Ma meglio di notte si balla,
    Quando, uggiosi alle tenebre,
    Dalla girandola dei fuochi, fiori,
    Complici della notte,
    Moltiplicandone gli equivoci,
    Tra cielo e terra grandinano
    Screziando la marina livida.
    Si soffoca dal caldo:
    L'equatore è a due passi.
    Non penò poco l'Europeo a assuefarsi
    Alle stagioni alla rovescia,
    E, più che mai, facendosi
    Il suo sangue meticcio:
    Non è Febbraio il mese degli innesti?
    E ancora più penò,
    Il suo sangue, facendosi mulatto
    Nel maledetto aggiogamento
    D'anime umane a lavoro di schiavi;
    Ma, nella terra australe,
    Giunse. alla fine a mettere a un solleone,
    La propria più inattesa maschera.
    Non smetterà più di sedurre
    Questo Febbraio falso
    E,
    Fradici di sudore e lezzo,
    Stralunati si balli senza posa
    Cantando di continuo, raucamente,

    Con l'ossessiva ingenuità qui d'uso:

    Ironia, ironia
    Era so o que dizia.

    Il ricordare è di vecchiaia il segno,
    Ed oggi alcune soste ho ricordate
    Del mio lungo soggiorno sulla terra,
    Successe di Febbraio,
    perché sto, di Febbraio, alla vicenda
    Più che negli altri mesi vigile.
    Gli sono più che alla mia stessa vita
    Attaccato per una nascita
    Ed una dipartita;
    Ma di questo, non è momento di parlare.
    E anch'io di questo mese nacqui.
    Era burrasca, pioveva a dirotto
    A Alessandria d'Egitto in quella notte,
    E festa gli Sciiti
    Facevano laggiù
    Alla luna detta degli amuleti:
    Galoppa un bimbo sul cavallo bianco
    E a lui dintorno in ressa il popolo
    S'avvince al cerchio dei presagi.
    Adamo ed Eva rammemorano
    Nella terrena sorte istupiditi:
    E tempo che s'aguzzi
    L'orecchio a indovinare,
    E una delle Arabe accalcate, scatta,
    Fulmine che una roccia graffia
    Indica e, con schiumante bocca, attesta:

    Un mahdi, ancora informe nel granito, ..
    Delinea le sue braccia spaventose;

    Ma mia madre, Lucchese,
    A quella uscita ride
    Ed un proverbio cita:

    Se di Febbraio corrono i viottoli,
    Empie di vino e olio tutti i ciottoli.
    Poeti, poeti, ci siamo messi
    Tutte le maschere;

    Ma uno non è che la propria persona.
    Per atroce impazienza
    In quel vuoto che per natura
    Ogni anno accade di Febbraio
    Sul lunario fissandosi per termini:
    Il giorno della Candelora
    Con il riapparso da penombra
    Fioco tremore di fiammelle
    Di sull'ardore
    Di poca cera vergine,
    E il giorno, dopo qualche settimana,
    Del ,S'ei polvere e ritornerai in polvere;
    Nel vuoto, e per impazienza d'uscirne,
    Ognuno, e noi vecchi compresi
    Con i nostri rimpianti,
    E non sa senza propria prova niuno
    Quanto strozzi illusione
    Che di solo rimpianto viva;
    Impaziente, nel vuoto, ognuno smania,
    S'affanna, futile,
    A reincarnarsi in qualche fantasia
    Che anch'essa sarà vana,
    E ne è sgomento,
    Troppo in fretta svariando nei suoi inganni
    Il tempo, per potersene ammonire.
    Solo ai fanciulli i sogni s'addirebbero:
    Posseggono la grazia del candore
    Che da ogni guasto sana, se rinnova
    O se le voci in sé, svaria d'un soffio.
    Ma perché fanciullezza
    È subito ricordo?
    Non c'è, altro non c'è su questa terra
    Che un barlume di vero
    E il nulla della polvere,
    Anche se, matto incorreggibile,
    Incontro al lampo dei miraggi
    Nell'intimo e nei gesti, il vivo
    Tendersi sembra sempre.

