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    Apple trova casa a Londra:
    a Battersea entro il 2021 il nuovo campus


    Il gigante tecnologico occuperà il 40% dell'area che un tempo ospitava un'importante centrale elettrica, famosa perché è apparsa in fotografia in un disco dei Pink Floyd


    Apple aprirà un importante quartier generale a Battersea, a Londra. Un annuncio che arriva alcuni mesi dopo quello di Google di costruire un nuovo campus nella zona di King's Cross e di Facebook di trasferirsi nel quartiere di Fitzrovia. La vecchia centrale elettrica, chiusa e abbandonata da circa 30 anni, nella South Bank della capitale britannica, è un luogo molto conosciuto anche per essere stato ritratto sulla copertina di Animals dei Pink Floyd. Apple ristrutturerà e occuperà circa il 40% dell'area. La decisione è stata accolta con grande soddisfazione dal sindaco di Londra Sadiq Khan, che ha sottolineato come il nuovo campus di Apple darà un contributo alla creazione di "nuovi posti di lavoro e alla prosperità economica dei londinesi. E' un ulteriore segnale di quanto Londra sia aperta ai principali marchi del mondo e sia una città leader per il commercio e gli investimenti". Nell'area è già all'opera per costruire uffici, negozi e case un consorzio costituito da tre società della Malesia, Sime Darby, SP Setia e il gruppo statale Employees Provident Fund, però è difficile in questo momento vendere appartamenti di lusso. La sede principale di Apple in Europa tuttavia rimarrà in Irlanda.



    Pink Floyd, la cover di 'Animals' (1977)





    Ringo Starr in una scena del film 'Help!' con i Beatles girata all'interno della centrale (1965)




    Dal libretto di 'Quadrophenia', The Who (1973)




    Monty Python, 'Il senso della vita' (1983)




    Il maiale volante dei Pink Floyd in occasione dei 35 anni di 'Animals'




    'Batman - Il Cavaliere Oscuro', 2008 (di Christopher Nolan)




    The Muse, dall'album 'The Resistance' (2009)




    Take That, dal videoclip di 'The Flood' (2010)




    'Fast and furious 6', 2013

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    F.E.A.R. (Fuck Everyone And Run)
    Marillion


    2016 (EarMusic)


    Ci sono cicatrici nei nostri occhi
    Da mille addii
    È stato fantastico
    Puoi scriverlo
    Ma io non risponderò


    E i Marillion fanno diciotto...

    La discografia degli albionici raggiunge la maggior età rinforzando una carriera straordinariamente prolifica. Gli ex-principi del neo-progressive oggi sono profondamente diversi da quelli citati nelle raccolte (molto poco rappresentative, tra l'altro) dei Greatest hits of the Eighties. A dire il vero, molto è cambiato anche nei confronti della cosiddetta "era Steve Hogarth", che dall'89 al 2004 fu altrettanto generosa di vette qualitative quanto purtroppo avara di riscontri mediatici, schiacciata sotto il peso di un nome sempre più difficile da estirpare a un'etichetta alla quale non appartiene più da troppi anni. "F.E.A.R." è, decisamente, la massima evoluzione di un percorso intrapreso dall'ultimo capolavoro "Marbles", ovvero da quando l'addio del fenomenale produttore Dave Meegan ha fatto spazio all'ascesa di Mike Hunter, vecchia conoscenza tecnica della band. L'acronimo che intitola il disco nasconde il motto "Fuck Everyone And Run", dal tono decisamente insolito per questi posati Englishmen. Questo finché non ci si imbatte nelle parole di Steve Hogarth Questo titolo è nato non con la rabbia o l'intenzione di scioccare. È una frase cantata - nel brano 'New Kings' - con tenerezza, nella tristezza e nella rassegnazione ispirata da un'Inghilterra, e da un mondo, che funziona sempre più nutrendosi della filosofia 'ognuno per sé'. C'è un senso di presagio che permea gran parte di questo disco. Ho la sensazione che ci stiamo avvicinando a una sorta di profondo cambiamento nel mondo - una tempesta politica, finanziaria, umanitaria e ambientale irreversibili. Spero di sbagliarmi. Spero che la mia PAURA sia per ciò che 'sembra' si stia avvicinando, e non PAURA di ciò che in realtà 'stia' accadendo. La tipica malinconia marillica pervade effettivamente tutti i brani dell'album, che è un concept più nella sostanza che nella forma: gli escamotage tipici e cari al progressive-rock, fatti di reprise e testi ricorrenti, sono ridotti al minimo, ma l'aura di timore per il futuro avvolge ogni passaggio con modalità molto vicine a un altro tema concepito con simili modalità, tale "Afraid Of Sunlight".


