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    SCOZIA
    SCOPERTO IL SITO "GEMELLO" DI STONEHENGE


    Gli antichi cerchi di pietra allineati con il Sole e la Luna


    Prima ancora di Stonehenge, c'erano loro: i grandi cerchi di pietre costruiti migliaia di anni fa in base a valutazioni di carattere astronomico. La conferma, statisticamente significativa, è nei risultati di una ricerca condotta da studiosi dell'università di Adelaide e pubblicata sul Journal of Archaeological Science, che fa risalire al 3.000 a.C. la posa dei primi monoliti in Gran Bretagna. I test effettuati in due e tre dimensioni hanno permesso di ricostruire i modelli di allineamento delle pietre, che secondo i ricercatori rispondevano alla posizione di Sole e Luna. "Nessuno fino a ora aveva mai determinato con studi statistici che un singolo cerchio di pietre fosse stato costruito a scopi astronomici, erano tutte supposizioni", spiega Gail Higginbottom, alla guida del team di ricercatori e prima autrice dell'articolo. Grazie allo studio, ora sappiamo che circa 5.000 anni fa, in Scozia, c'è stato un cambiamento significativo nel modo in cui le persone celebravano le loro conoscenze cosmologiche: è allora che sono iniziate ad apparire strutture circolari formate da enormi pietre monolitiche, che hanno continuato a essere erette per circa duemila anni, fino alla fine dell'età del bronzo. Nel corso degli ultimi decenni, sono stati identificati in modo empirico una serie di schemi riconducibili a obiettivi astronomici, inoltre sono state identificate due differenti tipologie di orientamento rispetto al paesaggio circostante. Tuttavia, quando e dove queste costruzioni fossero state associate per la prima volta a strutture di pietre erette, però non era affatto chiaro.''


    I ricercatori hanno sfruttato metodologie statistiche e software innovativi con i quali hanno studiato le condizioni di osservabilità del Sole e della Luna nei siti più antichi e monumentali della Scozia occidentale. In particolare, hanno introdotto un nuovo test statistico che consente di determinare in maniera quantitativa le connessioni astronomiche con i cerchi di pietre. Esaminando alcuni tra i più antichi cerchi di pietre quello di Callanish sull'isola di Lewis e quello di Stenness sull'isola di Orkney (entrambi più vecchi di Stonehenge di circa 500 anni), gli studiosi hanno riscontrato una grande concentrazione di allineamenti in direzione del Sole e della Luna, in diversi momenti dei loro cicli. A distanza di duemila anni, in scozia, venivano costruiti monumenti molto più semplici che presentavano almeno uno degli allineamenti trovati nei grandi cerchi. Ma non erano solo il Sole e la Luna a ''guidare'' i costruttori, che evidentemente erano degli esperti astronomi. Gli autori dello studio hanno infatti individuato anche una complessa relazione tra l'allineamento delle pietre e il movimento degli astri lungo il paesaggio circostante e l'orizzonte. "Questa ricerca è la prima prova concreta a favore del fatto che le popolazioni antiche che abitavano le isole della Gran Bretagna fossero in grado di collegare la terra al cielo con le loro pietre erette, e che questa pratica abbia continuato a esistere per duemila anni", chiarisce Higginbottom. "Gli antichi hanno scelto di erigere queste pietre in modo preciso, in relazione al paesaggio e alle conoscenze di astronomia che avevano, hanno investito un'enorme quantità di energie e di studi per farlo, e questo ci racconta il forte legame che avevano con l'ambiente che li circondava, e quanto dovesse essere importante per loro, per la loro cultura e per il tramandarsi nel tempo le loro conoscenze".





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    TANIA CAGNOTTO
    BRONZO NEL TRAMPOLINO DA 3 METRI


    "Ho saltato con il cuore"


    Nei tuffi ci sono le medaglie marziane, anzi cinesi, e ci sono le medaglie umane: Tania Cagnotto se n'è presa una enorme nell'ultima gara della sua vita, alle spalle appunto di due cinesi sublimi (Shi Tingmao, oro ed He Zi, argento: per lei anche la proposta di matrimonio del fidanzato, dopo la gara) e davanti alla canadese Jennifer Abel che la sopravanzava prima di quell'ultimo tuffo. Ma Tania ha creato il capolavoro nel "doppio e mezzo rovesciato in posizione carpiata", premiato con 81 punti dalla giuria mentre la canadese non è andata oltre un 69. "Non ho mai pensato alla medaglia e me la sono goduta. Ho saltato con il cuore: per me. Volevo solo il record e l'ho ottenuto". Il punteggio finale di 372.80 è il più alto della carriera, ed è indimenticabile esserci riuscita nell'ultimo istante a disposizione. "Mai avrei pensato di tornare a casa con due medaglie! Ora posso pensare al matrimonio e a una vita senza più stress. Dedico questo bronzo a mamma e papà, ma soprattutto a papà che ci teneva tanto". Cioè al grande Giorgio Cagnotto, protagonista con Klaus Dibiasi dell'epopea omerica dei tuffi azzurri; l'altro, un semidio tutto d'oro, lui, Cagnotto un magnifico umano come la figlia, capace comunque di prendersi nella vita due argenti olimpici. Oggi (anzi ieri) Giorgio è (anzi era) l'allenatore di Tania. Una storia che si chiude come meglio non si poteva dopo cinque Olimpiadi della figlia, tutte in progressione: diciottesima dal trampolino a Sydney, quando a 15 anni era stata l'azzurra più giovane della nostra spedizione, e poi ottava ad Atene, quinta a Pechino e quarta a Londra, dove Tania Cagnotto perse il bronzo per un niente, appena 10 centesimi. "Ho sofferto, ma senza quella delusione forse non sarei mai arrivata fin qui", dice Tania dopo avere conquistato l'argento del trampolino sincronizzato con Francesca Dallapè (dietro alle cinesi) e con il bellissimo bronzo al collo. Dove, da ora in poi, potrà mettere solo le collane che le donerà il suo sposo...



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    ADDIO MARIANNE
    MUSA DI LEONARD COHEN


    Addio amore infinito


    La Ihlen, la donna che il cantautore incontrò negli anni Sessanta nell'isola greca di Hydra, aveva ispirato canzoni come 'So long, Marianne' e 'Bird on wire'


    "Ti ho sempre amata per la tua bellezza e la tua saggezza, ma non serve che io ti dica di più poichè lo sai già. Adesso, voglio solo augurarti buon viaggio. Addio vecchia amica. Amore infinito. Ci vediamo lungo la strada". E' il messaggio di saluto che Leonard Cohen ha scritto a Marianne Ihlen, la donna che incontrò negli anni Sessanta nell'isola greca di Hydra, di cui divenne amante e che ispirò al cantautore canadese So long, Marianne e Bird on wire, due grandi successi. A mettere in contatto i due è stato Jan Christian Mollestad, un amico di entrambi, che riferì a Leonard Cohen delle condizioni di salute gravi di Marianne. "Si prese due ore di tempo e scrisse questa bellissima lettera. La portai a lei, pienamente cosciente, e ne fu felice", ha raccontato Mollestad al Guardian. "Marianne - continua Cohen nella lettera con con toni che sembrano quelli delle sue canzoni - è venuto il tempo in cui si è vecchi e i nostri corpi cadono a pezzi: credo che ti seguirò presto. So di esserti così vicino che se tu allungassi la mano, potresti raggiungere la mia". Quando Marianne Ihlen ha udito questo ultimo passaggio della lettera del suo vecchio amante, ha allungato la mano. "Solo due giorni dopo - ha continuato Mollestad - ha perso conoscenza ed è scivolata verso la morte. Ho scritto a Leonard di averle canticchiato Bird on Wire negli ultimi istanti della sua vita, era la canzone che lei sentiva più vicina. Poi l'ho baciata sulla testa e ho lasciato la stanza, dicendo 'So long, Marianne'".