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    Monologhetto: per una fine d'anno la Rai ebbe l'idea di chiedere a diversi scrittori un pezzo di prosa sul mese di nascita. A Ungaretti fu chiesto, naturalmente, il febbraio: le prime redazioni erano in prosa, ma una prosa già fortemente scandita e ritmica. Ed ecco che nasce questo vero e proprio poema (da distinguersi dai tre poemetti ) ed è per Ungaretti anche il motivo di una ricapitolazione della sua vita fino al viaggioe al soggiorno in Brasile. Era nell'aria una tendenza che portava al poemetto. Ungaretti la anticipò.
     
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    Gridasti soffoco
    da Un grido e paesaggi



    Non potevi dormire, non dormivi...
    Gridasti: Soffoco...
    Nel viso tuo scomparso già nel teschio,
    Gli occhi, che erano ancora luminosi
    Solo un attimo fa,
    Gli occhi si dilatarono... Si persero...
    Sempre era stato timido,
    Ribelle, torbido; ma puro, libero,
    Felice rinascevo nel tuo sguardo...
    Poi la bocca, la bocca
    Che una volta pareva, lungo i giorni,
    Lampo di grazia e gioia,
    La bocca si contorse in lotta muta...
    Un bimbo è morto...

    Nove anni, chiuso cerchio,
    Nove anni cui nè giorni, nè minuti
    Mai più s'aggregeranno:
    In essi s'alimenta
    L'unico fuoco della mia speranza.
    Posso cercarti, posso ritrovarti,
    Posso andare, continuamente vado
    A rivederti crescere
    Da un punto all'altro
    Dei tuoi nove anni.
    Io di continuo posso,
    Distintamente posso
    Sentirti le mani nelle mie mani:
    Le mani tue di pargolo
    Che afferrano le mie senza conoscerle;
    Le tue mani che si fanno sensibili,
    Sempre più consapevoli
    Abbandonandosi nelle mie mani;
    Le tue mani che si fanno sensibili,
    Sempre più consapevoli
    Abbandonandosi nelle mie mani;
    Le tue mani che diventano secche
    E, sole - pallidissime -
    Sole nell'ombra sostano...
    La settimana scorsa eri fiorente...

    Ti vado a prendere il vestito a casa,
    Poi nella cassa ti verranno a chiudere
    Per sempre. No, per sempre
    Sei animo della mia anima, e la liberi.

    Ora meglio la liberi
    Che non sapesse il tuo sorriso vivo:
    Provala ancora, accrescile la forza,
    Se vuoi - sino a te, caro! - che m'innalzi
    Dove il vivere è calma, è senza morte.

    Sconto, sopravvivendoti, l'orrore
    Degli anni che t'usurpo,
    E che ai tuoi anni aggiungo,
    Demente di rimorso,
    Come se, ancora tra di noi mortale,
    Tu continuassi a crescere;
    Ma cresce solo, vuota,
    La mia vecchiaia odiosa...

    Come ora, era di notte,
    E mi davi la mano, fine mano...
    Spaventato tra me e me m'ascoltavo:
    E' troppo azzurro questo cielo australe,
    Troppi astri lo gremiscono,
    Troppi e, per noi, non uno familiare...

    (Cielo sordo, che scende senza un soffio,
    Sordo che udrò continuamente opprimere
    Mani tese a scansarlo...)

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    Giuseppe Ungaretti questa poesia l'aveva già scritta in Brasile, a caldo subito dopo la morte del figlio Antonietto, ma non l'aveva mai pubblicata. Poi questa drammatica esperienza volle metterla a disposizioni degli altri ( che è addirittura il tema iniziale del Porto sepolto del 1916), la pubblicò. Il vecchio capitano è dunque giunto in porto, in definitiva è tornato a sce gliere il deserto.
     
