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    GIRO DELLE FIANDRE 2016
    TRIONFO SAGAN, CANCELLARA RESA TRA GLI APPLAUSI


    Lo slovacco conquista con una splendida cavalcata solitaria la edizione numero 100 della Ronde


    E' il giorno della rinascita per il Belgio...

    Il sole primaverile che prende il posto di quel cielo spesso grigio e di quel fango che rende una tortura pavè e muri, un milione di persone sulla strade, sorrisi e incitamenti, un campione del mondo simpaticissimo come lo slovacco Peter Sagan che cavalca solitario verso l'arrivo andando a vincere la prima classica monumento in una carriera già ricchissima (77 vittorie!). E ancora, una leggenda come Fabian Cancellara, secondo al passo d'addio di una gara che lo ha consacrato leggenda: arriva salutando un pubblico che gli tributa l'ovazione, mentre Sepp Vanmarcke - alla sua ruota- praticamente rifiuta le chance di scalare un gradino del podio, giustamente rispettoso del mito. Questo è il Giro delle Fiandre numero 100, la prima vera kermesse popolare in Belgio dopo la tragedia di Bruxelles, la gara che chiude la settimana terribile delle morti di Demoitié e Myngheer: "Dedico a loro la mia vittoria", è il primo pensiero di Peter Sagan. Diciotto muri, mille insidie, e una considerazione paradossale: Sagan batte Cancellara sul suo terreno preferito, la cronometro. Gli ultimi 15 km, scavalcata l'ultima insidia, sono una sorta di testa a testa a distanza: lo slovacco è davanti, scatenato e solitario, la Locomotiva di Berna insegue, determinato ad non abdicare. E' il momento più difficile, ma anche quello della consacrazione dello slovacco, freddo nel difendere un esiguo vantaggio contro il più 'brutto' dei clienti. "Sono molto felice, è stata durissima sin dall'inizio - ribadisce il vincitore-. Siamo andati a tutta e devo ringraziare la squadra, che mi ha sempre tenuto davanti e mi ha permesso di recuperare da un problema alla bicicletta".


    Già, è stata durissima. La frase di Sagan va sottolineata. Il sole semplifica le cose, ma non per questo toglie stress ad una sfida del genere. Per lunghi tratti aleggia una metafora calcistica: marcature a uomo tra i big, mentre davanti va avanti la solita fuga destinata all'esaurimento. Tra quelli in avantiscoperta ci piace citare Greipel, poco adatto a gare del genere ma spettacolare nel proporre scatti e rilanci. Non mancano anche le cadute, che costano care anche ad un favorito come van Avermaet (rottura della clavicola e lacrime) e ad un outsider di lusso come il vincitore della Milano-Sanremo, Arnaud Demare. Ora comunque sarebbe ingiusto forzare troppo su questo tema. Del bisogno di sicurezza si è giustamente parlato tanto (su auto e moto al seguito e sull'eccessivo numero di corridori, temi sacrosanti), però il ciclismo è comunque uno sport rischioso, anche di contatto, non va dimenticato. La caduta di van Avermaet paradossalmente consegna il ruolo di capitano a Oss, che se la gioca discretamente ma non coglie l'attimo per recitare nei momenti topici (finirà sedicesimo, staccato di un minuto). Momenti che arrivano soprattutto intorno ai -30 dal traguardo. Kwiatkowski, che aveva battuto Sagan ad Harelbeke, piazza uno spunto dei suoi, lo slovacco lo segue, con loro Vanmarcke. I tre si portano su un gruppetto in cui il più pericoloso è Vanderbergh (ma la Etixx Quick Step ha ancora deluso), ma il Kwaremont (penultimo muro) fa chiarezza. Kwiatkowsi si affloscia, Sagan e Vanmarcke da soli, dietro Cancellara scatena la caccia. L'ultima insidia, il Paterberg, quella della verità. Sagan dà la stoccata decisiva, Cancellara riprende Vanmacke. Inizia una sorta di cronometro: la Locomotiva di Berna fa paura, ma è la giornata del campione del mondo, che non è solo simpatico, ma anche straordinario. Dopo la Gand-Wevelgem arriva la Ronde, e domenica prossima la sfida più suggestiva, la Parigi-Roubaix. Uno sguardo anche alla prova femminile, anch'essa appannaggio di una maglia iridata. Vittoria della campionessa del mondo, Elizabeth Armitstead. La 27enne britannica ha regolato allo sprint la svedese Emma Johansson, terza l'olandese Chantal Blaak. Migliore delle italiane Rossella Ratto, 13esima.

    ORDINE D'ARRIVO

    1 Peter Sagan (Svk) Tinkoff
    2 Fabian Cancellara (Sui) Trek-Segafredo
    3 Sep Vanmarcke (Bel) Lotto Soudal
    4 Alexander Kristoff (Nor) Katusha
    5 Luke Rowe (GBr) Team Sky
    6 Dylan van Baarle (Ned) Cannondale Pro Cycling
    7 Imanol Erviti Ollo (Spa) Movistar
    8 Zdenek Stybar (Ned) Etixx-quickStep
    9 Dimitri Claeys (Bel) Wanty - Groupe Gobert
    10 Niki Terpstra (Ned) Etixx-QuickStep
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    SHELL HOUSTON OPEN 2016
    Rickie Fowler e Jordan Spieth favoriti d’obbligo


    Non parteciperanno giocatori italiani allo Shell Houston Open (31 marzo-3 aprile), torneo del PGA Tour in programma sul percorso del GC of Houston a Humble nel Texas, che anticipa di una settimana il Masters (7-10 aprile, Augusta National, Georgia) primo major stagionale. Numerosi big, dopo aver preso parte al WGC Dell Match Play, hanno deciso per la settimana di riposo, in particolare l’australiano Jason Day, tornato dopo il doppio successo delle ultime due settimane numero uno mondiale, e il nordirlandese Rory McIlroy, numero tre. Non l’ha pensata allo stesso modo Jordan Spieth, poco convincente nelle recenti uscite, al punto di perdere il trono del World ranking, e probabilmente desideroso di presentarsi ad Augusta sia in giacca verde, dovendo difendere il titolo, e magari con nuovamente in testa la corona mondiale. E nemmeno sembra troppo preoccupato della tradizione poco favorevole che vuole il vincitore della gara che precede il major raramente trionfatore in Georgia. Del resto le eccezioni (poche) ci sono state e ne sa qualcosa lo statunitense Phil Mickelson, anch’egli in campo, il quale nel 2006 si impose nel secondo dei tre Masters acquisiti dopo aver sbancato sette giorni prima il BellShouth Classic. Difende il titolo J.B. Holmes in un contesto che comprende parecchi concorrenti in grado di prevalere, almeno sulla carta, perché non tutti sono al top della condizione. Ricordiamo tra gli altri gli statunitensi Rickie Fowler, Keegan Bradley, Dustin Johnson, Patrick Reed, lo svedese Henrik Stenson, i sudafricani Louis Oosthuizen, secondo nel WGC Dell Match Play battuto da Jason Day (5/4), Ernie Els e Charl Schwartzel e lo spagnolo Sergio Garcia. Possono contribuire allo spettacolo, anche se hanno poche chances di vincere, l’irlandese Padraig Harrington, il thailandese Thongchai Jaidee, l’indiano Anirban Lahiri, il sudafricano Retief Goosen. il gallese Jamie Donaldson, l’inglese Lee Westwood, il canadese Grahan DeLaet e l’argentino Angel Cabrera. Il montepremi è di 6.800.00 dollari dei quali 1.224.000 al vincitore.


    Il torneo su Sky - Lo Shell Houston Open andrà in onda in diretta, in esclusiva e in alta definizione su Sky con collegamenti ai seguenti orari: giovedì 31 marzo, dalle ore 21 alle ore 24 (Sky Sport 3 HD); venerdì 1 aprile, dalle ore 21 alle ore 24 (Sky Sport Plus HD); sabato 2 e domenica 3, dalle ore 21 alle ore 24 (Sky Sport 2 HD). Il commento sarà affidati ad Alessandro Lupi e a Roberto Zappa
  3. .