    Parlando strettamente di composizioni e stile, i brani di "F.E.A.R.", praticamente una raccolta di suite, sembrano la naturale evoluzione dei paesaggi sperimentati nel recente passato della band. L'approccio cinematografico e narrativo è in linea con "Gaza" e "Montreal", dal predecessore "Sounds That Can't Be Made" (ma anche con le remote "This Strange Engine", "Interior Lulu" e "Goodbye To All That"). Tuttavia, più che una ripetizione, si ha l'impressione dell'assestamento e consolidamento di un un trademark frutto di quelli che negli ultimi dieci anni sono stati talvolta esperimenti non completamente sviluppati, proponendo finalmente brani del tutto coesi, compiuti e che si snodano con naturalezza nelle loro parti. La motivazione di ciò sta probabilmente in Mike Hunter, il quale sembra abbia raggiunto la crescita e l'intesa necessaria a portare a esprimere il potenziale dei cinque collaboratori, sebbene con un apporto profondamento diverso da quello maniacale (ma prosciugante) di un Meegan. Il risultato di tanta progressione sta nelle maratone come "The Leavers", mastodontica successione di "quadri di un'esposizione" sulla vita nomade degli artisti: inaffidabili, fuggiaschi e sempre più assuefatti dall'effimera ambrosia del brivido. Scenari variopinti che si snodano tra ritmi elettronici, ballate al pianoforte e ipnosi minimalista di pura scuola Talk Talk, pur susseguendosi con disinvoltura e tensione sempre alta. Esattamente come non accadeva in un disco come "Essence", il più vicino stilisticamente a questo brano. È da segnalare tra gli altri il ruolo decisivo, ma oscuro, di Mark Kelly, il quale si affianca come protagonistra insieme ai "soliti noti" Hogarth e Rothery. Non si fraintenda però immaginando un apporto virtuosistico del tastierista. Il lavoro di fino eseguito per tutto l'album sostiene le ritmiche e riempie la trama sonora: prima con le gocce di pianoforte e i loop nervosi della sopracitata "The Leavers"; poi tramite l'intelligente uso degli archi synth che "catapultano" gli interventi della chitarra di Rothery e della voce di Steve Hogarth, come nel lunghissimo e potentissimo crescendo che compone il nucleo di "El Dorado". Proprio quest'ultima composizione, dai gustosi richiami ai Floyd di "More" e "Obscured By Clouds", propone una struttura coesa e rocciosa, nel segno di una nuova "Invisible Man" nella quale il Steve Hogarth ruggisce in questa maniera:

    Tu dici che sta diventando più difficile convivere con me
    Sta diventando più difficile
    Ma non puoi vedere nella mia testa
    Non puoi vedere nella mia testa.


    Una delle sorprese maggiori dell'album "F.E.A.R." (Fuck Everyone And Run) è "White Paper", un brano che ricalca le sonorità ovattate di una "Wrapped Up In Time", così come lo Sting languido ed etereo di "The Soul Cages". La magia che si verifica in esso sta nel far sembrare semplice e immediato ciò che non lo è: quella che sembra un'introduzione torna nel finale come climax, le strofe crescono, esplodono e i muri di suono così si dissolvono in quiete temporanea. Nei testi ritroviamo lo Steve Hogarth particolarmente toccante di "Beyond You": l'inconfessabile vergogna di chi vede in una nuova nascita ("Felicità raggiante è arrivata il giorno/ Che il bambino è venuto a noi") il terrore di un amore che si allontana ("Le braccia di un altro/ Sono la mia idea di Inferno"). Non è altro che l'ennesima forma dell'egoismo e della paura, del fuck everyone and run che puntualmente fa capolino come concept de facto dell'opera, tra un'esplosione nervosa ("Quindi, grida se trovi un modo per tornare alla luce e all'aria", "Che fine hanno fatto i colori del fuoco?"), la riflessione ("Non sembra passato tanto/ Da quando eravamo giovani/ Oh, quando eravamo giovani..."), fino all'amara:

    Ero solito stare al centro della scena
    È ora che mi comporti da persona matura
    E guardare da dietro le quinte, in ombra
    Tutte queste belle cose.