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    TRAVELERS CHAMPIONSHIP 2016
    Francesco Molinari in campo, difende il titolo Bubba Watson


    Bubba Watson, in attesa di partire per Rio de Janeiro, difende il titolo nel Travelers Championship (4-7 agosto), torneo del PGA Tour in programma al TPC River Highlands di Cromwell nel Connecticut. Al via Francesco Molinari, reduce dal 22° posto nel PGA Championship. Anche altri giocatori hanno scelto tenersi “caldi” a una settimana dall’impegno olimpico: Patrick Reed, Matt Kuchar, il danese Soren Kjeldsen e l’irlandese Padraig Harrington e sarà in ogni caso un test importante nel contesto di un field di buona caratura. Ne fanno parte, tra gli altri, Keegan Bradley, Jim Furyk, Zach Johnson, Brooks Koepka, Bryson DeChambeau, i sudafricani Branden Grace, Louis Oosthuizen, Ernie Els e Retief Goosen, gli inglesi Paul Casey e Luke Donald, l’argentino Angel Cabrera e il fijiano Vijay Singh. Il montepremi è di 6.600.000 dollari con prima moneta di 1.188.000 dollari. Al vincitore andranno anche cinquecento punti per la classifica della FedEx Cup, che a questo punto, in vista della fase finale diventano molto preziosi.


    Il torneo su Sky

    Il Travelers Championship in diretta, in esclusiva e in alta definizione da Sky con collegamenti ai seguenti orari: giovedì 4 agosto, dalle ore 21 alle ore 24 (Sky Sport 2 HD); venerdì 5, dalle ore 21 alle ore 24 (Sky Sport 3 HD); sabato 6 e domenica 7, dalle ore 19 alle ore 24 (Sky Sport 2 HD).

    Commento di Silvio Grappasonni e di Nicola Pomponi.
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    REVOLVER COMPIE MEZZO SECOLO
    QUANDO I BEATLES REINVENTARONO IL ROCK



    5 agosto 1966

    Storia del capolavoro che cambiò la musica popolare. Dalle incredibili invenzioni tecnologiche che rivoluzionarono il lavoro in studio, con Martin ad Abbey Road, alla nuova complessità dei brani. Un disco che fuse grande artigianato, febbre di ricerca e il potere dell'immaginazione


    Di certo il mezzo secolo di Eleanor Rigby, dunque del formidabile album Revolver che la conteneva (ma uscì anche come 45 giri), c’entra qualcosa. Era il 5 agosto 1966. Difficile che l’Orchestra della Toscana, fra le migliori da camera in Europa, nel mettere da marzo quella straziante, sobria, incalzante elegia per le persone sole di tutta la terra fra i bis del proprio Ottetto d’archi, non abbia pensato alla ricorrenza. È anche vero però, che l’Ort vanta una assidua frequentazione di musiche altre, jazz, improvvisazione e canzone, illustrata dai progetti con Richard Galliano, Butch Morris, Bollani, Rava, Sakamoto, Battiato e Heiner Goebbels. La rilettura dell’arrangiamento sublime di George Martin - in stile Bernard Herrmann - per il solo classico in cui nessuno dei Beatles suona, è del primo violino Andrea Tacchi. Che senza voci a disposizione, ha sapientemente distribuito l’immortale melodia fra sette degli otto archi del doppio quartetto, identica formazione dei Fab, con la viola in bella evidenza. Largo fin qui il consenso del pubblico. Più d’uno fra quegli habitué della classica ha però commentato: “Bella, ma che cosa è?”. E pensare che Leonard Bernstein salutò subito i Beatles, e li illustrò (con Bob Dylan, i Rolling Stones e molti altri grandissimi artisti) al mondo via tv con le sue leggendarie trasmissioni, come i geni che erano. E che Luciano Berio mise mano alle loro composizioni per donarle alla voce suprema di Cathy Berberian, sua musa e compagna. Anzi, l’occasione vien buona per rammentare un piccolo ma assai significativo episodio, che di Berio e Fab Four rende per intero apertura mentale, febbre di ricerca e amore per la musica senza gerarchie né generi. Londra, 24 febbraio 1966. I Beatles sono già i Beatles da un bel po’ e stanno per ribadirlo con Revolver. Luciano Berio è già molto affermato, anche come indagatore di nuovi orizzonti elettronici, ma ancora non è il Maestro eseguito come una star, accadrà di lì a poco, in ogni sala da concerto di tutto il mondo.


    Da docente alla prestigiosa Juilliard School of Music di New York, il compositore è a Londra per una lezione. All’epoca i Beatles, come racconta Rubber Soul, 1965, già smanettano senza tregua con nastri magnetici, loop, velocità di registrazione e ogni altro mezzo che gli paresse interessante, inventandoli quando non c’erano. I suoni esistenti non gli bastavano più. Come a Berio. Nella cui platea, guarda caso, c’è anche Paul McCartney, peraltro già folgorato da Stockhausen, che trasecola d’ammirazione all’ascolto Laborintus II, opera dell’anno prima musicata dal compositore ligure, “per voci, strumenti e nastro magnetico”, su testi estrapolati e montati dall’amico di una vita Edoardo Sanguineti fra versi di Dante, Pound, Eliot, dalla Bibbia e suoi. A fine conferenza, un Paul entusiasta perfora la sicurezza chissà perché voluta dall’ambasciata italiana, strappando al maestro un breve contatto. Che malgrado i racconti verbali di Berio resta ignoto nei contenuti, ma pare suggellare le futuribili suggestioni di Paul McCartney e soci. Mentre, e forse neanche questo è fortuito, nel ’67 Luciano Berio, illuminato pioniere nella rilettura dei repertori popolari, arrangia, “per voci e strumenti”, Ticket To Ride, Michelle e Yesterday. Alla ricerca di suoni inauditi. Mezzo secolo dalla nascita, il senso di svolta, le epocali novità estetico-tecnologiche e la recente ripresa di Eleanor Rigby da parte dell’Ort: sono parecchi, ma certo non tutti qui, i molti buoni motivi per riparlare oggi di Revolver, 1966. E farlo significa per forza tirare in ballo anche Rubber Soul, 1965. Tesi d’altro canto esposta a suo tempo da George Harrison, che definiva i due ellepì, “un volume 1 e un volume 2”. Mezzo secolo fa in questi mesi i quattro già baronetti, salutata senza rimpianti la naïveté skiffle e doo woop del Mersey Beat (il Mersey è il fiume di Liverpool, il termine indicava la locale scuola beat), avevano già sguainato in Rubber Soul la propria insaziabile curiosità. Avventurandosi fra cultura e note d’Oriente (col sitar, pare nelle mani di George, che debutta in Norvegian Wood e che su Revolver tornerà, insieme alle tabla di Anil Bhagwat, in Love You To, così come in Sgt. Pepper’s), marijuana e LSD (ma il secondo senza Paul McCartney, che non ne vorrà mai sapere), il Timothy Leary pensiero che aprì cuori e menti ai vagiti psichedelici della nascente West Coast. E che, nella versione beatlesiana, brillano ammiccanti, sfarzosi e profetici in Tomorrow Never Knows che chiude Revolver. Senza scordare la “breaking news” del folk rock stile Byrds, venerati dai Fab Four tanto quanto Bob Dylan - John e George lo difenderanno con vigore dalla rabbia dei fan delusi per la svolta elettrica - né l’amor fou per il soul rampante di Otis Redding e James Brown. Lo testimonia ampiamente il Motown Sound dai robusti ottoni che Revolver porterà in dono nel soul travolgente di Got to Get You Into My Life, futuro Grammy nella versione Earth, Wind & Fire. Mentre a Revolver, solo nominato come miglior disco, toccò invece quello per la copertina, straordinario e adeguatamente innovativo artwork mixed media di Klaus Voorman, vecchio amico dei Fab Four nei primi eroici tempi di Amburgo, buon artista e musico di lungo corso. Tutti elementi che coagulano nell’uso, allora una rivoluzione copernicana, dello studio avvistato in Rubber Soul e rilanciato da Revolver, che dà alla musica popolare moderna una sostanziale spinta sulla strada per il futuro. La sala non più come mero luogo tecnico per registrazione e missaggio, ma, grazie anche alla superba complicità del produttore George Martin, un ulteriore strumento da sfruttare. Un laboratorio da alimentare con idee e intuizioni per spingerlo oltre i propri limiti a colpi di invenzioni capaci di plasmare l’ignoto sonoro. A ciò, fra i primi, se non per primi, i quattro accostarono l’uso dei videoclip - oltre che dei “musicarelli” demenziali ante litteram firmati Richard Lester - prodotti in quantità a metà '60 da griffe come Mich Lindsay-Hogg.