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    Semantica
    da Un grido e paesaggi
    a Jean Paulhan



    Come dovunque in Amazzonia, qua
    L'angìco abbonda, e già scoprirsi vedi
    Alcuni piedi di sapindo,
    Il libarò dei Guaranì;
    E, di rado, di qui o di là,
    I cautsciò si adunano in boschetti,
    Riposo all'ombra sospirata d'alberi
    Di fusto dritto ed alto,
    Di scorza come d'angue,
    Cari ai Cambebba.
    Di lontano li scorgi
    Mentre più torrido t'opprime il chiaro
    E più ti lega il tedio
    E gira moltitudine famelica
    Di moschine invisibili,
    Quando, di fitte foglie a tre per tre,
    Con luccichio ti svelano verdissimo
    D'un subito le cupole e la stanza,
    Tremuli fino al suolo.
    Sai che vi dondola per te un'amaca.
    I tronchi ne feriscono e, col succo,
    Zufoli ed otri plasmano quegli Indi;
    Oggetti il cui destino conviviale
    Nel Settecento nominare fa
    A Portoghesi lepidi
    Seringueira, l'appiccicosa pianta,
    E dirne la sostanza,
    Arcadi cocciuti, seringa,
    Chi la va raccogliendo, seringueiro,
    L'irrequieto boschetto, seringal,
    Con suoni ormai solo da clinica.

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    La terra promessa
    da Cori descrittivi di stati d'animo di Didone



    I.

    Dileguandosi l'ombra,

    In lontananza d'anni,

    Quando non laceravano gli affanni,

    L'allora, odi, puerile
    Petto ergersi bramato
    E l'occhio tuo allarmato
    Fuoco incauto svelare dell'Aprile
    Da un'odorosa gota.

    Scherno, spettro solerte
    Che rendi il tempo inerte
    E lungamente la sua furia nota:

    Il cuore roso, sgombra!

    Ma potrà, mute lotte
    Sopite, dileguarsi da età, notte?

    II.

    La sera si prolunga
    Per un sospeso fuoco
    E un fremito nell'erbe a poco a poco
    Pare infinito a sorte ricongiunga.

    Lunare allora inavvertita nacque
    Eco, e si fuse al brivido dell'acque.
    Non so chi fu più vivo,
    n sussurrio sino all'ebbro rivo
    O l'attenta che tenera si tacque.

    III

    Ora il vento s'è fatto silenzioso
    E silenzioso il mare;
    Tutto tace; ma grido
    .
    Il grido, sola, del mio cuore ,
    Grido d'amore, grido di vergogna
    Del mio cuore che brucia
    Da quando ti mirai e mi hai guardata
    E più non sono che un oggetto debole.

    Grido e brucia il mio cuore senza pace
    Da quando più non sono
    Se non cosa in rovina e abbandonata.

    VII.

    Nella tenebra muta
    Cammini in campi vuoti dogni grano:
    Altero al lato tuo più niuno aspetti.

    VIII.

    Viene dal mio al tuo viso il tuo segreto;
    Replica il mio le care tue fattezze;
    Nulla contengono di più i nostri occhi
    E, disperato, il nostro amore effimero
    Eterno freme in vele d'un indugio.

    X.

    Non odi del platano
    Foglia non odi a un tratto scricchiolare
    Che cade lungo il fiume sulle selci?

    Il mio declino abbellirò stasera;
    A foglie secche si vedrà congiunto
    Un bagliore roseo.

    XIII.

    Sceso dall'incantevole sua cuspide
    Se ancora sorgere dovesse
    Il suo amore, impassibile farebbe
    Numerare le innumere sue spine
    Spargendosi nelle ore, nei minuti.
    Spargendosi nelle ore, nei minutì

    XIV

    Per patirne la luce,
    Gli sguardi tuoi, che si accigliavano
    Smarriti ai cupidi, agl'intrepidi
    Suoi occhi che a te non si soffermerebbero
    Mai più, ormai mai più.
    Per patirne l'estraneo, il folle
    Orgoglio che tuttora adori,
    A tuoi torti con vana implorazione
    La sorte imputerebbero
    Gli ormai tuoi occhi opachi, secchi;
    Ma grazia alcuna più non troverebbero,
    Nemmeno da sprizzarne un solo raggio,
    Od una sola lacrima,
    Gli occhi tuoi opachi, secchi,

    Opachi, senza raggi.

    XV.

    Non vedresti che torti tuoi, deserta,
    Senza più un fumo che alla soglia avvii
    Del sonno, sommessamente.

    XIX.

    Deposto hai la superbia negli orrori,
    Nei desolati errori.