    Il concept si rinforza con le velenose riflessioni sui poteri forti e sul divario tra potenti e nuovi schiavi di "The New Kings", brano scelto come anteprima dell'album, probabilmente per la sua struttura tutto sommato classica nella quale Steve Rothery scatena la sei corde con rinnovata efficacia. Infine, emerge uno dei difetti congeniti della band, quel brano che non regge il confronto con il resto. Fortunatamente, sono lontane le cadute plateali alla "Half The World" o "Invisible Ink": "Living in FEAR" è la tipica melodia disimpegnata - sebbene con il tocco di classe di un finale che a sorpresa strizza l'occhio al gospel - ma priva della ricchezza e concretezza di una pop-song realmente efficace. Concludendo, "F.E.A.R." si rivela una tappa importante, un landmark di un livello tutto sommato inaspettato. Un'importante conferma dopo la lunga attesa seguita al disco di rottura "Somewhere Else" che, pur con punti deboli evidenti, acquisisce a posteriori il ruolo di aver mostrato la via nell'evoluzione a lungo termine della band. Chi saprà andare oltre ai dettagli interpretativi, ai richiami stilistici verso i lavori passati, alle gare e alle analisi asettiche - tornando al piacere di ascoltare e ammirare un album nel suo insieme - avrà un lavoro profondamente maturo ed emozionante ad accoglierlo. (Fonte: Ondarock)

    TRACKLIST

    DOWNLOAD

    El Dorado: I. Long-Shadows Sun – 1:16
    El Dorado: II. The Gold – 6:13
    El Dorado: III. Demolished Lives – 2:23
    El Dorado: IV. F E A R – 4:07
    El Dorado: V. The Grandchildren of Apes – 2:35
    Living in F E A R – 6:25
    The Leavers: I. Wake Up in Music" – 4:27
    The Leavers: II. The Remainers – 1:34
    The Leavers: III. Vapour Trails in the Sky – 4:49
    The Leavers: IV. The Jumble of Days – 4:20
    The Leavers: V. One Tonight – 3:56
    White Paper – 7:18
    The New Kings: I. Fuck Everyone and Run – 4:22
    The New Kings: II. Russia's Locked Doors – 6:24
    The New Kings: III. A Scary Sky – 2:33
    The New Kings: IV. Why Is Nothing Ever True? – 3:24
    Tomorrow's New Country – 1:47

    FORMAZIONE

    Steve Hogarth – voce, tastiera
    Mark Kelly – tastiera, cori
    Ian Mosley – batteria, cori
    Steve Rothery – chitarra, cori
    Pete Trewavas – basso, cori, chitarra
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    ADDIO A UNA LEGGENDA
    É MORTO IL CAMPIONE DI GOLF ARNOLD PALMER


    Scomparso a 87 anni ''The King'': 62 titoli, compresi sette Major


    Il golf piange la scomparsa di uno dei più grandi giocatori di sempre...

    E’ morto a 87 anni, all’UPMC Presbyterian Hospital di Pittsburgh, in Pennsylvania, dove si era recato per alcuni esami al cuore, Arnold Palmer. Lo ha annunciato l’associazione di golf degli Stati Uniti (USGA): “Siamo molto addolorati per la morte di Arnold Palmer“, il post su twitter. Nato nel 1929 a Latrobe, in Pennsylvania, Palmer – soprannominato “The King” – ha dominato il green fra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta: nella sua carriera professionistica, iniziata nel 1950, ha vinto 62 titoli, compresi sette Major, in particolare quattro volte il Masters (1958, 1960, 1962, 1964), una gli Us Open (1960) e due il British Open (1961 e 1962). E’ stato il “più grande ambasciatore” del golf, inserito nella World Golf Hall of Fame nel 1974. Anche il presidente americano Barack Obama ha voluto così ricordarlo twittando una foto che li ritrae insieme alla Casa Bianca.