    RISING
    Rainbow


    1976 - Polydor


    Il capolavoro della band di Ritchie Blackmore

    Uscito nel 1976, a solo un anno di distanza dall’lp di esordio dei Rainbow, ”Rising” si propone come un album decisamente innovativo, differenziandosi notevolmente dal precedente: il sound e la line-up della band vengono completamente rivoluzionati per mano di Ritchie Blackmore –padre padrone del gruppo – che, insoddisfatto della produzione del primo album (buono a livello di composizione ma povero nella resa finale) si presenta in “Rising” con una nuova formazione; a parte Ronnie James Dio (portentosa voce degli “Elf”), i volti nuovi sono: Cozy Powell (1947-1998) fenomeno della batteria, Jimmy Bain al basso e Tony Carey alle tastiere. Ed è proprio Tony Carey ad introdurci con “Tarot Woman” in una nuova ed affascinante dimensione, caratterizzata da elementi magici e toni epici, dove la musica svela scenari fino ad allora inesplorati. Chitarra e batteria faranno poi il resto, regalandoci un assaggio di quello che si rivelerà un album capolavoro. Nonostante “Run with the wolf” non rappresenti l’highlight del disco, non appare, comunque, come una nota stonata poichè si inserisce perfettamente nella giusta atmosfera “tolkeniana”, mentre “Starstruck” è senza dubbio la canzone più “purpleiana” di “Rising”, a cui Ronnie James Dio si dimostrerà particolarmente legato riproponendola spesso, dal 1983, nei suoi tour solisti. La prima parte dell’album si chiude con “Do you close your eyes”, brano che anticipa, per alcuni aspetti, quelli che saranno i Rainbow degli anni ’80, sfacciatamente più inclini a corteggiare le tendenze del mercato. Un totale di tre minuti che racchiudono un riff di chitarra il cui impatto è immediato, una sezione ritmica precisa ed affiatata, nella quale la voce di Dio trova terreno fertile per esprimersi ad altissimi livelli. Un “assolo” di batteria eseguito magistralmente da un grande Cozy Powell ci introduce al masterpiece della band : “Stargazer”, precursore di un nuovo genere musicale, ”l’epic metal”.


    L’impatto di questa canzone è straordinariamente coinvolgente in ogni più piccola sfumatura; per la prima volta Dio affronta un tema del tutto nuovo, quello “epico-mistica”, che diventerà una costante nel proseguo della sua carriera, soprattutto di quella solista. In “Stargazer” RJDio ci guida in una dimensione surreale, regalandoci un’interpretazione impareggiabile: aggettivi come trascinante, coinvolgente, emozionante, sicuramente non sono sufficienti descriverne la rara e straordinaria intensità. Assolutamente non da meno la chitarra, che con il suo incedere sempre più incalzante, culmina in un assolo dal tono drammatico, barocco e a tratti orientaleggiante. Pur non essendo il rock un genere in cui la tastiera svolge solitamente un ruolo di primo piano, in “Stargazer”, ne diventa co-protagonista: Tony Carey, con un eccezionale arrangiamento dona al pezzo un fortissimo pathos, un’epopea monumentale, unica ed irripetibile. “Rising” si chiude con “A light in the black”, il brano più oscuro e devastante di tutto l’album: l’impatto sonoro e la performance del gruppo sono apocalittici;qui la voce di RJDio trova la sua massima espressione raggiungendo livelli di “cattiveria” inaudita. Ritchie Blackmore e Cozy Powell (neanche a dirlo) si scatenano in una prestazione superlativa, dimostrando ancora una volta una potenza ed una tecnica a dir poco superiori. Ascoltando “A light in the black”, si ha un’ulteriore conferma dell’eccellente lavoro svolto dal producer Martin Birch. È curioso notare, come in un’intervista rilasciata da Ronnie James Dio qualche anno fa, egli affermò inspiegabilmente, che di tutta la sua carriera “A light in the black” fu il pezzo da lui assolutamente meno apprezzato (...?!?...) ... Mah ... Sarà ... Resta il fatto che a noi “ci piace”, e a lui “ci ha” portato tanta tanta fortuna!!!

    Rising

    ASCOLTA L'ALBUM

    Pubblicazione - marzo 1976
    Durata - 33 min : 28 s
    Tracce - 6
    Genere - Hard rock
    Heavy metal
    Etichetta - Polydor
    Produttore - Martin Birch
    Registrazione - febbraio 1976


    Tracce

    Tarot Woman – 5:58 – (Ritchie Blackmore, Ronnie James Dio)
    Run with the Wolf – 3:48 – (Ritchie Blackmore, Ronnie James Dio)
    Starstruck – 4:06 – (Ritchie Blackmore, Ronnie James Dio)
    Do You Close Your Eyes – 2:58 – (Ritchie Blackmore, Ronnie James Dio)
    Stargazer – 8:26 – (Ritchie Blackmore, Ronnie James Dio)
    A Light in the Black – 8:12 – (Ritchie Blackmore, Ronnie James Dio)


    Formazione

    Ritchie Blackmore - Chitarra
    Ronnie James Dio - voce
    Jimmy Bain - Basso
    Tony Carey - Tastiere
    Cozy Powell - batteria
  4. .


    METAL DOG
    Andy Summers


    2015 (Andy Summers Music)


    L'ex-Police in uno dei capitoli più rimarchevoli della sua lunga discografia

    La fama dei Police in piena era new wave è stata, a posteriori, una delle incongruenze ideologiche più vistose di quell’epoca, il punk aveva gettato alle ortiche il concetto di musicista=virtuoso dello strumento, relegando i protagonisti del passato al ruolo di dinosauri. Sting, Andy Summers e Stewart Copeland fecero breccia con un suono aspro e deciso, che aveva tutte le connotazioni dell’anti-divismo, ma alfine la loro produzione discografica si distinse anche per la notevole caratura tecnica. Chiuse le offensive pop con il brillante e raffinato “Synchronicity”, i tre musicisti hanno messo ancor più in evidenza il loro alieno status di esperti musicisti, tra questi Andy Summers è stato senza dubbio il più audace, con una produzione discografica variegata e più che dignitosa. Nei suoi oltre venti progetti da solista, ha incrociato il jazz, il progressive, la musica brasiliana, il rock, la classica e l’art-rock, ma quello che ha colpito di più la fantasia del pubblico è quel prezioso “I Advance Masked” realizzato con Robert Fripp nel 1982, anche se urge una più completa rivalutazione critica del suo profilo artistico. Con “Metal Dog”, Andy Summers ritorna dalla parti dell’art-rock e della sperimentazione con un progetto che nasce dalla volontà dell’artista di creare partiture per balletto e danza moderna, per poi assumere i connotati di opera autosufficiente e più articolata. Registrato in piena autonomia e solitudine creativa, “Metal Dog” convince e affascina per la fluidità dell’insieme: elettronica e virtuosismo si incrociano e si amalgamano, dando forma a una musica ricca di sfaccettature, spesso ai confini del jazz-rock , a volte spiazzante o dissonante. Le robuste tessiture quasi post-rock della title track certificano lo stato di grazia creativa del musicista, che mette in piedi una delle sue opere più accattivanti e riuscite, passando da giocose pagine ritmiche in bilico tra funky e jazz (“Animal Chatter”) a insolite trame folk ed etniche impreziosite da percussioni gamelan e dobro (“Qualia”). Più descrittiva e meno accademica che in passato, la musica di Summers quasi sfiora le suggestioni dei Cocteau Twins in “Ishango Bone” o di Mike Oldfield nella ipnotica “Vortex Street”, resta gradevole e vibrante anche nelle inevitabili pagine di routine (“Bitter Honey”, “Harmonograph”) per poi sfoderare gli artigli nella superba “Mare Imbrium”: eccellente soundscape sonoro in bilico tra psichedelia in stile Pink Floyd e fluidi di frippertronics.


    Tracce

    Metal Dog
    Animal Chatter
    Ishango Bone
    Vortex Street
    Bitter Honey
    Qualia
    How Long Is Now?
    Harmonograph
    Oceans of Enceladus
    Mare Imbrium
  5. .