    Due ellepì, una svolta. Rubber Soul e Revolver mostrano un’effervescente continuità e la matura intensità di un flusso di idee e coscienza ancor’oggi stupefacente. Che getta le fondamenta dell’infinitamente più celebre, celebrato e planetariamente mediatizzato, ma non superiore, Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band. Questo in sintesi estrema, il molto condivisibile parere dei più accreditati biografi, musicologi e giornalisti che ai Beatles si son dedicati in lungo e in largo per decenni. Resta d’altronde vero che, a differenza di Sgt. Pepper’s, pubblicato nel giugno ’67, nessuna speciale strategia fu pensati per la coppia d’assi in questione. Che contò solo sull’effetto Natale. La grande musica fece il resto, cioè quasi tutto: Revolver uscì in Gran Bretagna il 5 agosto 1966 e fu subito primo per 7 delle 34 settimane in cui in rimase in classifica; negli Usa apparve tre giorni dopo, di nuovo primo per 6 delle 77 settimane nelle chart, certificato disco di platino per cinque volte. Nonostante le iniziali, furibonde reazioni dell’America più bigotta che accusò di blasfemia la celeberrima coeva dichiarazione di John, secondo la quale i Beatles ormai “erano più popolari di Gesù”. E se nel 2010, l’Osservatore Romano ha definito Revolver il miglior disco pop d’ogni epoca, c’è davvero poco da aggiungere, se non i complimenti per l’acutezza della valutazione. Giugno 1965, passaggio in Italia. Un altro decisivo reagente della prodigiosa catena alchemica che, spingendoli via dai palchi e sempre più dentro lo studio, favorì la rivoluzione di Revolver, furono le tournée. O meglio il loro abbandono. Già da fine ’65, i quattro uscivano distrutti nel fisico e nei nervi dai massacranti, frequentissimi giri del mondo scopo concerti. Con annesso tutto il tristo circo di un’informazione che quasi mai aveva la minima idea di come trattare quella musica, rifugiandosi perciò in regolari, detestabili ovvietà di colore. A quei tempi, anche per le superstar d’Occidente, i tour volevan dire ad esempio due concerti al giorno, ancorché di mezzora circa. Come quelli del giugno ’65 a Milano, Genova e Roma. Fu un flop nello Stivale impreparato ad un evento che solo poche settimane dopo, 15 agosto, avrebbe fatto delirare New York, saturandone lo Shea Stadium con 55.600 fan fuori di sé per il primo megaconcerto della storia. A onor del vero e del Belpaese, va però aggiunto che, malgrado le nebbie padane di decine e decine di aspiranti Carneadi, a buon diritto tali rimasti, locali come il Piper, una certa quota di capaci discografici e arrangiatori, musici del valore di Tenco, Battisti-Mogol, Gaber e Jannacci, De André o Piero Ciampi, Endrigo e Dalla, Nino Ferrer, i Rokes, l’Equipe, i superlativi Ribelli, Guccini e i Nomadi, stavan facendo miracoli per estrarlo dal suo provincialismo bigio, ipocrita e sempliciotto. Anche al Budokan furono i primi. Nel resto del mondo invece, Giappone incluso, dove appena finito Revolver saranno i primi, 30 giugno 1966, a “profanare” il Budokan di Tokyo - futuro tempio del rock, ma fino al loro “scandaloso” live luogo sacro legato solo alla memoria delle vittime di guerra - le migliaia di fan eternamente strillanti, e le modeste tecnologie live, impedivano ai Fab Four anche solo di immaginare come stavano suonando. Lo scoprirono, rimanendoci malissimo per la modestia dell’esito, giusto in Italia, grazie all’esiguità delle audience. Fatto che si aggiunse al delirio massificato che si traduceva assai spesso, malgrado treni speciali, aereo privato e legioni di poliziotti, in pesanti disagi, pericoli e realistici timori anche per la propria incolumità. Traumi che puntualmente si ripetevano, con le folle che abbattevano indemoniate le barriere di sicurezza o bloccavano le fughe dei Fab prima, durante e dopo ogni concerto o altra apparizione pubblica. Ma succedeva anche nei più esclusivi contesti. Un paio di esempi. Pochi giorni dopo il Budokan, i ragazzi volano da Tokyo a Manila, dove atterrano il 3 luglio 1966, tappa finale del tour in Germania, Giappone e Filippine. Con più d’un patema nell’animo, visto che nei loro bagagli a mano gli acidi non scarseggiavano. Ma è solo il prologo. Nella capitale infatti li attende, a loro insaputa, la poco o punto negoziabile richiesta di incontrare i ragazzini Marcos, figli dell’infame dittatore filippino e della potentissima Imelda, quella della collezione di 2700 paia di scarpe. Gli Scarafaggi non ne vogliono neanche parlare. E il loro storico manager Brian Epstein li prende forse un po’ troppo alla lettera, facendo sapere alle autorità che nessuno era stato avvisato di quella richiesta e che, appunto, non se ne parla neppure. Risultato: a poche ore dal primo concerto, quello delle 16, la polizia di fatto sequestra gli spaventati Beatles per condurli all’incontro. Diverso ma eguale, l’assedio della villa affittata da Epstein in Benedict Canyon Drive, Beverly Hills, a fine agosto ’65, per i sei giorni off durante un tour Usa. Circondati dai fan, che noleggiarono addirittura un elicottero per spiarli, i Beatles si arresero. Stavolta allegramente: non potendo uscire, malgrado le ingenti forze di polizia a loro protezione, invitarono i loro amici ad un lungo LSD party. Fra gli altri i Byrds, Joan Baez e un giovane entusiasta, semisconosciuto Peter Fonda. La cui insistenza sul tema della morte, a partire da un episodio della sua infanzia, causò fortissimi attriti con gli altri in acido, finché Lennon gli ordinò di zittirsi e levarsi di torno. Da quel controverso episodio nacque She Said She Said, dopo nove ore di prove e registrazioni senza sosta il 21 giugno 1966. L’ultimo giorno di lavorazione di Revolver, che Paul lasciò senza suonare la sua parte di basso, per uno dei litigi che a breve avrebbero asfaltato la corsia di sorpasso verso la loro fine.