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    Variazioni su nulla
    da Frammenti



    Quel nonnulla di sabbia che trascorre
    Dalla clessidra muto e va posandosi,
    E, fugaci, le impronte sul carnato,
    Sul carnato che muore, d'una nube...

    Poi mano che rovescia la clessidra,
    Il ritorno per muoversi, di sabbia,
    Il farsi argentea tacito di nube
    Ai primi brevi lividi dell'alba...

    La mano in ombra la clessidra volse,
    E, di sabbia, il nonnulla che trascorre
    Silente, è unica cosa che ormai s'oda
    E, essendo udita, in buio non scompaia.

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    Segreto del poeta
    da Frammenti



    Solo ho amica la notte.
    Sempre potrò trascorrere con essa
    D'attimo in attimo, non ore vane;
    Ma tempo cui il mio palpito trasmetto
    Come m'aggrada, senza mai distrarmene.

    Avviene quando sento,
    Mentre riprende a distaccarsi da ombre,
    La speranza immutabile
    In me che fuoco nuovamente scova
    E nel silenzio restituendo va,
    A gesti tuoi terreni
    Talmente amati che immortali parvero,
    Luce.

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    Canzone
    descrive lo stato d'animo del poeta
    da Frammenti



    Nude, le braccia di segreti sazie,
    A nuoto hanno del Lete svolto il fondo,
    Adagio sciolto le veementi grazie
    E le stanchezze onde luce fu il mondo.

    Nulla è muto più della strana strada
    Dove foglia non nasce o cade o sverna,
    Dove nessuna cosa pena o aggrada,
    Dove la veglia mai, mai il sonno alterna.

    Tutto si sporse poi, entro trasparenze,
    Nell'ora credula, quando, la quiete
    Stanca, da dissepolte arborescenze
    Riestesasi misura delle mete,
    Estenuandosi in iridi echi, amore
    Dall'aereo greto trasalì sorpreso
    Roseo facendo il buio e, in quel colore,
    Più d'ogni vita un arco, il sonno, teso.

    Preda dell'impalpabile propagine
    Di muri, eterni dei minuti eredi,
    Sempre ci esclude più, la prima immagine
    Ma, a lampi, rompe il gelo e riconquide.

    Più sfugga vera, l'ossessiva mira,
    E sia bella, più tocca a nudo calma
    E, germe, appena schietta idea, d'ira,
    Rifreme, avversa al nulla, in breve salma.

    Rivi indovina, suscita la palma:
    Dita dedale svela, se sospira.
    Prepari gli attimi con cruda lama,
    Devasti, carceri, con vaga lama,
    Desoli gli animi con sorda lama,
    Non distrarrò da lei mai l'occhio fisso
    Sebbene, orribile da spoglio abisso,
    Non si conosca forma che da fama.

    E se, tuttora fuoco d'avventura,
    Tornati gli attimi da angoscia a brama,
    D'Itaca varco le fuggenti mura,
    So, ultima metamorfosi all'aurora,
    Oramai so che il filo della trama
    Umana, pare rompersi in quell'ora.

    Nulla più nuovo parve della strada
    Dove lo spazio mai non si degrada
    Per la luce o per tenebra, o altro tempo.

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    Natale


    Napoli il 26 Dicembre 1916

    Non ho voglia
    di tuffarmi
    in un gomitolo
    di strade
    Ho tanta
    stanchezza
    sulle spalle
    Lasciatemi cosi
    come una
    cosa
    posata
    in un
    angolo
    e dimenticata
    Qui
    non si sente
    altro
    che il caldo buono
    Sto
    con le quattro
    capriole
    di fumo
    del focolare

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    La parola del titolo (Natale), che non compare neppure una volta nel corso della poesia, è parte integrante e indispensabile della lirica. Natale di guerra, 26 dicembre 1916. Ma il poeta-soldato è a Napoli, in licenza, in una tranquilla casa di amici, dinanzi ad un caminetto acceso. Qualcuno lo sforza ad uscire fuori, a mescolarsi alla gente chiassosa, nel dedalo pittoresco delle strade napoletane. Ma il poeta rifiuta: ha tanta stanchezza sulle spalle! Lo lascino lì, come un oggetto dimenticato; lo lascino ad assaporare il caldo ristoratore di quella tepida casa, di quel caminetto acceso. Le quattro capriole di fumo del focolare gli faranno compagnia, lo aiuteranno a deporre ogni pensiero, ogni memoria di cose dolorose.
     