    AFTER SCHOOL SESSION
    Chuck Berry


    1958 (Chess Records)


    In the beginning there was rock'n'roll: il primo Lp del "padre fondatore"

    Inscrivere le origini della musica rock all'interno di una semplice cronologia evoluzionistica sarebbe un po' come affidare a "Tutto il calcio minuto per minuto" la radiocronaca del Big Bang. Come se si trattasse di una filiera o di una catena di montaggio, piuttosto che di assestamenti lenti e imperscrutabili. Un'estenuante convergenza di fattori ritmici, artistici e sociali, una semiosi illimitata in cui è frustrante, oltre che poco significativo, rintracciare l'archetipo. E, d'altronde, a che pro risalire fino al primo quando, spazzando via ogni residuo margine di nebulosa indefinitezza, si può ormai facilmente attestare chi, fra i mille padri di questa vittoriosa rivoluzione, sia stato il più dotato, il più influente, il più sfrontato, in due parole, il migliore? Bill Haley non era che un pacioso capocomico da "American Bandstand", Elvis Presley un Isacco, figlio dell'America rurale, immolato sull'altare di un buon compromesso commerciale fra la vecchia morale (segregazionista) e i nuovi costumi (e consumi) libertari. Chuck Berry, in tempi di race records, non solo fu il primo nero idolatrato da un pubblico prevalentemente bianco, ma anche il primo afro-americano a suonare musica bianca (country, hillbilly) davanti a un pubblico di colore altrettanto entusiasta. A prescindere dal fatto che l'abbia inventato lui o meno, Chuck Berry fu il primo vero compositore del rock'n'roll, il primo grande chitarrista, nonché il suo primo poeta. Come autore di canzoni stabilì l'aureo paradigma della musica rock: melodie di tre minuti, prevalentemente accordate dalla chitarra elettrica sopra una sezione ritmica formata da basso e batteria e talvolta arrangiate con altri strumenti (sax, archi, tastiere). Come chitarrista sfidò apertamente le convenzioni armoniche del blues profondendole negli accordi grezzi, alternati e cavalcanti dell'hillbilly e del country & western e inventando, di fatto, la scala pentatonica "doublestep" su cui si fonda la tecnica chitarristica rock.


    Le sue liriche furono di gran lunga le più forbite (fu il primo a introdurre la rima regolare) e le più eversivamente ricettive al mutamento dei costumi in atto in quel periodo: le sue disinibite storie di adolescenti alla ricerca di sesso e libertà ("School Day", "Sweet Little Sixteen", "Rock 'n' Roll Music"), le sue vignette di vita americana ("No Money Down", "Carol", "Johnny Be Good") si servono del concetto di "fun" - un edonismo inconsciamente ribellistico contro le restrizioni del conformismo gerarchico e paternalistico (entrambi incarnati, non a caso, dalla presidenza Eisenhower: un generale sceso in politica, uno "zio" benevolo ma severo) - come di un grimaldello semantico con cui far traballare i tradizionali pilastri dell'America conservatrice. In pochi hanno saputo parimenti descrivere ed interpretare l'immaginario dell'adolescente medio (e del suo pubblico): forse solo il Dylan "post-kennedyano" o Bruce Springsteen all'alba del doppio mandato di Ronald Reagan. Il miglior repertorio di Berry si concentra nel periodo 1955-59, consumandosi in gran parte nel mercato dei singoli e dei 45 giri, prima di dare alla luce alcuni album o raccolte che dir si voglia, le più significative delle quali sono "Atfer School Session" (1958) e "Chuck Berry On Top" (1959). E se il secondo evidenzia una maggiore presenza di "evergreen", la nostra scelta è caduta sul primo per la qualità seminale dei pezzi e la scabra compattezza dei suoni. Dal Sud e dal Sud Ovest, dal delta del Mississippi e dalle chiese della Georgia, dai bordelli del Texas e dagli acciottolati di Memphis stava "diabolicamente" squassando un ciclone, nel suo occhio c'era "School Day": al "passo dell'oca" Chuck Berry fa irruzione nel ballo della scuola, folgorando le coppiette ancora appese guancia a guancia dopo la solita serie di lenti. Come nella famosa scena di "Ritorno al futuro", per loro questa è musica aliena: il boogie singhiozzante di Johnnie Johnson (al piano) è sospinto dal ritmo affannoso di Fred Below (alla batteria), mentre Chuck Berry (alla chitarra) inalbera call and response con se stesso e si produce in assoli r'n'b funambolici e insistiti. Mirabile, poi, il modo in cui il testo sa catturare l'atmosfera tediosa e oppressiva della vita scolastica ("Up in the morning and out to school/ the teacher is teachin' the golden rule/ American history and practical math/ you're studyin' hard and hopin' to passa") che sboccia infine nel rituale emancipato di un ballo provocante ("with tha one you love you're makin' romance/ all day long you've been wantin' to dance") e nel celeberrimo chorus "Hail! Hail! Rock 'n' Roll". "Deep Feeling" è un laid-back blues strumentale i cui corruschi lampi di steel squarciano (con picking acuminati e improvvisi) le rassicuranti figure di piano. "Too Much Monkey Business" è un'insofferente e affilata satira sul consumismo giovanile (con la sua sfilata di lavori malpagati e ritratti sociali di sicura identificazione per i teenager di allora schiacciati da una società in cui non avevano posto né valore, se non in prospettiva, come adulti, genitori e lavoratori del futuro); uno stordente rockabilly per batteria sincopata, ricami di sax appena percepibili e un assolo western di Chuck Berry che suona vertiginoso e avveniristico al meno quanto il talkin'/rap della strofa. "Roly Poly" è un altro ballabile strumentale fatto di staccati taglienti come pezzi di vetro, armonie meticcie country-blues (con alternarsi di twang e slide) e una batteria che dirime in quattro quarti figure aspre e caotiche. "No Money Down" è un blues alla Muddy Waters (colui che peraltro l'aveva raccomandato alla Chess Records) che tracima però in un chorus bianco e flessuoso, un po' alla Nat "King" Cole, dove le tradizionali lamentazioni si trasformano in uno spregiudicato inno all'automobile, descritta come feticcio erotico e agognata conquista di una nuova libertà/identità sessuale, con una dovizia di particolari iperbolici e surreali che sarebbe piaciuta a David Cronemberg. "Brown Eyed Handsome Man" è un boogie per sfuggenti chitarre hawaiane e divagazioni honky-tonk, uno spavaldo elogio della "negritudine" ("brown eye" sta sibillinamente per "brown skin") e della carica sessuale di cui è motore primo (con annessa apologia dell'adulterio e delle minorenni smaliziate: "Mother told her daughter: go out and find your brown eyed handsome man") e perle d'umorismo nonsense come "Milo Venus was a beautiful ass/ she had the world in tha palm of his hand/ she lost both her arms in a wrestling match/ to find her brown eyed handosme man). "Havana Moon" è la cronaca tragicomica di un amore clandestino (e interrazziale?) che affoga letteralmente nell'alcool, un call and response acustico infiorettato da un arpeggio caraibico (calypso) che a tratti preconizza quasi "Desolation Row". "Downbound Train" è un altro squarcio di futuro: ritmo ferroviario seviziato dal blues scratchy della chitarra e l'intonazione hobo che illustra un immaginifico panorama infernale ("the boiler was filled by lager beer/ the devil himself was the engineer") nell'ottica di un passeggero che è un po' Orfeo ("sulphuring flames scorching their hands and faces/ (...) louder and louder the thunder crash/ brighter and brighter the lighting flash") e un po' il Jim di "Huckleberry Finn" ("The passengers was mostly a motley crew/ some were foreigners and other he knews/ rich man in broadcloth, beggars in rag/ handsome young ladies and wicked old hags"). Un voodoo-billy ante-litteram che neanche i Morphine o i Gun Club. "Drifting Heart" è un romantico bolero in cui Berry rinuncia ai suoi "solo" esplosivi per prodursi in una nostalgica imitazione del crooning anni Quaranta. Nella maggior parte delle edizioni oggi in commercio su supporto digitale, figurano altri tre brani: "Maybellene" (uno degli episodi più significativi, uno stomp ferroviario per piano honky-tonk e cantato talkin' blues) e "You Can't Catch Me" (rhythm 'n' blues pianistico, ballabile e dinoccolato), una sorta di dittico fantasy/novelty dedicato all'amata automobile (una Ford "Flight De Ville" chiamata appunto "Maybellene") e "Thirty Days (To Come Back Home)", l'ironico inseguimento di un giovane "sedotto e abbandonato" che si slancia su un travolgente riff country-rock, ripreso pari pari dagli Stones in "High And Dry" ("Aftermath", 1966). Il repertorio di Chuck Berry sarà un'inesauribile banca del sangue destinata a irrorare le più oscure cavità nel cuore del rock per almeno tre decenni dopo "After School Session". Irrinunciabile...