    Non sarebbero tornati mai più, neanche sotto tortura, come disse Lennon, a suonare in pubblico. Per Revolver, i ragazzi, belli cotti anche di soul, avevano perciò valutato, inviando Epstein negli Usa, la chance di realizzarlo nei templi della nuova black: la Stax di Memphis in primis, piani B la Motown a Detroit o l’Atlantic a New York. Non se ne fece di nulla e i Fab tornarono nella casetta EMI di Abbey Road. A otto mesi da Rubber Soul, considerando le pubblicazioni: 3 dicembre 1965 quest’ultimo, 5 agosto 1966 Revoler, sesto e settimo long playing degli “zazzeruti” come li chiamarono gli originalissimi quotidiani italiani. Non erano mai stati così a lungo senza far uscire un album. Per venire a capo dell’atto secondo - e definitivo - del loro salto nel futuro, ci metteranno, altro elemento rivelatore e senza precedenti, addirittura tre mesi, dal 6 aprile al 21 giugno, e trecento ore di lavoro. Tirando fuori, già che c’erano, anche un paio fra i 45 giri più clamorosi di sempre. Oltre che ulteriori banchi di prova delle assatanate ricerche sonore. Sul lato A del primo la perla nera Paperback Writer, mai uscita su Lp e ripubblicata solo in un paio di raccolte; sull’altra facciata Rain, più volte definita il “miglior lato B” dei Beatles, un danzante tempo lento con spezie d’Oriente, anch’esso comparso in seguito solo su antologie, che si vuole nato dalle piogge torrenziali che accolsero il gruppo a Melbourne. Mentre il secondo 45 aveva, di fatto, due lati A, e quali! L’eterna Eleanor Rigby e l’allegra marcetta-nonsense per bambini Yellow Submarine, regalata, come accadde più volte, da Paul (e anche da John) al timbro baritono compresso anziché no di Ringo. Inciso con “un piccolo aiuto degli amici” Brian Jones, Marianne Faithfull, Martin, Epstein e i fidi roadie Neill Aspinall e Mal Jones ai cori e ad ogni percussione possibile e impossibile. Per conferire al brano la sgangherata atmosfera nautica che suggerirà poi il surreale cartoon omonimo del ’68. Al pari degli ammirati rivali Beach Boys del capitale Pet Sounds, lo studio per i Beatles è ormai irrinunciabile valore aggiunto e luogo principe della creazione, rischi, gioie e dolori...