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    Fine di Crono
    1925



    L'ora impaurita
    In grembo al firmamento
    Erra strana.

    Una fuligine
    Lilla colora i monti,

    Fu l'ultimo grido a smarrirsi.

    Penelopi innumeri, astri

    Vi riabbraccia il Signore!

    (Ah, cecità!
    Frana delle notti...)

    E riporge l'Olimpo,
    Fiore eterno di sonno

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    Accadrà ?
    da Roma occupata



    Tesa sempre in angoscia
    E al limite di morte:
    Terribile ventura;
    Ma, anelante di grazia,
    In tanta Tua agonia
    Ritornavi a scoprire,
    Senza darti mai pace,
    Che, nel principio e nei sospiri sommi
    Da una stessa speranza consolati,
    Gli uomini sono uguali,
    Figli d'un solo, d'un eterno Soffio.

    Tragica Patria, l'irisegnasti prodiga
    A ogni favella libera,
    E ne ebbero purezza dell'origine
    Le immagini remote,
    Le nuove, immemorabile radice.
    Ma nella mente ora avverrà dei popoli
    Che non più tomi fertile
    La parola ispirata,
    E che Tu nel Tuo cuore,
    Più generosa quanto più patisci,
    Non la ritrovi ancora, più incantevole
    Quanto più ascosa bruci?
    Da venti secoli T'uccide l'uomo
    Che incessante vivifichi rinata,
    Umile interprete del Dio di tutti.
    Patria stanca delle anime,
    Succederà, universale fonte,
    Che tu non più rifulga?
    Sogno, grido, miracolo spezzante,
    Seme d'amore nell'umana notte,
    Speranza, fiore, canto,
    Ora accadrà che cenere prevalga?

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    Mio fiume anche tu
    da Roma occupata



    I.

    Mio fiume anche tu, Tevere fatale,
    Ora che notte già turbata scorre;
    Ora che persistente
    E come a stento erotto dalla pietra
    Un gemito d'agnelli si propaga
    Smarrito per le strade esterrefatte;
    Che di male l'attesa senza requie,
    Il peggiore dei mali,
    Che l'attesa di male imprevedibile
    Intralcia animo e passi;
    Che singhiozzi infiniti, a lungo rantoli
    Agghiacciano le case tane incerte;
    Ora che scorre notte già straziata,
    Che ogni attimo spariscono di schianto
    O temono l'offesa tanti segni
    Giunti, quasi divine forme, a splendere
    Per ascensione di millenni umani;
    Ora che già sconvolta scorre notte,
    E quanto un uomo può patire imparo;
    Ora ora, mentre schiavo
    Il mondo d'abissale pena soffoca;
    Ora che insopportabile il tormento
    Si sfrena tra i fratelli in ira a morte;
    Ora che osano dire
    Le mie blasfeme labbra:
    "Cristo, pensoso palpito,
    Perchè la Tua bontà
    S'è tanto allontanata?"

    II.

    Ora che pecorelle cogli agnelli
    Si sbandano stupite e, per le strade
    Che già furono urbane, si desolano;
    Ora che prova un popolo
    Dopo gli strappi dell'emigrazione,
    La stolta iniquità
    Delle deportazioni;
    Ora che nelle fosse
    Con fantasia ritorta
    E mani spudorate
    Dalle fattezze umane l'uomo lacera
    L'immagine divina
    E pietà in grido si contrae di pietra;
    Ora che l'innocenza
    Reclama almeno un eco,
    E geme anche nel cuore più indurito;
    Ora che sono vani gli altri gridi;
    Vedo ora chiaro nella notte triste.

    Vedo ora nella notte triste, imparo,
    So che l'inferno s'apre sulla terra
    Su misura di quanto
    L'uomo si sottrae, folle,
    Alla purezza della Tua passione.

    III.

    Fa piaga nel Tuo cuore
    La somma del dolore
    Che va spargendo sulla terra l'uomo;
    Il Tuo cuore è la sede appassionata
    Dell'amore non vano.