    NICKLAUS: “ERA IL RE DEL NOSTRO SPORT E LO RIMARRA’ SEMPRE”

    Tante le reazioni alla notizia della scomparsa di quella che è stata un’autentica leggenda per il golf. “Arnold ha trasceso il golf, è stato più di un grande giocatore di golf – sottolinea Jack Nicklaus, vincitore di 18 titoli del Grande Slam – Era un’icona, un pioniere del nostro sport. Ha portato il golf ad un altro livello con la sua sola presenza, siamo stati rivali sul green e ci piaceva affrontarci, ma siamo stati soprattutto grandi amici. Era il re del nostro sport e lo rimarrà per sempre”. Parole accorate anche da Tiger Woods, ex numero 1 del mondo: “Grazie Arnold per la tua amicizia, i tuoi consigli e tante risate condivise insieme. La tua filantropia e l’umiltà sono parte della tua leggenda, è difficile immaginare il golf senza di te o pensare a qualcuno più importante per il nostro sport che il re”. Lo stesso Rory McIlroy, numero 3 del mondo e fresco vincitore del Tour Championship, dedica un pensiero a Palmer: “Arnold non ha forse il palmares più importante della storia, ma è il giocatore che ha democratizzato il nostro sport. Senza Arnold Palmer, non potremmo disputare ogni settimana tornei con così tanto denaro. Un certo numero di noi sapeva che Arnie non stava bene da qualche tempo, ma è rimasto un grande signore, nonostante le sofferenze. Sono davvero triste, il mondo e il golf non saranno più la stessa cosa senza di lui”.
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    BORN TO RUN
    Bruce Springsteen


    L'autobiografia

    «C'è qualcosa di strano nel raccontarsi per iscritto...
    Tuttavia, c'è una promessa che l'autore di un libro come questo fa al lettore: aprirgli la propria mente.
    È quanto ho cercato di fare in queste pagine.»

    BRUCE SPRINGSTEEN


    Nel 2009 Bruce Springsteen e la E Street Band si esibirono al Super Bowl: l'esperienza fu talmente entusiasmante che Bruce decise di metterla su carta. Nasce così questa straordinaria autobiografia, a cui Bruce ha dedicato gli ultimi sette anni e dove ritroviamo tutta la sincerità, l'ironia e l'originalità a cui ci ha abituato con le sue canzoni. Ci racconta la sua infanzia a Freehold, nel New Jersey, un luogo pieno di poesia ma anche di potenziali rischi, destinato ad alimentare la sua immaginazione, fino al momento che Bruce chiama «Big Bang»: il debutto di Elvis Presley all'«Ed Sullivan Show». Descrive il suo desiderio incontenibile di diventare un musicista, gli esordi come re delle bar band ad Asbury Park e la nascita della E Street Band. Con candore disarmante, per la prima volta Bruce illustra i tormenti interiori che hanno ispirato i suoi capolavori, a cominciare proprio da Born to Run, un brano che qui si rivela più complesso di quanto immaginassimo. È una lettura illuminante per chiunque ami Bruce Springsteen, ma è molto più del memoir di una rockstar leggendaria: è un libro per spiriti pratici e inguaribili sognatori, per genitori e figli, per innamorati e cuori solitari, per artisti, fricchettoni e chiunque voglia essere battezzato nel sacro fiume del rock. È raro che un artista racconti la propria storia in maniera così intensa e dettagliata. Come in tante delle sue canzoni (Thunder Road, Badlands, Darkness on the Edge of Town, The River, Born in the USA, The Rising e The Ghost of Tom Joad, solamente per citarne solo alcune), nell'autobiografia di Bruce Springsteen troviamo l'ispirazione di un autore unico e la saggezza di un uomo che ha riflettuto molto a fondo sulle proprie esperienze.


    Genere:musica rock,cantautori,musica it.
    Editore:Mondadori
    Collana:Ingrandimenti
    Data uscita:27/09/2016
    Pagine:536

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    THE NUMBER OF THE BEAST
    Iron Maiden


    (EMI, 1982)