    Sir George, il genio del quinto Beatle. Loro scopritore, mentore, amico e miracoloso produttore-scienziato pazzo, nonché arrangiatore, direttore d'orchestra e pianista di bella formazione classica e sciamanico senso per la contemporaneità, Martin, come i suoi protetti, ma più tardi, fatto sir per meriti artistici, vien spesso definito il “quinto Beatles”. John invece, per via della sua naturale eleganza, aveva ribattezzato quell'uomo oltretutto squisito, equilibrato e bellissimo "il duca di Edimburgo". Niente di più vero, in entrambi i casi. Come e più di sempre per Revolver, e per i citati singoli del periodo, Martin, cui si devono anche preziosi scritti bealtesiani (l'insostituibile All You Need Is Ears, su tutti), asseconda da par suo la proverbiale fame dei ragazzi per i suoni mai sentiti. Un esempio per tutti. Per quella pietra miliare della psichedelia che è Tomorrow Never Knows - di nuovo figlia degli acidi e, in più, del "Libro Tibetano dei Morti", millenaria guida affinché i trapassati adempissero a tutte le formalità dovute per presentarsi correttamente alle divinità dell'oltretomba - Lennon, che l'ha composta, chiede agli ingegneri del suono che la sua voce suoni “come quella del Dalai Lama che canta dalla cima di una montagna”. Fu un'altra delle mille invezioni di quei giorni: i tecnici gliela filtrarono attraverso il Leslie, l'altoparlante a testa rotante fin lì in uso solo per l'organo Hammond, e John ebbe quel cercava. Che finì incastonato nello spectoriano caleidocopio di suoni creatogli intorno a furia di loop che i Beatles si facevano a casa, compressori, nastri in reverse, echi, overdub esponenziali, mellotron, filtri, droni (o bordoni: lunghi grappoli di note con microvariazioni armoniche) di sitar e tampura e moltissimo altro. Oltre al lavoro sublime con gli archi avviato con Revolver e culminato in Sgt. Pepper's, Martin scommette su un sound engineer appena ventenne, Geoff Emerick, chiamato al posto del veterano Norman Smith, coi Beatles da primo tecnico fino a Rubber Soul, che la EMI promosse produttore. E viene ripagato con gli interessi. Emerick e il collega residente di Abbey Road, Ken Townsend, tireranno fuori dal cilindro miracoloso di quel gruppo di lavoro un’interminabile serie di prodigiosi conigli, destinati a cambiare per sempre e per tutti il lavoro in studio della musica popolare moderna. Che quel mago di Ken Scott (poi col Bowie degli esordi, Van der Graaf, Elton John, Mahavishnu Orchestra, Supertramp, Devo, Lou Reed), già assistente sound engineer da For Sale a Help!, saltando a pro di Emerick Revolver e Sgt. Pepper's, svilupperà da titolare in Magical Mistery Tour e White Album. E il suono del rock non fu più lo stesso. La bellezza di Revolver non lascia trapelare nulla della complessità del lavoro che la produsse. Nell'antro di Abbey Road, invece, vengono al mondo mezzi a dir poco futuribili. A cominciare dal fondamentale ADT (Automatic Double Tracking, che grazie anche all’avvento dei quattro piste, poteva moltiplicare enormemente le sovraincisioni), per proseguire col backmasking, parti suonate per esser registrate all’indietro, poi sovraincise per venir ascoltate in avanti; il varispeeding, cioè i nastri suonati e mixati a velocità differenti e sfalsate; l’uso intensivo di loop e compressori. Ancora: la voce di John che dal Leslie, l’amplificatore a testa rotante in uso fin lì solo per l’organo Hammond, esce con un vibrato inimmaginabile; le registrazioni via amplificatori anziché via microfoni-mixer, con le quali il nuovo basso Rickenbaker, che Paul ha preferito al vecchio Hofner, acquista muscoli e presenza impensabili; i panni messi nella grancassa di Ringo per arrotondarne il suono, e i microfoni piazzati a pochi centimetri dalle pelli degli altri elementi della sua batteria, per darle una fin lì sconosciuta consistenza. È una vera cornucopia di idee che mettono grandissimo artigianato, competenze e fantasia al servizio di un’estetica visionaria, istintiva, di una creatività e senso del rischio in perenne ebollizione. Dando al suono di Revolver, e dei singoli del periodo, profondità di campo, timbri, dinamiche e fisicità inaudite. Gli strumenti sono ormai solo una base sulla quale innestare le espansioni di coscienza dei Beatles, che le alchimie dello studio sono finalmente in grado di assecondare simbioticamente (o quasi). “Senza idee la tecnologia non è nulla”. Martin, che iniziò quando si registrava sul rullo di cera e si montava col rasoio, ha ripetuto per tutta la vita che le tecnologie, di cui è stato per sessant’anni fine esploratore, se non sono al servizio delle idee non sono nulla. E anzi finiscono per “inibire creatività e pensiero”. Di questo programma senza tempo, Revolver è pietra d’angolo. Certo, i Beatles furono dei meravigliosi, intuitivi maestri che non smisero mai di studiare: melodisti superbi come Paul, radicali grintosi e immaginifici come John, delicati, geniali inventori come il timido George, umoristi irresistibili come Ringo, gaffeur verbale di caratura trapattoniana. Ma furono - tratti di cui si parla troppo poco - la loro incoercibile voglia di andar sempre oltre l’esistente, la determinazione nell’essere i migliori, a spingerli fino ai paradisiaci finis terrae cui condussero la musica popolare moderna. Nella quale, di rado il risultato è stato così tanto di più della somma delle parti. Nuove musiche, nuove storie. Cambiata per sempre la pelle di strumenti e suoni, Revolver mostra di loro la crescita vertiginosa e la definitiva svolta anche nelle composizioni e nei testi. E ridefinisce le percentuali di autorialità fra Lennon e McCartney a favore di quest’ultimo, mentre salgono le azioni di George che dai 2 brani di Rubber Soul passa ai 3 di Revolver. Anche se è impresa impossibile avere certezze sulle dinamiche di un fatto creativo talmente collettivo, complesso e prolifico. Nei 14 pezzi del disco si agitano strutture, temi e atmosfere tanto nuove quanto inevitabilmente legate alla svolta dello studio 3 di Abbey Road. Nella scrittura affiorano con insistenza le scale modali – quasi certamente introdotte dal coltissimo Martin – che George Russel, Miles, Gil Evans e John Coltrane avevano introdotto nel jazz più avanzato da metà Cinquanta. Spuntano qua e là, poco note ma consistenti passioni novecentiste: la musica concreta di Pousseur, i tempi barbari di Stravinski, citazioni da Sibelius, Stockhausen, Berio e l’elettronica. Allo stesso modo i cambi di ritmo, quasi un’eresia per il pop di allora, si impongono lungo lo stesso brano, e in buona parte di essi. Insieme ai suoni per dirlo, i Beatles cercano anche storie e parole da dire, sovente estratte dalle loro intense esperienze lisergiche. E inseguono la soglia suprema di tanta eterna poesia fra veglia e sogno, il diritto di appartarsi per andare lontano lontano, che si discioglie nella lennoniana proverbiale pigrizia di I’m Only Sleeping. Il desiderio di vivere un presente consapevole e profondo compare invece avvolto nella dolcissima melodia-armonia di Here, There and Everywhere. Con lo zampino di Martin, introducono il corno francese del futuro Berliner Philarmoniker Alan Civil, e confermano gli archi formidabili che il produttore aveva già collaudato in Yesterday - e che in altre mani si riveleranno invece tanto molesti per i destini pop. Fino alla sfida dei tabù allora inviolabili per le “canzonette”: morte, solitudine, disperazione. Perché è questo che fanno i testi di Eleanor Rigby, She Said She Said, nella quale appare inoltre una rivoluzionaria riflessione su paura e inadeguatezza, fino alla straziante, però distaccata - il racconto è in terza persona - cronaca della fine di un amore nella splendida For no One. Mentre l’insospettabile George se la prende senza mezzi termini col fisco e la politica inglesi, fatti a fette col rasoio di Taxman, si lancia nel sesso a go go di Love You To, e cerca il riscatto dalla sua difficoltà di dire le cose con le parole scrivendo I Want to Tell You. Qua e là qualche raggio di sole allenta la cupezza del disco: la solare Good Day Sunshine, colonna sonora per un cuore innamorato di fresco, la leggerezza di And Your Bird Can Sing, l’ironico, sferzante tempo veloce di Dr. Robert, riferita a un vero o presunto dottore newyorkese che curava i suoi ricchissimi pazienti-star a colpi di anfetamine “nascoste” nella vitamina B-12. Nulla è davvero più come prima. Fra guerre fredde e calde, lotte per diritti civili e contro il razzismo, la nascita della controcultura, l'attacco più o meno frontale al potere corrotto e violento, in quegli anni il mondo stava cambiando in fretta e in peggio. Musica, cinema, letteratura e arti visive avevano risposto prontamente: basta un’occhiata a qualsiasi cronologia sinottica dell’epoca per restare a bocca spalancata. I Beatles, ormai maturi, ci fecero alla svelta i conti. Anche se la politica non entrerà mai direttamente nei loro testi, sarà il loro privato, non sempre così gaio come vuole la vulgata, a dar vita ad un racconto del tutto nuovo. Nel quale la fragilità estrema dell'uomo contemporaneo basta e avanza per capire cosa stava succedendo. In contemporanea coi i favolosi Kinks di Ray Davies (i raga di See My Friends, luglio 1965) e seguiti di sei mesi circa dagli Stones ancora Brian Jones dipendenti (Paint it, black, maggio 1966), anche i Fab guardano a Oriente. E con Norvegian Wood i Fab ammettono a corte (Rubber Soul) il sitar, simbolo di una delle loro più intense, feconde e recenti passioni. L’India. Che li avrebbe a lungo accompagnati in un importante percorso anche umano. Ma che non nacque affatto nella universalmente comunicata spedizione collettiva del febbraio ’68, per un corso avanzato di meditazione trascendentale avanzato col guru Maharishi Mahesh Yogi nel nord del paese. Perché l’India i Beatles, tramite il tenero George, se l’erano vista servire a casa e almeno tre anni prima. In Fitzlayan Road, sobborgo di Finchley, a nord di Londra. Dove un intellettuale, giornalista e militante trotzkista arrivato da Bombay, Ayana Angadi e la moglie pittrice-scrittrice Patricia Fell-Clarke, vivono e fondano, nel 1946, un anno prima dell’indipendenza dall’impero britannico, l’Asian Music Circle. Con uno scopo: rinsaldare fra i molti indiani della capitale il legame con la propria cultura, favorirne, yoga incluso, la diffusione fra gli occidentali. Musica e danza la fanno da padrone, l’AMC fa debuttare in Europa i più rinomati virtuosi della classica indiana, che così a metà ’60 conosce a questa parte del pianeta un clamoroso boom: Wylaiat Khan, Ali Akbar Khan e Ravi Shankar, che nel giro di poco diverrà una star anche del miglior pop, collaborando pure con il signore del free jazz Ornette Coleman in Chappaqua Suite. Per una corda di quel sitar. Mentre Londra pare colpita da una autentica febbre per cultura, cibo, teatro, danze e abbigliamento del subcontinente, la ACM, che ne è in parte responsabile, raggiunge in fretta un tale prestigio da avere, 1953, per devoto presidente e alacre ambasciatore nel mondo Yehudi Menhuin, uno dei maggiori violinisti del ‘900, e Benjamin Britten, fra i più grandi compositori di ogni tempo, come vice. L’associazione diventa, grazie ai molti musicisti indiani che la frequentano, anche un punto di riferimento per imparare a suonare sitar, tabla, sarod, esraj, swarmandal o tampura. Il solito indispensabile George Martin conosceva l’AMC dai primi ’60, avendone impiegato alcuni suonatori per un disco di Peter Sellers, il magnifico attore e futuro Hercule Poirot, pubblicato dalla Parlophone, la cui proprietaria EMI avviò subito dopo una collaborazione con Angadi per le consulenze musicali. Quando, ottobre 1965, i Beatles stanno registrano Norwegian Wood George è alle primissime armi col sitar, del quale rompe una corda. Per avere il ricambio, Martin suggerisce di chiamare Angadi, che si presenta ad Abbey Road con la corda, moglie e figli. Che vengono ripagati potendo assistere alla storica incisione. Contatto stabilito: in breve George diventa un habitué di casa Angadi e della AMC, dove studia il sitar. E quando durante la lavorazione di Revolver scocca, 11-13 aprile 1966, l’ora di Love To You è in quell’eletta schiera che trova i suoni che sta cercando. Saranno in diversi dell’ACM a partecipare, fra loro Anil Bhagwat, che al brano presta le sue tabla e riceverà l’inusitato privilegio di esser accreditato sulla copertina. Cosa che, com’è noto, i Beatles non hanno quasi mai fatto con gli “stranieri”. Poco più d’un mese dopo, 1° giugno, lo studente modello Harrison avrà la grande occasione di conoscere Ravi Shankar, in Inghilterra per concerti. A casa Angadi, ovviamente, dove è stata organizzata una cena in suo onore, George gli chiede, esaudito, di diventare suo allievo. Ricevendone in cambio un ulteriore consacrazione presso il pubblico occidentale, stavolta quello sterminato del pop. Il legame del Beatle con Angadi si spezza, per motivi mai chiariti fino in fondo, a fine '66. Lo stesso periodo, novembre, in cui John incontra Yoko Ono per l'apertura d'una sua mostra alla vivacissima Indica Gallery, oltretutto sostenuta da Paul, che assai vorace di letteratura ne fece il luogo della sua iniziazione alla cultura underground. Nel giro di pochi mesi George, che pur non accreditandoli, vorrà di nuovo i musici ACM per Within You, Without You (su Sgt. Pepper’s), ha ormai trovato la strada per la sua India. E avendo precorso gli altri Fab di un buon po’, continuerà a percorrerla fino alla fine nella musica e nella vita. La bibliografia beatlesiana è ovviamente sterminata, specie quella in inglese. Ma le attenzioni antiche e sapienti di Franco Zanetti, nostro miglior erudito sui Fab, e Riccardo Bertoncelli, studioso eccellente ma anche inventore e direttore della collana Bizarre per Giunti, ne han traghettato il meglio anche in italiano. In primis lo splendido La grande storia dei Beatles di Marc Lewisohn, fondamentale ricerca e cornucopia di immagini preziosissime; accanto Revolution in the Head di Ian MacDonald, colossale ricostruzione della storia dei quattro canzone per canzone, a suo tempo tradotta per Mondadori (1994) da Zanetti. Il quale nel 2015 ha affrontato in solitaria quell’impresa davvero estrema con Il Libro bianco dei Beatles (Giunti). In tandem con Bertoncelli, Zanetti, che ha esordito sui Fab nel 1988 con la prima bio italiana di McCartney, ha poi tradotto quella di Harrison (I Me Mine, Rizzoli/Skira 2002), Lennon Legend di James Henke (Rizzoli/Skira 2003), A Day In The Life Of The Beatles di Ian McCullin (Rizzoli, 2010), revisionando anche la versione italiana della ristampa di The Beatles Anthology (Rizzoli, 2010). Alla regal coppia - col contributo di Cesare Rizzi - va infine assegnato l’ulteriore e certo non piccolo merito d’aver redatto l’accurata monografia Sgt. Pepper-La vera storia, mentre in 1966: storia di un favoloso anno rock e 1965-1966: la nascita del nuovo rock, entrambi a cura di Bertoncelli, i testi sui Beatles sono, manco a dirlo, di Zanetti; tutti per i tipi di Giunti. Infine, fra gli studiosi di vaglia non ancora tradotti, spicca Robert Rodriguez, autore di ben cinque studi sui Fab: l’ultimo, 2015, su Revolver, col significativo titolo How The Beatles Reimagined Rock ‘N’ Roll...