    After School Session

    Pubblicazione - 1º maggio 1957
    Durata - 33 min : 16 s
    Tracce - 12
    Genere - Rock and roll
    Rock
    Etichetta - Chess Records
    Produttore - Leonard Chess, Phil Chess
    Registrazione - 1955 - 1957


    Tracce

    Lato A

    School Days (Ring Ring Goes the Bell)
    Deep Feeling
    Too Much Monkey Business
    Wee Wee Hours
    Roly Poly
    No Money Down

    Lato B

    Brown-eyed Handsome Man
    Berry Pickin'
    Together (We'll Always Be)
    Havana Moon
    Downbound Train
    Drifting Heart
  6. .


    GAND WEVELGEM 2016
    SAGAN INTERROMPE IL DIGIUNO


    Moto investe Antoine Demoitié: è grave


    Peter Sagan, fine di un'ossessione. Dopo ben sei secondi posti, le beffe in serie subite da van Avermaet e, clamorosa l'ultima, al Gp Harelbeke da Kwiatkowski, il campione del mondo brinda finalmente con la maglia iridata. Lo slovacco, personaggio mai banale, 'sceglie' l'occasione migliore per sfatare questo ingrombrante tabù stagionale. Si prende la Gand-Wevelgem che, pur non essendo tra quelle monumento, è classica di ragguardevole blasone. Vince Sagan dopo un duello psicologico con il suo rivale storico, Fabian Cancellara. Un interminabile ultimo km, una resa dei conti da far west nel quale lo svizzero dirige le operazioni ad un ritmo molto basso. In ballo lo svizzero, la maglia iridata, un brutto cliente come Vanmarcke (capace di battere allo sprint in passato Boonen) e Kuznetsov, un russo che non ha niente da perdere. Peter Sagan ha paura che le gambe lo tradiscano come all'Harelbeke, reprime il suo istinto, aspetta le mosse altrui. Poi parte Kuznetsov, e lui coglie l'attimo: volata sicura e bis nella corsa belga dopo la vittoria del 2013. Purtroppo la gara ha fatto registrare anche un grave incidente. Il corridore belga Antoine Demoitié del team Wanty Gobert è caduto ad è stato investito da una moto. Il grave incidente è avvenuto a Sainte-Marie-Cappel, nelle Fiandre francesi. La sua squadra ha fatto sapere che "è ricoverato nel reparto di terapia intenstiva dell'ospedale universitario" di Lille, e che le sue condizioni sono per il momento "estramemente serie".


    "Buon lavoro da parte di tutti, il forte vento ha reso difficile questa corsa. Ho avuto dei momenti di difficoltà nella fase iniziale, quando sono rimasto da solo, ma sono riuscito a gestire la situazione", è la lucida disamina fatta da Sagan. La corsa infatti deve fare i conti con il vento. Un logorio nervoso notevole per i corridori, costretti ad una attenzione altissima già all'alba della gara. Mancano oltre 150 km all'arrivo e il gruppo è già spezzato: Peter Sagan, rimasto senza uomini (avrebbe Brutt, ma il russo è in avanscoperta) è chiamato alla prima mini impresa: fa il gregario di se stesso, si rifornisce all'ammiraglia, non perde mai la calma. Davanti ci sono una quarantina di uomini, compresi tutti i migliori, e la corsa sembra incanalata in una direzione ben precisa. La Lotto ha una vantaggio numerico, ma prima non lo sfrutta, poi vede uscire dai giochi per una caduta l'uomo di punta per gare del genere, il vincitore dell'Attraverso il Fiandre Jens Debbuschere. La sensazione di definitività rientra, i giochi si riaprono più volte. Gli italiani ci sono, ma quelli che vanno in avanscoperta sono imprigionati nella tattica. Solo una combinazione di fattori permetterebbe a Trentin, Oss e Nizzolo (entrati in un drappello) di avere una licenza premio, ma non è giornata da capitani permissivi. L'allungo di Kutnetsov è il preludio all'azione decisiva. Quando il russo è davanti, i muri sono stati quasi tutti scalati: sono dieci, gli organizzatori ne hanno previsti 4 in più rispetto al passato per favorire la selezione. Il più atteso è il Kemmel, affrontato due volte: la seconda dal versante più duro, pendenza massima al 23%. Cancellara si mette davanti, Sagan accelera rabbiosamente, vuoto per chi insegue. Un treno: l'unico che lo prende è Vanmarcke, quello che ci si attacca, una volta ripreso, è Kuznetsov. Resta fuori la Etixx-Quick Step, che nonostante il grande spiegamento di forze deve inseguire: Stybar manca per pochi metri l'aggancio al quartetto, poi dà una mano a Boonen, Terpstra e Trentin per fornire a Gaviria una chance in volata. Contro lo squadrone belga vale però la regola del tre di Cancellara: dagli 3 metri di margine e non lo riprendi più. Figuriamoci stavolta, la Locomotiva di Berna può spartire la fatica con altri compagni di attacco. Poche parole, pochi sguardi, tanti fatti. I tre collaborano fino alla resa dei conti. Quel km infinito, sembra più una gara su pista, la parola fine la mette Peter Sagan.

    ORDINE D'ARRIVO

    1 Peter Sagan (Svk) Tinkoff Team
    2 Sep Vanmarcke (Bel) Team LottoNl-Jumbo
    3 Viacheslav Kuznetsov (Rus) Team Katusha
    4 Fabian Cancellara (Swi) Trek-Segafredo
    5 Arnaud Demare (Fra) FDJ a 25''
    6 Fernando Gaviria (Col) Etixx - Quick-Step
    7 Jurgen Roelandts (Bel) Lotto Soudal
    8 Jacopo Guarnieri (Ita) Team Katusha
    9 Greg Van Avermaet (Bel) BMC Racing Team
    10 Michael Morkov (Den) Team Katusha


  7. .


    HERE'S LITTLE RICHARD
    Little Richard


    1957 - Specialty Records


    L' album di debutto del musicista rock and roll statunitense Little Richard

    "Venivo da una famiglia in cui a mio padre non piaceva il rhythm and blues" disse Little Richard a Rolling Stone nel 1970. "Bing Crosby, 'Pennies From Heaven', Ella Fitzgerald: ecco tutto ciò che mi capitava di ascoltare. E sapevo che c'era qualcosa che poteva essere più rumoroso, ma non sapevo dove trovarlo. E poi lo riscoprii in me". Il roco debutto di Richard raccoglieva singoli come "Good Golly Miss Molly", in cui il suo chiassoso piano boogie-woogie e il suo grido in falsetto sbrigliarono le sfrenate possibilità del rock & roll. "Tutti i Frutti" contiene tuttora quanto deve essere considerato il testo rock più ispirato di sempre: "A wop bop alu bop, a wop bam boom!". (MarcDivine@74)


    Here's Little Richard

    ASCOLTA L'ALBUM

    Pubblicazione - marzo 1957
    Durata - 28 min : 30 s
    Tracce - 12
    Genere - Rock and roll
    Rhythm and blues
    Etichetta - Specialty Records
    Produttore - Bumps Blackwell


    Tracce

    Lato A

    Tutti Frutti (Richard Penniman, Dorothy LaBostrie, Joe Lubin) – 2:25
    True Fine Mama (Penniman) – 2:43
    Can't Believe You Wanna Leave (Lloyd Price) – 2:28
    Ready Teddy (Robert Blackwell, John Marascalco) – 2:09
    Baby (Penniman) – 2:06
    Slippin' and Slidin' (Peepin' and Hidin') (Penniman, Eddie Bocage, Al Collins, James Smith) – 2:42

    Lato B

    Long Tall Sally (Enotris Johnson, Blackwell, Penniman) – 2:10
    Miss Ann (Penniman, Johnson) – 2:17
    Oh Why? (Winfield Scott) – 2:09
    Rit It Up (Blackwell, Marascalco) – 2:23
    Jenny, Jenny (Johnson, Penniman) –2:04
    She's Got It (Marascalco, Penniman) –2:26


    Formazione

    Little Richard – voce, pianoforte (eccetto sulle tracce 5 & 9)
    Lee Allen – sax tenore (eccetto sulle tracce 2 & 12)
    Alvin "Red" Tyler – sax baritono (eccetto sulle tracce 2 & 12)
    Frank Fields – basso (eccetto sulle tracce 2 & 12)
    Earl Palmer – batteria (eccetto sulle tracce 2 & 12)
    Edgar Blanchard – chitarra (eccetto sulle tracce 1, 2, 5, 9 & 12)

    Musicisti aggiuntivi

    Justin Adams – chitarra (tracce 1 & 5)
    Huey Smith – piano (tracce 1 & 5)
    Renald Richard – tromba (traccia 2)
    Clarence Ford – sax tenore, sax baritono (traccia 2)
    Joe Tillman – sax tenore (traccia 2)
    William "Frosty" Pyles – chitarra (traccia 2)
    Lloyd Lambert – basso (traccia 2)
    Oscar Moore – batteria (traccia 2)
    Roy Montrell - chitarra (traccia 9)
    Wilbert Smith – sax tenore (traccia 12)
    Grady Gaines – sax tenore (traccia 12)
    Clifford Burks – sax tenore (traccia 12)
    Jewell Grant – sax baritono (traccia 12)
    Nathaniel Douglas – chitarra (traccia 12)
    Olsie Richard Robinson – basso (traccia 12)
    Charles Connor – batteria (traccia 12)
  8. .