    L'album più heavy della band britannica

    Sulla cresta dell'onda, pronto a fare il grande botto commerciale, prossimo alla celebrità universale, sprovincializzandosi con un tour mondiale appena conclusosi, Paul Di'Anno, inspiegabilmente, lascia (o viene estromesso da) il gruppo. Volendo esagerare potremmo dire che la lunga storia degli Iron Maiden finisce qui. Il proseguo difatti, oltre ad essere scevro del raffinato animo di Paul Di'Anno, vedrà null'altro che un progressivo perfezionarsi e intensificarsi del suono che, sempre più pulito e intenso (anche sulla scorta delle bordate heavy metal che richiedono necessariamente, per essere almeno aggiornati, un aumento di decibel), si dividerà tra pezzi ballata e pezzi power o dividerà un pezzo metà ballata metà power. Le tematiche poi pur variando sempre, in chiave concept-story, di ambientazione in ambientazione rimarranno (nel bene e nel male) arenate a quelle iniziali: e anzi le esaspereranno di retorica e artificiosità per essere più eclatanti e così vendere di più. Ciò è dovuto non solo a una sempre più spiccata mentalità manageriale di Harris, ma anche all'innesto dell'ex Samson (rozza band proto-metal che tentava di rifare il verso a Judas Priest e Kiss) Bruce Dickinson, oggi considerato un mito vivente e oggettivamente primo nella classifica d'influenza tra i cantanti heavy metal: tuttavia con la sua tecnica perfetta, il suo sbraitare teatrale, la sua retorica e pletorica risulta anni luce (poeticamente) inferiore e meno degno di stima dell'esistenzialista Paul Di'Anno, unico fra l'altro, tra i membri di una band di "bravi ragazzi", a, soprattutto dopo aver lasciato questa, perdersi in dipendenze di vario genere.


    The number of the beast è universalmente considerato il miglior album del quintetto londinese. Di fatto è il più celebre. Sempre di fatto, con quest'opera, il metal prende una volta per tutte la sua rotta definitiva e inconfondibile: il suono maturo e (allora) d'avanguardia di quest'album traccia tale rotta, oltre ad avviarla. Da un punto di vista compositivo, tuttavia, contrariamente ai primi due lavori (per la gran parte costituiti da canzoni indistintamente di alto livello) si assiste qui per la prima volta nella storia del gruppo a una più o meno volontaria svendita alla mediocrità: incredibilmente l'album alterna brani assoluti a "brani-riempitivo" sciatti, banali e noiosi. Partendo dal peggio è da dire che: "Invaders" si crogiola in un autocompiaciuto (è autocompiacersi il principale difetto di Dickinson e, se non di più, anche di Harris) metal-medio-power che invoca a rotta di collo ma senza credibilità apocalittiche invasioni di esseri mostruosi. "The prisioners" tenta di rivalersi in un'inquadratura più marziale ma il testo scandalosamente sciocco ("I'm not a number, I'm a free man") e l'andatura coralmente podistica danno 6 minuti di noia. "Run to the hills" scende nel campo dei buoni sentimenti alternativi (la dedica è straniantemente, dato l'ambiente new wave, ai pellerossa delle riserve) qualificandosi celebre quanto odiosa, il trillo del ritornello inneggiato da Dickinson è poi stomachevole ("run for your life..": l'unico motivo per correre è per scappare da questo cesso!). "Gangland" (e i Maiden in stile "Gangland" ne faranno a decine di brani) non ha nessun senso di esistere e infatti non significa nulla, del quartetto tuttavia è la meno peggio, sostenuta se non altro da un sincero arrembare. Tra il bene e il male sta "The number of the beast", cronaca di un sogno demoniaco introdotto da un brano dell'Apocalisse di S.Giovanni: considerata da critici e fan un must ineguagliato, tuttavia a parte l'urlo notevolissimo di Dickinson nelle parti centrali ha poco da dire. Lo stesso "666" (di cui i Maiden fecero anche un toccante video in stile horror-Eighteen con tanto di nebbia artificiale, zombie di cartapesta e fuseaux elasticizzati), se è vero che entra nell'iconografia metal, è anche vero che era presente in campo musicale già dal 1971 quando gli Aphrodite's Child gli dedicarono addirittura un album (senza parlare del "Their satanic majestic" rollingostoniano). Venendo al meglio troviamo il meglio del meglio. Tre capolavori ciascuno dei quali basterebbe a giustificare un album a sé di sola spazzatura. "22 Acacia Avenue" si presenta con uno degli attacchi di chitarra più coinvolgenti della storia, procede epicamente esistenziale con Dickinson che si supera come cantore di una perdizione meditata a mezzo del sentimento poetico o situazionale suscitato dal contesto del brano (the continuing saga of Charlotte the Harlot): si ritorna al succo più profondo dei Black Sabbath, riuscendo come non mai a trasfigurare la realtà, il presente (la camera fatiscente e mesta di grigiore industriale/operaio di una prostituta/amante), verso un'evasione che dà senso e valore (pur illusorio) a quella come all'esistenza tutta. "Children of the damned" è ancora tematicamente Black Sabbath (vedi "Children of the grave"): una ballata credibilmente desolata che si innalza a vertici sinfonici di solitudine riassunti dal caldo abbraccio di Dickinson che qui coglie davvero nel segno. Il riff centrale è Kiss, ma questi sono superati dalla prevalenza dell'aspetto contenutistico ed emozionale su ogni altro. Il più piccolo e ultimo adolescente dei grigi e infetti sobborghi londinesi era il "Children of the damned", e lo furono a migliaia, da soli, nelle loro squallide e polverose camerette. "Hallowed be thy name" sarà il capolavoro nel capolavoro. Al pari (per valore) dei migliori Black Sabbath (quelli di "Iron Man", "Sabba Cadabra", "Black Sabbath"); al pari dei migliori exploit degli album precedenti che, con i suoi lunghi sette minuti rischia di superare. L'intro ritmato dallo spaglio dei piatti, l'assolo di chitarra che è una falcata di tutta una vita, la voce imperiosamente sposata con un complesso rispettato nell'espressione di ogni singolo componente; rallenta, divaga, sempre commovendo, riparte velocissima, ancora una digressione, due lampi, uno slide, e finisce con una corona apocalittica. Uno di quei tre o quattro brani che hanno fatto il metal (gli altri sono "Child in time", "Black Sabbath", "Overkill", "The call of Ktulu"). (Fonte recensione: Ondarock)