    Edited by Lottovolante - 3/8/2016, 18:43
  6. .


    SPLASH! EFFETTO TRAMPOLINO
    UN TUFFO NELLE PISCINE VISTO DALL'ALTO


    Geometrie accattivanti e un blu intenso e rinfrescante: queste le due principali caratteristiche degli scatti di Stephan Zirwes, raccolti nella serie “Aerial Pools”. Le fotografie aeree - “realizzate in elicottero, non con i droni. Si è più liberi”, precisa Stephan - immortalano grandi piscine, isolate del resto dell’arredo urbano. “Ho scelto come soggetto di questa serie le piscine per due motivi. Da una parte sono nell’immaginario della mia infanzia: nelle calde giornate estive erano un punto di incontro tra amici del quartiere. Dall’altra parte volevo anche far riflettere sullo spreco: nei miei tanti viaggi mi sono accorto come in alcune parti del mondo l’acqua scarseggi mentre in altre parti ci sono persone ricche che possano permettersi piscine private”

















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    ISLANDS
    The Cosmic Array


    2016 (Folkwit Records)


    Dal Galles uno stimolante album di cosmic-country music

    Quando Gram Parsons sverginò la tradizione country americana contaminandone i geni con rock e soul, eliminò i confini musicali tra Europa e Stati Uniti, rendendo familiare e comprensibile un linguaggio che sembrava forzosamente radicato nelle profondità della provincia americana. Paul Battenbough e Huw Rees sono un gallese e un inglese innamorati di country e psichedelia, due abili riformisti di una storia che, pur non godendo dei riflettori mediatici, ha conservato intatte le sue peculiarità sonore, pur concedendosi al grande pubblico nella sua accezione più soft e radio-friendly, ovvero il country-rock di Eagles e affini. Il secondo album dei Cosmic Array non lascia molto spazio a sonorità confortevoli e immediate, prediligendo le tentazioni e le ambizioni dei pionieri della cosmic country music e ripercorrendo in parte il filone antropologico dell'ultimo King Creosote. "Islands" possiede un fascino alieno e insolito, lo stesso che rendeva unico e speciale quell'incontro casuale che giungeva inatteso nel cuore della notte, quando alla radio captavi una melodia singolare che catturava l'insana magia del rock'n'roll. Sfaccettato e multiforme, "Islands" alterna progressioni strumentali che sembrano rubate a un inedito degli Iron Butterfly ("Drones"), ai turbinii melodici dell'avvolgente country-psichedelico di "What Happiness In", un brano altresì graziato dalla splendida voce di Abby Sohn, elemento primario nel rafforzamento del songwriting della band. Il fascino cristallino delle ibridazioni tra synth e country di "All I Am" e quello più sensuale e notturno dell'acustica "Dear Ones" hanno la stessa intensità di un brano dei Cowboy Junkies o dei Mazzy Star, non di rado l'ombra di Neil Young fa capolino dietro le quinte di canzoni vellutate e maliziose ("Sound Of A Heart Re-Assembling Itself"), o infuocate cavalcate chitarristiche che sconvolgono la quiete in barba ai titoli rassicuranti ("Sea Of Tranquility"). Anche le sferzate psichedeliche di "Kathmandu" e le inflessioni da jam session della ruvida e polverosa "Fire Up In The Sky" sono costantemente accompagnate da melodie intense e non banali, ben lontane da quel gusto per il riff canzonettaro di molte indie-folk-band. È comunque strano pensare che dei giovani gallesi siano così in sintonia con quel macrocosmo musicale americano che è la country music, eppure la pigra indolenza di una lullaby per steel guitar e voci ("Comely Angel") o quelle impercettibili dissonanze di piano e synth che tracciano virate color seppia sul manto melodico di una pedal steel ("Levi Civita"), possono solo sgorgare da un fiume lirico in piena che sia figlio naturale o trans-etnico di quella grande tradizione che è la Cosmic Country Music degli anni 70. "Islands" è un inatteso manifesto di grazia, inventiva che rompe gli schemi della prevedibilità del panorama indipendente, un album destinato a mostrare la sua bellezza solo col passar del tempo perché attendere?



    Tracklist

    All I Am
    Fire Up The Sky
    Sound Of A Heart Re-Assembling Itself
    Kathmandu
    Comely Angel
    Sea Of Tranquility
    Dear Ones
    Levi Civita
    What Happiness Is
    Drones
    Theory Of flight
    Island
  8. .