    IL RITORNO DEL GENIO FUTURISTA
    MILANO CELEBRA LA GRANDE ARTE DI BOCCIONI


    La mostra festeggia nel centenario della sua morte, il talento del pittore e scultore, protagonista indiscusso dell’avanguardia italiana di inizio ‘900


    Milano ha scelto un anniversario per rendere un doveroso omaggio al suo artista d’adozione Umberto Boccioni: il primo centenario della morte avvenuta nel 1916. Così, una grande mostra ospitata a Palazzo Reale, a cura di Francesca Rossi e Agostino Contò, propone di ripercorrere tutto il cammino artistico dal respiro internazionale del maestro futurista, con circa 280 opere, tra disegni, dipinti, sculture, incisioni, fotografie d'epoca, libri, riviste e documenti. "Umberto Boccioni - genio e memoria" è uno degli eventi di punta del palinsesto primaverile "Ritorni al futuro" e propone una lettura anche delle fonti di ispirazione che, da Raffaello a Gaetano Previati, hanno costruito il complesso linguaggio dell'artista, prima accademico e poi estremamente libero, . "Questa ricchezza di cultura visiva che lui aveva - ha spiegato la curatrice Francesca Rossi - poi ha nutrito anche tutto il suo percorso di ricerca per l'arte nuova. Come tutti gli artisti delle avanguardie, lui cercava l'arte moderna e l'opera d'arte universale della modernità..".


    Questa esposizione riunisce per la prima volta il ricchissimo patrimonio dell'artista, dalle collezioni e dagli archivi dei musei milanesi: Camera di Commercio, Castello Sforzesco, Galleria d'arte Moderna, Gallerie d'Italia, Museo del Novecento e Pinacoteca di Brera, il primo al mondo per consistenza e rappresentatività. Le opere, sono esposte insieme ai sessanta disegni del Castello Sforzesco, si tratta di un nucleo di eccezionale qualità capace di riassumere le linee essenziali del percorso artistico di Boccioni tra il 1906 al 1916. Prima di questa occasione, i disegni sono stati esposti al completo una sola volta, nel 1979. Il percorso poi segue un andamento cronologico e per nuclei tematici, inoltre propone scritti e documenti, in particolare una rassegna stampa futurista riunita a partire dal 1911 e un libro-raccolta elaborato da Umberto Boccioni nella sua fase prefuturista, testimonianza eccelsa del suo passaggio alla modernità. Alcune delle opere menzionate in questo speciale "atlante", sono presenti in mostra e sono poste accanto a opere di Boccioni per trovarne le affinità e approfondire temi e aspetti cruciali della poetica di Boccioni, come ad esempio: lo sviluppo del concetto del dinamismo in rapporto alla figura umana (La donna al caffè, Milano, Museo del Novecento), il ritratto (Materia, raffigurante il ritratto della madre, collezione Mattioli), le vedute paesaggistiche e urbane (Le officine di Porta Romana, Milano, Gallerie d'Italia). Sono undici le opere prestate dal Museo del Novecento, che custodisce il nucleo pittorico e scultoreo di Umberto Boccioni più consistente al mondo in una collezione pubblica, e partecipa poi alle celebrazioni che Milano dedica al maestro con un allestimento nelle sue sale dedicato alla stagione "prefuturista", con opere di Balla, Carrà, Russolo, poi firmatari del primo Manifesto della pittura futurista del 1911. "Questo percorso, insieme alle altre opere del Museo del Novecento non esposte nelle adiacenti sale di Palazzo Reale, costituisce per i visitatori un'occasione imperdibile per completare la conoscenza dell'artista e per comprendere a fondo la portata rivoluzionaria del suo lavoro - ha sottolineato l'assessore Del Corno -. Proprio per consentire un'esperienza di visita a trecentosessanta gradi, il Comune di Milano ha previsto che il biglietto di ingresso alla mostra 'Umberto Boccioni (1882 - 1916). Genio e Memoria' comprenda anche l'ingresso al Museo del Novecento". La mostra, promossa dal comune di Milano e organizzata da Palazzo Reale, Museo del Novecento, Castello Sforzesco ed Electa, è aperta al pubblico fino al 10 luglio prossimo. Tutte le informazioni qui - Palazzo Reale



  9. .


    CLOSER TO THE PEOPLE
    Tanita Tikaram


    2016 (earMUSIC)


    Un disco ai confini del jazz per quei pacati pomeriggi d'ozio e solitudine

    Vivere di musica, viaggiare per il mondo e pubblicare dischi solo quando si ha voglia; Tanita Tikaram vive in un mondo tutto suo, che orbita al proprio passo fuori dal tempo e dalle mode. Del resto, un po' outsider lo è sempre stata. Basta riascoltare i suoi vecchi dischi per ricordarsi come, pur giovanissima, componeva già armonie nel modo più classico del termine, ma unendole poi a testi spesso cripitici e inusuali. Tanita non è affatto timida, badate bene, quanto piuttosto schiva e sostanzialmente disinteressata all'arte del compromesso. Felice di fare quel che fa, sembra non aver bisogno di nessuno se non di quella piccola fetta di pubblico che la segue da sempre. La sua nona fatica "Closer To The People" non fa altro che confermare il suo savoir faire; l'ascoltatore "critico" troverà in queste nuove dieci tracce solamente una classicità ormai ben nota e ampiamente collaudata. Tanita è una songwriter che non segue i caroselli dell'industria, al punto che fu lei stessa a ridimensionare (un po' ingiustamente, ndr) il suo "The Cappuccino Songs" (1998), ritenendolo fin troppo modaiolo nella produzione. Da allora, infatti, Tanita sembra viaggiare quasi a ritroso, e oggi persino quei pimpanti momenti a cavallo tra rock'n'roll e lavaggi elettronici che avevano animato l'ultimo "Can't Go Back" sono stati alquanto smussati; "Closer To The People" viaggia su una rilassata vena jazz/folk, perfetta per far da contorno alla sua profonda voce. Da segnalare comunque lo sbuffante trenino lanciato a tutta birra di "Glass Love Train", un inusitato passo di rumba in "The Way You Move" e persino un vago accenno di morna in "The Dream Of Her", che si sarebbe quasi potuto immaginare intonato da Cesaria Evora. Ma il pezzo più bello è forse il pacato blues del brano di lancio "Food On My Table", che sembra quasi richiamare il Tom Waits più elegiaco e domenicale. E domenicale è forse il modo migliore per descrivere "Closer To The People", un album di sentimenti riflessivi e rilassati, ottimo da mettere sullo stereo durante un pacifico primo pomeriggio mentre sta salendo il caffè. Nulla di nuovo, insomma, ma come ormai da tradizione nelle uscite di Tanita, anche questo sarà un disco che piacerà a chi già l'apprezza. (Ondarock)


    TRACKLIST

    DOWNLOAD

    Glass Love Train
    Cool Waters
    The Way You Move
    Closer to the People
    Gris Gris Tail
    The Dream of Her
    Don't Turn Your Back on Me
    Food on My Table
    Night Is a Bird
    My Enemy
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    ARANCIA MECCANICA
    DMITRI KASTERINE RACCONTA STANLEY KUBRICK


    Sono passati 45 anni da quando Stanley Kubrick ci ha mostrato Alexander DeLarge e gli altri Drughi dar sfogo all'ultraviolenza per le vie di Londra sotto l'effetto del Latte+ in quel capolavoro della cinematografia intitolato Arancia Meccanica. Per questa occasione la ONO Arte Contemporanea di Bologna mette in mostra fino al 7 maggio "Stanley Kubrick – Arancia Meccanica. Fotografie di Dmitri Kasterine", personale del fotografo di scena di Clockwork Orange e di altri due film girati dal regista statunitense, 2001: Odissea nello spazio e Il dottor Stranamore. L'esposizione comprende 17 fotografie di diversi formati legate da una rara potenza espressiva, frutto dell'intuizione di Dmitri Kasterine cha egli stesso ha definito come fulminea, veloce e senza preavviso. E tutto ciò traspare perfettamente dagli scatti messi in mostra a Bologna di cui vi presentiamo una selezione in anteprima.