    The Number of the Beast

    Artista - Iron Maiden
    Tipo album -Studio
    Pubblicazione - 22 marzo 1982
    Durata 39:11
    44:33 (riedizione del 1998)
    Dischi - 1
    Tracce - 8
    9 (riedizione del 1998)
    Genere - Heavy metal
    Etichetta - EMI
    Produttore - Martin Birch
    Registrazione - 1982, Battery Studios, Londra (Regno Unito)


    Tracce

    Invaders – 3:20
    Children of the Damned – 4:34
    The Prisoner – 5:34
    22, Acacia Avenue – 6:34
    The Number of the Beast – 4:25
    Run to the Hills – 3:50
    Gangland – 3:46
    Hallowed Be Thy Name – 7:08


    Formazione

    Bruce Dickinson – voce
    Dave Murray – chitarra solista
    Adrian Smith – chitarra solista
    Steve Harris – basso
    Clive Burr – batteria
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    THE DARK SIDE OF THE MOON
    Pink Floyd


    1973 (Emi)



    Waters e compagni nel kolossal che li proiettò nel Guinness del rock

    Aggiungere qualcosa di inedito su un complesso fin troppo osannato e divenuto una ferma icona del nostro tempo non è facile. Cercherò, quindi, di proporre solo alcune considerazioni su di un fenomeno musicale che ancora oggi fa discutere, anche se solo per colossali vendite commerciali, e non più per meriti artistici. Fatta questa premessa, è venuta l'ora di imbattersi nel loro capolavoro piu' criticato, celebrato, mitizzato e stroncato allo stesso tempo: "The Dark Side of the Moon". E' probabile che i Pink Floyd abbiano prodotto album migliori di "The Dark Side of the Moon", almeno per ciò che concerne l'aspetto strettamente compositivo. L'argomento-principe su cui ogni critica-rock che si rispetti, quando si ha come "vittima" il combo del periodo di Roger Waters, dovrebbe erigere il suo "epicentro" è la disputa su quale sia stata in realtà la missione musicale intrapresa (e poi egregiamente portata a termine) dai Pink Floyd: verranno ricordati e apprezzati più per le straordinarie innovazioni ed evoluzioni apportate al suono, tanto da meritarsi il titolo di "produttori di cibo per le menti" o per aver saputo coniugare suono, hype, possenti wall-of-sound saturi di colori e distorsioni neo-psichedeliche con superbe melodie, a tutt'oggi considerate archetipi-rock a cui fare riferimento? "The Dark Side of the Moon", insuperato marchio sonico-musicale dei Pink Floyd targati Roger Waters, non scioglie però il dubbio.