    SPINHEAD SESSIONS
    Sonic Youth


    2016 (Goofin' Records)


    Quaranta minuti di sperimentalismi strumentali dalle session di "Made In Usa"

    "Made In USA" fu un disco minore dei Sonic Youth: registrato subito dopo "EVOL", ne manteneva le medesime inquietudini, adagiate su territori sonori decisamente sperimentali. Quasi interamente strumentale, fu concepito per la colonna sonora dell'omonimo film diretto da Ken Friedman, ma venne pubblicato ben otto anni più tardi rispetto alla pellicola, nel 1995, fra "Experimental Jet Set Trash And No Star" e "Washing Machine", quando la formazione newyorkese aveva ormai consolidato il proprio status. Quelle session di registrazione, svolte giusto trent'anni fa, furono particolarmente fruttuose, e oggi che la band è in stand-by a seguito della separazione avvenuta fra Kim Gordon e Thurston Moore si è rimesso mano agli archivi per recuperare quaranta minuti di sperimentazioni, aperti dagli ansiogeni landscape chitarristici non a caso intitolati "Ambient Guitar & Dreamy Theme": quasi una soundtrack per la fine del mondo, un magma sonoro che sfora sovente nel rumorismo e nella ripetizione a oltranza di trame strumentali. La batteria tribale che accompagna gli intrecci ai confini con l'industrial in "High Mesa", il minimalismo di "Wolf", l'approccio orrorifico di "Scalping": tutto è pensato per fungere da commento alle immagini del film e lascia ben poco spazio alla fruibilità che i quattro eroi del noise-rock seppero assicurare in album come "Dirty" e "Goo". Qui si testano nuove vie, con la libertà di muoversi senza costrizioni, ma la sensazione è che troppo spesso si giri a vuoto attorno a poche idee ripetute all'infinito. "Spinhead Sessions" è pertanto considerabile un lavoro diretto più che altro ai maniaci completisti, anche se, in un momento di fermo a tempo indeterminato della band, potrebbe diventare interessante per molti - almeno per coloro che ritengano i Sonic Youth una delle formazioni più importanti e influenti degli ultimi 4 decenni.


    Tracklist

    Ambient Guitar & Dreamy Theme
    Theme With Noise
    High Mesa
    Unknown Theme
    Wolf
    Scalping
    Theme 1 Take 4
  9. .


    SUDAFRICA
    UNA LINEA DI CONFINE INVISIBILE: RICCHEZZA E POVERTA' CATTURATE DAL DRONE


    Baracche fatiscenti in lamiera distano poche centinaia di metri da case con giardino, piscina e connessione wi-fi. Due mondi opposti che si guardano, distanti eppure fisicamente vicini. A immortalare la geografia sociale di alcune aree del Sudafrica il fotografo statunitense Johnny Miller nel progetto ''Unequal Scenes'', (scene di disuguaglianza). Nel 2011 si è trasferito nel Paese per studiare antropologia all'università di Cape Town, con un interesse particolare per l'urbanistica e l'architettura nata sotto il segno dell'apartheid. ''E' stato lì che ho notato le zone cuscinetto che servivano a dividere quartieri e determinati gruppi sociali - racconta Miller - e ho immaginato che forse avrei potuto mostrare questa prospettiva da un'altra angolazione''. Le fotografie, infatti, sono state scattate con un drone: ''Dall'alto il punto di vista cambia completamente. E' facile mostrare i panorami suggestivi di questo bellissimo Paese, più complesso utilizzare la fototografia area per catturare le differenze sociali''. L'obiettivo finale del reporter è quello di presentare il lavoro svolto all'interno delle comunità coinvolte e creare un dialogo: ''Sarei contento se questo potesse servire ad aumentare la consapevolezza delle cose, situazioni del genere esistono in tutto il mondo, non solo in Africa. Recentemente, mentre tenevo un discorso davanti a una platea, un uomo sconosciuto mi ha detto che sto dando voce a milioni di persone con queste immagini. Le sue parole mi hanno colpito, mi hanno aperto gli occhi. Ecco perché non smetterò mai di pubblicarle''...









    Ehlanzeni e Vusimuz

    Sorgono ai margini dell'ex borgata di Tembisa. Le linee elettriche dell'alta tensione che sovrastano l'insediamento di Vusimuzi trasportano energia a Johannesburg, ma lasciano gli abitanti di questo slam completamente al buio. Un istmo di terra divide le baracche da un enorme cimitero e due quartieri più ricchi. Gauteng è una delle provincie più ricche della regione e contribuisce a un terzo del Pil totale del Suadfrica







    Strand / Nomzamo






    Papwa Sewgolum Golf Course








    Kya Sands / Bloubosrand






    Masiphumelele / Lake Michelle



    Siamo a venti chilometri da Cape Town. Tra vari quartieri pittoreschi e idilliaci come Noordhoek, Kommetjie, e Fish Hoek, spunta la comunità di Masiphumelele. Qui vivono 38mila persone e si stima che il 35% della popolazione sia infetto da HIV o tubercolosi. Una recinzione elettrificata lo divide dalla comunità di Lake Michelle, sorvegliata da guardie armate.






    Vukuzenzele / Sweet Home



    Edited by Lottovolante - 22/6/2016, 13:06
  10. .


    EUROPEI 2016
    CRISTIANO RONALDO TERRORIZZATO


    Cristiano Ronaldo è stato immortalato durante la partita tra Portogallo e Austria in una posa comica. Il campione lusitano appare spaventato, ma dallo scatto non si riesce a intuire da cosa. Naturalmente la fotografia non è passata inosservata. Non ci è voluto molto perché facesse il giro del mondo e stuzzicasse la fantasia degli utenti dei social network, che l'hanno fatta diventare subito un meme modificandola con Photoshop a loro piacimento. In questa simpaticissima galleria le creazioni più divertenti circolate oggi sul web...



  11. .


    GODZILLA
    IL "NUOVO" PESCE LUCERTOLA CHE VIVE AI CARAIBI


    L'aspetto di una lucertola, la testa abnorme, la bocca pronta a mordere con file di canini ricurvi: non poteva che chiamarsi 'Godzilla', il nuovo singolarissimo e variopinto pesce scoperto nella barriera corallina a sud dei Caraibi dai ricercatori dello Smithsonian Institution, che lo descrivono per la prima volta in un articolo pubblicato sulla rivista scientifica ZooKeys. Battezzato ufficialmente come 'Varicus lacerta' per la sua somiglianza con le lucertole, Godzilla è un ghiozzo, cioè un pesce osseo appartenente alla grande famiglia dei Gobidi. Finora era riuscito a sfuggire all'occhio umano perché vive in acque troppo profonde per i sub e troppo superficiali per i sommergibili. Insolitamente privo di squame, Godzilla ha una livrea gialla e arancione, mentre i suoi occhi vitrei sono di colore verde. Sul ventre presenta una pinna pelvica ramificata, simile ad una piuma. L'animale è stato scoperto dai ricercatori Luke Tornabene, Ross Robertson e Carole C. Baldwin durante una spedizione del Deep Reef Observation Project (Drop) a bordo del sommergibile Curasub, progettato per arrivare fino a oltre trecento metri di profondità e scovare nuove specie di pesci e invertebrati che vivono nei fondali dei mari tropicali. Il mezzo è dotato di due bracci idraulici, uno equipaggiato con un tubo d'aspirazione e l'altro armato di anestetico per immobilizzare il pesce...



  12. .