    Se non vi fa male il Gulliver vi consiglio di non perderla: Ono arte contemporanea, Via Santa Margherita, 10, Bologna.




  11. .


    HAPPY TRAILS
    Quicksilver Messenger Service


    1969 (Capitol)


    Uno dei cardini della stagione psichedelica dei Sixties

    A ripercorrere la storia della stagione psichedelica di San Francisco c'è da perdersi. E non perché una storia lunga, cronologicamente parlando. Semplificando la si potrebbe circoscrivere a un periodo lungo non più di cinque anni, quando nasce e attecchisce - si sa, fra il '65 e il '70 del secolo scorso - il cosiddetto San Francisco Sound. Semmai è un problema di quantità a rendere l'argomento degno di essere trattato su un libro a parte, magari arricchito con tanto di aneddoti su quanto ci fosse di esterno al semplice fatto musicale, in particolare attività (contro)culturali artistiche politiche non proprio prescindibili dalla musica, dal rock, e il contrario, e poi tutte quelle band venute fuori come funghi e dimenticate altrettanto velocemente nel giro di pochi anni. Tutto accadeva in fretta, quasi come oggi, con la differenza che allora c'era l'innovazione, oggi la retromania: stessa differenza che passa - con la dovuta traslazione - fra rock e post-rock. (Viene così pure da pensare, fuori tempo massimo, all'America di quegli anni, a quanto fosse diversa da quella di oggigiorno, capace sì, questa, di sfornare sorprese di ogni tipo in ambito musicale, ma sicuramente non più eroica come quella).


    Dunque, per non rischiare di andare troppo lontano, e soprattutto per non raccontare ancora una storia vecchia sbiadita sentita risentita ecc., basterebbe cominciare a fare dei nomi (sentiti e risentiti): Grateful Dead, per esempio. Ovvero: la band-cardine della psichedelia di San Francisco/americana/mondiale. Fra le band di Haight-Ashbury, al secondo posto in ordine di importanza, metterei i Quicksilver Messenger Service. È vero, i Jefferson Airplane ebbero molto più successo di loro, più di tutti, ma per qualche motivo - non tanto strano, poi - i QMS, e in particolare il loro "Happy Trails", sembrano sopravvissuti meglio alla tirannia del tempo, anzi: quell'album risulta essere ancora oggi una delle esperienze più stimolanti della storia del rock, secondo molti il più grande album di sempre. E se è difficile affermare questo con certezza - per ovvi motivi - mi sbilancio e dico che "Happy Trails" sembra di gran lunga più riuscito di qualsiasi album dei Grateful Dead, fermo restando che si parla qui di live band a cui la dimensione studio non ha forse giovato sempre e comunque (N.B.: dire questo non significa che i QMS fossero "migliori" dei GD), e infatti i loro due più grandi album - "Happy Trails" e "Live/Dead" - sono stati registrati prevalentemente dal vivo. Punto primo: la band di Jerry Garcia e Bob Weir aveva portato nel rock quello che nel jazz c'era da sempre - aveva creato un analogo della jam session jazzistica - facendo dell'improvvisazione una nuova arte per Lsd e delineando così nuovi modelli contemporaneamente a quanto stavano facendo i Velvet Underground - pur in altri modi - a New York. Punto secondo: la band di John Cipollina e Gary Duncan raccolse quell'insegnamento e da lì concepì la propria idea di acid-rock, qualcosa assolutamente sui generis - ancorché risentendo dell'influenza di quelli. Ma ora veniamo alla storia. È il 1964 quando il cantautore Dino Valenti (vero nome Chet Powers) raduna attorno a sé dei musicisti a formare un quintetto costituente il primo nucleo stabile della band: John Cipollina (chitarra) e Gary Duncan (chitarra, voce) più David Freiberg (basso, voce) e Greg Elmore (batteria). L'arresto di Valenti per possesso di marijuana arriva però alla vigilia del contratto discografico, fatto, questo, che sarà decisivo per le sorti del gruppo, e in particolar modo per il ritardo nella pubblicazione dell'esordio. Rientrerà - Valenti - nella band solo dopo il disco della "svolta" country-rock, "Shady Grove". Ma l'impulso iniziale del leader basta a tenere insieme i compagni, che decidono di continuare cominciando quindi a farsi conoscere soprattutto per le evoluzioni strumentali dei due chitarristi nonché partecipando alla tre giorni del 4-6 febbraio del 1966 al Fillmore e al Monterey Pop Festival del 1967. Il primo album, omonimo, arriva nel 1968 (dopo il contratto con la Capitol), e come per altri esordi di rock psichedelico si rivela troppo educato per il potenziale che il gruppo sapeva invece esprimere sul palco. Per questo si dovrà attendere - appunto – "Happy Trails" (Capitol, 1969). Si accennava al fatto che il materiale dell'album fosse stato ricavato soprattutto da performance live, due in particolare: dai Fillmore East e West, anche se è difficile dire quali parti del disco dall'una e quali dall'altra. La prima sorpresa vera e propria arriva però da una scelta strategica: la decisione di dedicare tutto il primo lato a una sola canzone: "Who Do You Love?" di Bo Diddley. Trattasi della famosa "Who Do You Love Suite", di ben venticinque minuti e rotti. L'apertura è affidata quindi alla versione blues-rock caracollante del medesimo brano per poi proseguire con la prima variazione sul tema, "When You Love", in realtà caratterizzata dal lungo assolo di Duncan: e quando qui si parla di "assolo", sarebbe giusto dimenticare una volta per tutte i Van Halen o addirittura gli Allan Holdsworth di turno, quelli non erano certamente tempi e luoghi - la California nei Sixties - perché una sola nota andasse sprecata, tutto era al servizio dell'espressione o del viaggio in tal caso. Con "Where You Love" siamo infatti al primo vero capolavoro: un'improvvisazione per chitarre striscianti, in pratica la fase più introspettiva del trip, seppure magicamente accompagnata dall'interazione magnetica col pubblico. Difficile da definire: arte contemporanea? La realizzazione dell'happening definitivo? Lo si può immaginare il pubblico lì, a incitare la band e trasmetterle il pathos necessario alla risalita (naturalmente non c'era bisogno di parlare, tutto avveniva a un livello extralinguistico). E infatti "How You Love" non è nient'altro che un'esplosione estatica, stavolta segnata da John Cipollina. Con "Which Do You Love" e il basso di David Freiberg torna un po' di calma seguita dal reprise del motivo portante, "Who Do You Love, Pt. 2", questa volta però suonata con maggiore "consapevolezza". Ma i Quicksilver Messenger Service hanno deciso di attingere da Bo Diddley ancora una volta, e quindi la seconda parte comincia con una versione stonata di "Mona", delle chitarre acide che più di così c'è solo "Dark Star". Fa capolino "Maiden Of The Cancer Moon", un grande pezzo di rock psichedelico che però ha la "sfortuna" di fare da ponte a un altro capolavoro dell'acid-rock: "Calvary". Dove siamo finiti improvvisamente? In un western? Sì, ma in uno spaghetti western, e cioè con tanto di orchestra morriconiana (timpani, gong, campane, strani strumenti a percussione ecc.) ad accompagnare le evoluzioni di Duncan che poi finisce - raggiunto l'apice - in uno stato mentale al confine con la catalessi - apparentemente, in realtà ricco di motivi subliminali che hanno a che fare semmai con la fine di qualcosa. "Happy Trails", quindi, la sigla finale del programma televisivo di Ray Rogers (e dell'album), i cowboy sono finiti davanti al bancone di un saloon - e finalmente bevono spensierati - oppure sono di ritorno da un altro viaggio, a cavallo del clip-clop percussivo: un lieto fine, dunque, e se non proprio lieto almeno conscio della realtà rinnovata, lasciati alle spalle gli anni Sessanta si torna tutti a casa, il passaggio obbligato, finiti i voli pindarici l'era del folk reprise è alle porte. (Fonte: Ondarock)


    Happy Trails

    Pubblicazione - marzo 1969
    Durata - 48 min : 41 s
    Tracce - 10
    Genere - Rock psichedelico
    Acid rock
    Etichetta - Capitol Records