    "The Dark Side of the Moon" si pone, nel contesto della musica popolare del XX° secolo, come un ricco laboratorio di esperimenti post-lisergici, ai confini del più spregiudicato art-rock della prima metà degli anni 70. Padrone incontrastato di questa "rivoluzione del suono" è Roger Waters, che, in qualità di alchimista floydiano, rileva già dal 1968 Syd Barrett alla guida della band, auto-erigendosi a folle, incontrollabile setacciatore di nuove sonorità che renderanno il "Floyd-sound" universale e istantaneamente riconoscibile in ogni parte del globo. Ma non si può fare a meno di stendere elogi e contro-elogi sull'elaboratissimo, maniacale sistema audio-fonico impresso sui solchi del disco, grazie al lavoro di un ingegnere del suono del calibro di Alan Parsons, che costituisce l'autentica perla ed epicentro musicale-ideologico di tutta l'operazione. Roger Waters, David Gilmour, Nick Mason e Richard Wright, orfani del genio anarchico e stralunatissimo di Syd Barrett, proseguono il cammino, dando avvio a un percorso (a partire dal celebre doppio - metà live metà in studio - "Ummagumma") capace di toccare vette di sublime, spesso piacevolmente criptata cerebralità, dando in pasto a un ancora acerbo pubblico le loro ricerche e i loro inusuali connubi di rumori vivisezionati dall'"ingordo" Waters e sapientemente tradotti in accattivanti squarci di quotidianità. Una quotidianita' in apparente quanto bizzarro contrasto con la complessità, spesso ingovernabile e astrusa, di una mente come quella di Roger Waters, devastata da paranoie e macabre visioni, in eterna oscillazione tra sogno e realtà, schizofrenia e solenni momenti di lucidità. "The Dark Side of the Moon" viene pubblicato il 1° marzo negli Usa e il 24 in Europa, e verrà considerato da gran parte della critica come l'insuperato capolavoro musicale dei Pink Floyd. Cio e' vero solo in parte: il fatto che in esso vengano riunite, impareggiabilmente, tutte le contraddizioni ideologiche e simboliche di Waters non giustifica appieno tale titolo. Volendo staccare i piedi dalla Luna e riposandoli sulla Terra, l'album è e verrà sempre considerato un superbo, inarrivabile rivoluzionario prodotto (nel caso lo intendessimo da un punto di vista strettamente "cerebral-onirico", "sonico/concettuale"), ma al contempo appena discreto nel caso lo riducessimo allo "scheletro", annientandone, cioè, il corpo sonoro e portando alla ribalta le non del tutto ispirate tracce, a cominciare dall'insipida "Money", per poi passare attraverso i trucchi (talvolta ruffiani, talvolta "streganti' le nostre menti, in perenne cerca di .... "cibo lisergico") di "Speak To Me" e "On The Run", perfette comunque nel rendere lo stato di ansia del nostro protagonista, riuscendo a fondere, tra rumori e soluzioni sonore d'avanguardia, momenti di alto contenuto sonico-spaziale, ponendo le coordinate su cui si poggia il pensiero pessimista di un Roger Waters alquanto e particolarmente disorientato, autentico ambasciatore del tema dell'incomunicabilità, di cui "The Dark Side" risulta un compiuto, drammatico spaccato. Non mancano, per la verità, momenti di intenso, assoluto lirismo, come dimostrano "Time", trascinante nella sua felicissima fusione tra testo e musica, un passo in avanti per un non ancora del tutto sviluppato concetto filosofico all'interno dei parametri-rock, superba prova di lucidità mentale e intellettiva da parte del quartetto; il brano si avvale anche di un debordante (inteso in senso strettamente lirico/evocativo), spiazzante assolo di David Gilmour alla chitarra: si ha la sensazione che esso voglia accompagnare il viaggio attraverso il tempo di un coraggioso, anarchico esploratore, in continuo stato di ansiosa curiosità. In definitiva: il trionfo della suggestione e uno degli squarci più intensi di tutta la discografia floydiana. La prima parte del disco si completa con una elegia della pazzia, ma anche, allo stesso tempo, della libertà dell'uomo, schiavo di una società che tende a opprimerlo: "The Great Gig in the Sky", dominata dai vocalizzi di Clare Torry, di derivazione soul-gospel, in grado di fondere fiammante liricità e drammaturgia quasi cinematografica. In questo coinvolgente, straziante frammento della sua vita, l'uomo sembra librarsi verso il cielo, onde aprirsi un varco, grazie al quale potrà regnare indisturbato e solenne, lontano dai rumori e ingiustizie della realtà terrena. "Us and Them" vorrebbe rievocare "Breathe In the Air", ma la melodia, sebbene pinkfloydiana al 100%, risulta convincente solo se nel contesto dell'album, non certamente come tema isolato. Un discorso che vale un po' per tutto "The Dark Side of the Moon": ciò che rende immortale quest'opera è il suo inconsueto approccio con l'art-system dell'epoca, qui fotografato in tutte le sue direzioni possibili. Per il rock si trattò di un prodigioso balzo verso un'era futuristica prossima a venire. Per "The Dark Side" vale lo stesso parametro adottato per "Sgt. Pepper" dei Beatles: "Sgt. Pepper" non si potrà forse considerare il capitolo più felice, musicalmente parlando, dei Beatles: esso comportò una rivoluzione, forse la piu' significativa e rilevante della storia della musica pop, ma questo non può giustificare appieno alcune "debolezze" compositive insite nel capolavoro di John Lennon e soci. Lo stesso dicasi per "The Dark Side of the Moon": come per "Sgt. Pepper", esso costituì, per i Pink Floyd, la definitiva acquisizione di status di "semidei del rock", ma questo grazie più al magniloquente manto sonoro e policromatico, che alla qualità delle canzoni presenti nell'album. E nessuno potrà negare l'importanza avuta nel contesto storico degli anni Settanta (un periodo fortemente contraddistinto dalle incessanti, maniacali ricerche di nuove avanguardistiche tecniche all'interno degli studi di registrazione) del "lato oscuro della luna".