    AUSTRALIA
    IL PESCE INTRAPPOLATO NELLA MEDUSA


    Stava facendo freediving nelle acque a largo di Byron Bay, in Australia, quando il fotografo Tim Samuel ha notato questo piccolo pesce ''intrappolato'' all'interno di una medusa che nuotava poco distante da lui. ''Non mi sarei mai aspettato che questo scatto potesse fare il giro del mondo'', ha scritto sul suo profilo Instagram dove ha pubblicato due immagini dell'insolito incontro. (Foto @timsamuelphotography)



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    ELEPHANT
    The White Stripes


    2003 (Xl Recordings)


    L'opera omnia dei fratelli White

    I detroitiani White Stripes, ovvero Jack White (John Anthony Gills) e Megan Martha White, sono una delle "sensation" dell'anno. E non è difficile capire il perché: la loro ricetta musicale, infatti, mette d'accordo vecchi patiti di rhythm 'n' blues e gioventù (post-)punk, con una notevole dose di hype (e di furbizia). Se a questo si aggiunge la voluta ambiguità sul rapporto tra i due componenti della band (fratello e sorella? Amanti? I rotocalchi hanno speculato a lungo sul dilemma fino alla rivelazione che i due, in realtà, sono marito e moglie...), il gioco è fatto. Dopo il successo del precedente "White Blood Cells", le Strisce Bianche insistono anche in questo "Elephant" con i loro brani chiassosi, che rievocano i bei tempi andati mescolando garage, blues, acid-punk e psichedelia. Rock contemporaneo, dunque, ma registrato con strumentazioni vintage, a dare un tocco inconfondibilmente retrò. Rispetto alla moltitudine di rivangatori delle radici della musica americana, però, i nostri sembrano anche possedere una certa abilità nel comporre canzoni. Anche in "Elephant", non mancano brani dal forte impatto emotivo, a cominciare dalla ballatona acustica di "You've Got Her In Your Pocket", con la voce sofferta di Jack in evidenza, per proseguire sull'onda delle melodie soul di "I Want To Be The Boy To Warm Your Mother's" e sulle note vagamente lisergiche di "In The Cold, Cold Night", serenata per chitarra, organo e voce (di Meg White), con echi di Doors e Patti Smith. E c'è spazio anche per il country stralunato di "Well It's True That We Love Another" e per una cover di Burt Bacharach ("I Just Don't Know What To Do With Myself"). Per il resto, è il ritmo a far da padrone, come dimostrano l'energico singolo "Seven Nation Army", con un bel giro di chitarra, la vibrante invettiva punk di "Black Math", la beatlesiana "There's No Home For You Here" e ancora "Hypnotize", che unisce una melodia contagiosa alla foga del punk. Ma sono soprattutto i sette minuti di "Ball And Biscuit", tributo alla Chicago rhythm 'n' blues degli anni Cinquanta, a dare spessore musicale al disco. Sì, perché spesso i White Stripes affogano in un mare di idee senza riuscire a svilupparne coerentemente una. Errano senza posa tra le pagine della storia del rock: dai Led Zeppelin ai Ramones, dai Nirvana alla Jon Spencer Blues Explosion. Il vocalismo insolente e i violenti strappi chitarristici di Jack White, le pelli percosse in modo primitivo da Meg White sulle orme della "maestra" Maureen Tucker riescono, talvolta, a tenere in vita anche brani senza nerbo. Ma quattordici tracce sono forse troppe per l'attuale armamentario musicale del duo. E così l'alternanza tra quiete e accelerazioni chitarristiche di "There's No Home For You Here" e "The Air Near My Fingers", la pomposità "heavy" di "Little Acorns" e il rock'n'roll di "Girl, You Have No Faith in Medicine" non aggiungono granché di significativo al loro repertorio. Lo "scherzo" finale in salsa country di "It's True That We Love One Another", invece, dimostra quantomeno che i White Stripes sanno essere autoironici. In definitiva: It's only rock'n'roll. And I like it. Però, nel 2003, è lecito aspettarsi qualcosa di più di un revival, per quanto però ben confezionato.


    Elephant

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    Pubblicazione - 1º aprile 2003
    Durata - 49 min : 56 s
    Genere - Blues rock
    Garage rock
    Punk blues
    Etichetta - V2 Records (U.S.)
    XL Recordings (Europa)
    Produttore - Jack White, Liam Watson
    Registrazione - novembre 2001 - aprile 2002


    Tracce

    Seven Nation Army – 3:51
    Black Math – 3:03
    There's No Home for You Here – 3:43
    I Just Don't Know What to Do with Myself (B.Bacharach, H.David) – 2:46
    In the Cold, Cold Night – 2:58
    I Want to Be the Boy to Warm Your Mother's Heart – 3:20
    You've Got Her in Your Pocket – 3:39
    Ball and Biscuit – 7:19
    The Hardest Button to Button – 3:32
    Little Acorns (M.Crim, J.White) – 4:09
    Hypnotize – 1:48
    The Air Near My Fingers – 3:40
    Girl, You Have No Faith in Medicine – 3:17
    It's True That We Love One Another – 2:42
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    TRAGEDIA IN MOTO 2
    IN CATALOGNA MORTO LO SPAGNOLO SALOM


    Il 24enne pilota spagnolo è deceduto per i danni riportati in seguito ad una caduta durante la seconda sessione di prove al Montmelò


    Tragedia nel motomondiale. Il giovane pilota spagnolo Luis Salom è morto per i danni riportati in seguito ad una caduta avvenuta durante la seconda sessione di libere della classe Moto2. Stamani alle 10 aveva postato una foto sorridente, prima di infilarsi la tuta e avviare il motore: "Voglia di prove libere e di correre al Montmelò: questo circuito è spettacolare!", il suo ultimo tweet. L'incidente, su cui deve ancora essere fatta chiarezza perché non ci sarebbero immagini, è avvenuto alla curva 12. E' probabile che il ragazzo di Palma di Maiorca (come Jorge Lorenzo), che corre per il team Sag, abbia perduto il controllo in un punto dove si raggiungono i 180 kmh e sia finito a tutta velocità contro le barriere. In una drammatica sequenza fotografica si vede prima la moto colpire l'air-fence e poi lo spagnolo Luis Salom che finisce contro la sua Kalex. Le condizioni sono apparse subito critiche, i commissari di gara hanno sventolato la bandiera rossa (erano le 15.27), le prove libere sono state interrotte. Un elicottero era pronto a trasportarlo direttamente al nosocomio catalano ma si è preferito fare una breve, importante sosta alla clinica mobile, dove è stato visitato dal dottor Michele Zaza, e poi - mentre due sanitari si occupavano della rianimazione - trasportarlo a bordo di un'ambulanza all'Ospedale Universitario Generale della Catalogna, che dista all'incirca venti minuti d'auto dalla pista. Il decesso è avvenuto alle 16:55. Luis Salom, che ad agosto avrebbe compiuto 25 anni, era professionista dal 2009: in carriera aveva vinto 9 gran premi. Nel 2012 aveva chiuso al secondo posto il mondiale 125 e terzo la stagione successiva, prima di passare alla Moto2. Aveva esordito quest'anno con un buon secondo posto in Qatar, poi sempre fuori dal podio e il ritiro al Mugello. Oggi aveva portato a termine 3 giri, prima di fermarsi ai box. E' ripartito seguito da Miguel Oliveira, testimone dell'incidente: "Abbiamo cominciato ad aumentare la velocità per fare il tempo, all'improvviso ho visto che all'inizio della curva ha perso il davanti ed è andato dritto sulle barriere". Secondo Valentino Rossi, quella curva è sufficientemente 'sicura': "E' un po' strano, quello che gli è successo: se è andato dritto mi viene da pensare ad un guasto della sua moto...".

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