    Tracce

    Tra parentesi gli autori

    Lato A

    Who Do You Love? - part 1 - 3:32 (Ellas McDaniel)
    When Do You Love - 5:15 (Gary Duncan)
    Where Do You Love - 6:07 (John Cipollina, Duncan, Greg Elmore, David Freiberg)
    How Do You Love – 2:45 (Cipollina)
    Which Do You Love - 1:49 (Freiberg)
    Who Do You Love - part 2 - 5:51 (McDaniel)

    Lato B

    Mona - 7:01 (McDaniel)
    Maiden of the Cancer Moon – 2:54 (Duncan)
    Calvary - 13:31 (Duncan)
    Happy Trails - 1:29 (Dale Evans)


    Formazione

    John Cipollina - chitarra
    Gary Duncan - chitarra, voce
    David Freiberg - basso, chitarra, voce
    Greg Elmore - batteria, percussioni
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    LEWIS HAMILTON
    LA FERRARI É PIÚ VICINA DI QUANTO DICA


    La rossa, che ha usato più gettoni di tutti per lo sviluppo della power unit, 23 dei 32 disponibili, impensierisce Lewis


    Si prospetta un Mondiale 2016 di F.1 più serrato del solito per la lotta fra la Mercedes campione in carica e la Ferrari: ne è sicurissimo il detentore del titolo, il campione britannico Lewis Hamilton, che lo ha ribadito alla vigilia del GP di Australia, prima gara della stagione: "Penso che la Ferrari ci sorprenderà sin da questo fine settimana - ha detto Lewis -, sono molto più vicini di quanto dicano: si stanno approcciando con un basso profilo, ma puntano molto in alto". Lewis Hamilton, insomma, non si fida e, nonostante gli osservatori vedano la sua Mercedes davanti, non dimentica che la Ferrari ha ottenuto i tempi migliori nei test. Il nuovo format della pole position, inoltre, rappresenta un'incognita per tutti e la prima griglia di partenza, domenica, potrebbe riservare diverse sorprese. La rossa, intanto, è la scuderia che ha utilizzato, finora, più gettoni di sviluppo sulla sua power unit. Il dato emerge dalla comunicazione della Fia, che lo ha ufficializzato dopo le verifiche tecniche del Gran Premio d'Australia. Ogni motorista ha 32 gettoni per sviluppare le power unit e i tecnici del Cavallino ne hanno già sfruttati 23: gliene restano quindi 9 da gestire per il resto della stagione. In casa Mercedes ne hanno utilizzati 19, uno in più della Honda, mentre la Renault è stata molto prudente, usandone solo 7. Ecco lo schema al via del Gran Premio di Melbourne 2016: Ferrari 23 token usati (9 rimanenti); Mercedes 19 (13 rimanenti); Honda 18 (14 rimanenti) e Renault 7 (25 rimanenti).


    VETTEL: NON SIAMO I FAVORITI MA LA MIA MARGHERITA E' VELOCE

    "Noi ci siamo, la domanda è vedere se siamo in tempo". È un Sebastian Vettel che crede nella Ferrari quello che a Melbourne ha parlato nella prima conferenza stampa ufficiale della stagione. Il quattro volte iridato sa che per il Cavallino è arrivato il momento di raccogliere i frutti dei grandi investimenti fatti. Il presidente Sergio Marchionne lo ha detto chiaramente, bisogna vincere già da Melbourne. E dunque, eccoci al via della stagione in Australia: Sebastian, la Ferrari ce la farà? "Il grande passo avanti c’è stato – ha risposto il tedesco – ovviamente saranno le prime gare a dire realmente dove siamo. L’obiettivo è far girare le cose a nostro favore e non è una sorpresa affermare che la Mercedes resta la favorita. Ma quest’anno vogliamo diventare noi i favoriti". La SF16-H è stata chiamata dal quattro volte iridato "Margherita", e la cosa è stata oggetto di una gag con Daniel Ricciardo, seduto al fianco del campione tedesco. Quando è stato fatto notare a Seb che quel nome è associabile a una pizza, lui ha immediatamente replicato: "Non è per quello, è soltanto un nome come un altro". Ma allora perché proprio quel nome? E Daniel Ricciardo si è inserito: "Per la pizza!". "Nooo – ha detto Vettel un po’ imbarazzato – è il nome di un drink! No scherzo, per varie ragioni, il nome ci piaceva, ogni anno diamo il nome alla macchina, l’anno scorso Eva, quest’anno Margherita". Poi, alle televisioni, Seb ha precisato ulteriormente: "Margherita è stata la prima Regina d’Italia, chissà che anche questa macchina non raggiunga un’incoronazione…". Vettel ha comunque rassicurato i tifosi del Cavallino che attendono impazienti i primi riscontri del cronometro: "Ci siamo impegnati molto duramente – ha detto – il miglioramento è stato grande. Credo che abbiamo fatto un grande lavoro. Ci consentirà di essere veloci da subito e di fare miglioramenti tutta la stagione, presto scopriremo dove potremo arrivare". Anche il finlandese Kimi Raikkonen è apparso in grandissima forma e si aspetta ottime cose dalla nuova Ferrari: "Cercheremo di vincere il Mondiale – ha detto l’ultimo iridato col Cavallino nel 2007 – io e Sebastian lavoriamo in team per raggiungere il risultato. Il piano è fare del nostro meglio e se la vettura funzionerà, e tutti noi faremo il nostro, ecco che tutto diventerà più facile. Dove siamo rispetto alla Mercedes? Non lo so, è sempre la stessa domanda. Vediamo la pista e giudichiamo. Magari qui il meteo giocherà un ruolo importante".
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    FORMULA UNO
    GRAN PREMIO DI MELBOURNE 2016


    IL CIRCUITO

    La pista, che è ricavata collegando le strade perimetrali del lago dell'omonimo parco normalmente adibite alla circolazione ordinaria, inizia la sua attività sin negli anni cinquanta, salvo poi non venire più utilizzato per quasi 40 anni per via delle proteste degli ambientalisti. Quando si decise che nel 1996 il Gran Premio d'Australia sarebbe stato ospitato a Melbourne, venne costruito un nuovo rettilineo di partenza con annessi nuovi box ed alcune curve vennero modificate per rallentare le percorrenze, pur mantenendo la pista delle medie sul giro molto elevate per un circuito cittadino. Il tracciato è lungo circa 5,3 km. Il tipo di pista, con molte curve e pochi rettilinei lunghi, rende necessario un alto carico aerodinamico, che causa soprattutto un notevole consumo negli pneumatici. Alla fine del rettilineo principale, si raggiungono quasi i 315 km/h prima di ridurre drasticamente la velocità per prendere la Jones, curva sulla destra che si fa in terza a 180 km/h, si procede in quarta verso la Brabham e da qui verso la curva 3 (il punto in cui Martin Brundle uscì rovinosamente di pista nel 1996, per fortuna senza conseguenze fisiche). La curva 3 è la prima di una sequenza di tre curve chiuse che devono essere affrontate con attenzione: per entrare nella terza si deve per forza uscire bene dalle prime due. L'ultima curva di questo trittico, la Whiteford, ha causato problemi a vari piloti. Prima di arrivare alla curva 6 si passa in sesta e dopo aver girato a destra, si decelera fino in terza, intorno a 120 km/h. Bisogna passare dalla quarta alla sesta per prendere la Lauda, una lunga curva a forma d'arco sulla destra, fino ad arrivare alla Clark. La Clark è una curva chiusa sulla destra da affrontare in seconda a 100 km/h, che conduce alla lunga curva sulla sinistra vicino al lago. Poi c'è la Waite, una curva sulla destra che deve essere fatta in quinta ai 200 chilometri all'ora. Si passa poi in sesta verso la Ascari, virando prima sulla destra nella Hill, dove si raggiungono i 270 km/h. La Ascari è una curva sulla destra, fatta in terza, che conduce alla Stewart, un'altra curva sulla destra che a sua volta porta alla Prost (percorsa in seconda). Ad essa segue la curva 16, una piega a destra da fare in terza a 150 km/h che riporta le vetture sul rettilineo principale.



    Stato - Australia Australia
    Località - Melbourne
    Inaugurazione - 1996
    Lunghezza - 5 303 m
    Curve - 16
  14. .