    Cristo, pensoso palpito,
    Astro incarnato nell'umane tenebre,
    Fratello che t'immoli
    Perennemente per riedificare
    Umanamente l'uomo,
    Santo, Santo che soffri,
    Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
    Santo, Santo che soffri
    Per liberare dalla morte i morti
    E sorreggere noi infelici vivi,
    D'un pianto solo mio non piango più,
    Ecco, Ti chiamo, Santo,
    Santo, Santo che soffri.

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    Defunti su montagne
    da Roma occupata



    Poche cose mi restano visibili
    E, per sempre, l'aprile
    Trascinante la nuvola insolubile,
    Ma d'improvviso splendido:
    Pallore, al Colosseo
    Su estremi fumi emerso,
    Col precipizio alle orbite
    D'un azzurro che sorte più non eccita
    Né turba.

    Come nelle distanze
    Le apparizioni incerte trascorrenti
    Il chiarore impegnando
    A limiti d'inganni,
    Da pochi passi apparsi
    I passanti alla base di quel muro
    Perdevano statura
    Dilatando il deserto dell'altezza,
    E la sorpresa se, ombre, parlavano.

    Agli echi fondi attento
    Dello strano tamburo,
    A quale ansia suprema rispondevo
    Di volontà, bruciante
    Quanto appariva esausta?
    Non, da remoti eventi sobbalzando,
    M'allettavano, ancora familiari
    Nel ricordo, i pensieri dell'orgoglio:
    Non era nostalgia, né delirio;
    Non invidia di quiete inalterabile.
    Allora fu che, entrato in San Clemente,
    Dalla crocefissione di Masaccio
    M'aécolsero, d'un alito staccati
    Mentre l'equestre rabbia
    Convertita giù in roccia ammutoliva,
    Desti dietro il biancore
    Delle tombe abolite,
    Defunti, su montagne
    Sbocciate lievi da leggere nuvole.
    Da pertinaci fiumi risalito
    Fu allora che intravidi
    Perchè m'accende ancora la speranza.

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    Folli i miei passi
    da Roma occupata



    Le usate strade
    Folli i miei passi come d'un automa
    Che una volta d'incanto si muovevano
    Con la mia corsa,
    Ora più svolgersi non sanno in grazie
    Piene di tempo
    Svelando, a ogni mio umore rimutate,
    I segni vani che le fanno vive
    Se ci misurano.

    E quando squillano al tramonto i vetri,
    Ma le case più non ne hanno allegria
    Per abitudine se alfine sosto
    Disilluso cercando almeno quiete,
    Nelle penombre caute
    Delle stanze raccolte
    Quantunque ne sia tenera la voce
    Non uno dei presenti sparsi oggetti,
    Invecchiato con me,
    O a residui d'immagini legato
    Di una qualche vicenda che mi occorse,
    Può inatteso tornare a circondarrni
    Sciogiiendomi dal cuore le parole.

    Appresero così le braccia offerte
    I carnali occhi
    Disfatti da dissimulate lacrime,
    L'orecchio assurdo,
    Quell'umile speranza
    Che travolgeva il teso Michelangelo
    A murare ogni spazio in un baleno
    Non concedendo all'anima
    Nemmeno la risorsa di spezzarsi.
    Per desolato fremito aIe dava
    A un'urbecome una semenza, arcana,
    Perpetuava in sé il certo cielo, cupola
    Febbrilmente superstite.

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    Nelle vene
    da Roma occupata



    Nelle vene già quasi vuote tombe
    L'ancora galoppante brama,
    Nelle mie ossa che si gelano il sasso,
    Nell'anima il rimpianto sordo,
    L'indomabile nequizia, dissolvi;

    Dal rimorso, latrato sterminato,
    Nel buio inenarrabile
    Terribile clausura,
    Riscattami, e le tue ciglia pietose
    Dal lungo tuo sonno, sommuovi;

    Il roseo improvviso tuo segno,
    Genitrice mente, risalga
    E riprenda a sorprendermi;
    Insperata risùscitati,
    Misura incredibile, pace;

    Fa, nel librato paesaggio, ch'io possa
    Risillabare le parole ingenue.

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