    NO GURU, NO METHOD, NO TEACHER
    Van Morrison


    1986 - Mercury Records


    L'ultimo vero capolavoro di Van Morrison

    L'estate del 1986, vede la luce il ventunesimo album solista di Van Morrison, The Man. Il titolo è un vero e proprio "manifesto filosofico": No guru, no method, no teacher, estratto dalle liriche della canzone “In the Garden”. The Man ha 41anni, quando incide questo album dalla pregevole copertina. La vocalità del vecchio leone è, come sempre, a grandi livelli: voce forte, calda, suggestionante, carica di purezza e di profondità. Le canzoni sono superbe, sgorgano naturalmente dagli strumenti e dalle corde vocali, una corrente emotiva che sa fondere in un insieme unico: la melodia, la poesia, il soul, il rock, la musica antichissima della tradizione celtica ed il jazz. L’originalità di Morrison è nel suo liberissimo modo di affrontar la musica, nel suo muoversi al di fuori di schemi prefissati e seguire soltanto le correnti del cuore, le emozioni di una poesia che riesce a farsi musica nella maniera più completa ed affascinante. Nonostante la tripla negazione del titolo, l’album è ancora rivolto a una entità suprema non riconoscibile o riconosciuta; Morrison compone alzando la testa verso il cielo, e molti non condivideranno, ma lui vanta ormai una lunga militanza nel “music-business”, e non ha mai creduto ai messaggi politici lanciati dai solchi di un disco. Alla domanda sul significato nascosto del titolo Morrison risponde: "Beh, in una delle canzoni è citata questa frase dove io cerco di farti osservare un programma di meditazione trascendentale ...Se tu ascolti la canzone attentamente fino al termine, raggiungerai una tranquillità cerebrale ...Vorrei qui affermare per l'ennesima volta che io non faccio parte di nessuna organizzazione, che non ho nessun guru al mio servizio, ne insegnanti, ne metodi a cui sottostare, e tutto quello che affermo nel brano risponde a verità." L'album ebbe un notevole successo di critica grazie soprattutto all'omogeneità delle composizioni, dove ritroviamo i temi più cari e sentiti dell'irlandese; la nostalgia della sua terra e dell'infanzia, e la continua ricerca religiosa, con meno dogmi e aperta a nuove concezioni di fede, sempre basate sul naturalismo vitale, unica forza positiva e vera Musa dell'artista. Nel disco regna un ottimismo inusuale, una rilassata gioia di vivere e una passionalità mai riscontrata prima. Come tutti gli album di Morrison, quest'opera è assimilabile appieno solo dopo ripetuti ascolti. La grandezza di quest’album è nella capacità di trasmettere la “sua” interiorità all’esterno e quindi di poterne godere della sua straordinaria bellezza. Infatti, la sua universalità e quella di unire corpo e mente, uomo e natura. La sua completezza giova a chi l’ascolta. Ascoltatelo in inverno o in estate, con il sole o con la pioggia, che siate tristi o allegri, per svegliarvi o per dormire, in qualsiasi caso e/o per qualsiasi uso ne farete, sarà sempre un ascolto utile. Come l'acqua quando si ha sete, come la luce quando è buio. Questa è la sua unicità. Van Morrison, molto lontano dalle mode, profondamente immerso in un mondo di poesia e di emozione, è senza dubbio uno degli artisti più completi ed affascinanti della musica di questi ultimi trent'anni, dotato di una vocalità inimitabile e di una passione, di un'energia, di una forza, che raramente ci capita di sentire. La sua arte, la sua musica, sono certamente destinate a non venir cancellate nel tempo, a non dover subire le ingiurie del tempo. Capolavoro assoluto della saga Morrisoniana.


    No Guru, No Method, No Teacher

    Pubblicazione - luglio 1986
    Durata - 50:50
    Tracce - 10
    Genere - Musica celtica
    Folk rock
    Jazz
    Etichetta - Mercury Records
    Produttore - Van Morrison


    Tracce

    Tutte le tracce sono di Van Morrison.

    Side 1

    Got to Go Back – 5:00
    Oh the Warm Feeling – 3:16
    Foreign Window – 5:20
    A Town Called Paradise – 6:13
    In the Garden – 5:46

    Side 2

    Tir Na Nog – 7:14
    Here Comes the Knight – 3:41
    Thanks for the Information – 7:16
    One Irish Rover – 3:30
    Ivory Tower – 3:34
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    INDYCAR 2016 - ST PETERBURG
    MONTOYA VINCE ANCHE SENZA STERZO!








    JUAN PABLO MONTOYA
    TEAM PENSKE




    SIMON PAGENAUD
    TEAM PENSKE




    RYAN HUNTER REAY
    ANDRETTI AUTOSPORT




    Juan Pablo Montoya si aggiudica il GP of St.Petersburg, atto iniziale dell’IndyCar Series 2016.


    La variabile in più dell’edizione 2016 si chiama Conor Daly. Il rookie del Dale Coyne Racing si è trovato al comando grazie a metà gara ad una ancora ottima strategia da parte del team dell’Illinois nella prima delle due lunghe caution che hanno caratterizzato la corsa. Al primo restart, poi abortito, Daly ha resistito ad un altro coriaceo sudamericano, Tony Kanaan, quest’oggi in difficoltà come tutte le altre vetture del Team Ganassi; poi, al secondo tentativo, Montoya ha avuto facilmente la meglio. La bella favola del giovanissimo figlio d’arte, che poteva benissimo concretizzarsi in un podio, ha subito un brusco arresto per un pit-stop imprevisto per sostituire l’ala danneggiata in un contatto. Alla fine solo P13 per Daly, ma ci sarà la possibilità di rifarsi. La strategia di Dale Coyne aveva portato nell’olimpo anche Luca Filippi, che ha praticamente “coperto” la fuga del teammate, ricoprendo anche P4 intorno alla metà gara. Dopo aver resistito alla grande alla carica del team Andretti – rimediando prima un’ala anteriore rovinata con Ryan Hunter-Reay, resistendo poi, durante il sorpasso di quest’ultimo, ad un’azione kamikaze di Marco Andretti, che non ha festeggiato al meglio il proprio 29mo compleanno – il driver di Savigliano si è trovato imbottigliato nella carambola innescata da un’altra vettura del team di Nazareth, quella di Carlos Munoz, che al giro 57 tamponava la vettura di Graham Rahal, facendola girare e bloccando tutti all’altezza della famigerata curva 4. Da li in poi una serie di soste ai box e solamente il 20mo posto finale, ultimo dei piloti non ritirati, a 2 giri. Usciti con le ossa rotte dal confronto con i compagni di squadra Simon Pagenaud ma soprattutto Helio Castroneves. Il francese, partito dalla pole per il forfait di Will Power, semplicemente non è riuscito a tenere il ritmo del vincitore dell’ultima Indy 500, che alla fine si apprenderà aveva anche grossi problemi allo sterzo. Castroneves invece, partitogli a fianco in prima fila, cedeva immediatamente posizioni nei primi giri e, dopo una buona gara nelle fasi centrali della corsa, perdeva il podio a 2 giri dall’arrivo su Ryan Hunter-Reay, primo delle vetture Honda, che ne piazzano nei primi 10. Rimanendo sul Team Penske, solo 18mo posto per Oriol Servia, reclutato all’ultimo momento per sostituire un Will Power dominatore delle qualifiche ma dichiarato inabile alla guida per i postumi dell’incidente delle prime libere, coinvolto anch’egli nella carambola causata da Munoz. Gloriosa P5 invece per Mikhail Aleshin, che salva l’onore del team di Sam Schmidt, con James Hinchcliffe vittima di un contatto al via che è costato subito un giro di ritardo dai battistrada. Problemi al via anche per Takuma Sato, che però ha portato a casa un sesto posto frutto di una gara per una volta almeno giudiziosa. Completano la top ten ben tre vetture del Team Ganassi, con Scott Dixon settimo, Tony Kanaan nono e Charlie Kimball decimo dopo aver perso la P7 proprio dal campione in carica al penultimo giro. Problemi di surriscaldamento un po’ per tutti nel finale hanno comportato lunghe soste per pulire le pance. Nel mezzo, la P8 di Carlos Munoz. Menzione infine per la buona gara d’esordio dei tanti rookie, Alexander Rossi, 12mo, Spencer Pigot, alla prima delle tre sole gare concesse dalla scolarship Mazda, 13mo, e Max Chilton 17mo, anch’egli penalizzato dalle temperature del motore Chevy gestito da Ganassi. Il secondo appuntamento con l’IndyCar Series fra tre settimane, con il ritorno del Phoenix International Raceway...

    L'ORDINE D'ARRIVO



    Edited by Lottovolante - 3/4/2016, 12:48
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