    The Dark Side of the Moon

    Pubblicazione - 10 marzo 1973 Stati Uniti
    23 marzo 1973 Regno Unito
    Durata - 42:57
    Dischi - 1
    Tracce - 10
    Genere - Rock progressivo
    Rock psichedelico
    Rock sperimentale
    Space rock
    Etichetta _ Harvest Regno Unito
    Capitol Stati Uniti
    Produttore - Pink Floyd
    Registrazione - Abbey Road Studios, Londra, dal giugno 1972 al febbraio 1973
    Formati - LP, CD, download digitale
    Note - Rimasterizzato in SACD nel 2003 da James Guthrie


    Tracce

    Lato A

    Speak to Me – 1:30 (musica: Nick Mason)
    Breathe – 2:43 (Roger Waters, David Gilmour, Richard Wright) – Voce di David Gilmour
    On the Run – 3:30 (musica: David Gilmour, Roger Waters)
    Time + Breathe (Reprise) – 6:53 (Nick Mason, Roger Waters, Richard Wright, David Gilmour) – Voci di David Gilmour e Richard Wright
    The Great Gig in the Sky – 4:15 (Richard Wright) – Voce di Clare Torry

    Lato B

    Money – 6:30 (Roger Waters) – Voce di David Gilmour
    Us and Them – 7:49 (Roger Waters, Richard Wright) – Voci di David Gilmour e Richard Wright
    Any Colour You Like – 3:24 (musica: David Gilmour, Nick Mason, Richard Wright)
    Brain Damage – 3:50 (Roger Waters) – Voce di Roger Waters
    Eclipse – 1:45 (Roger Waters) – Voce di Roger Waters


    Formazione

    Gruppo

    David Gilmour – voce, cori, chitarra, lap steel guitar, pedal steel guitar, sintetizzatore EMS Synthi AKS (traccia 3)
    Roger Waters – basso, sintetizzatore EMS VCS3 (traccia 3), voce principale (tracce 8 e 9), effetti su nastro
    Richard Wright – organo Hammond, pianoforte, pianoforte elettrico, cori e armonie vocali, voce principale (traccia 4), sintetizzatori Minimoog, EMS VCS3 e EMS Synthy AKS
    Nick Mason – batteria, percussioni, rototoms (traccia 4), effetti sonori e su nastro

    Altri musicisti

    Roger "The Hat" Manifold – voce parlata (tracce 3 e 7)
    Peter James – battito di piedi (traccia 3), voce parlata (traccia 8)
    Clare Torry – voce principale (traccia 5)
    Dick Parry – sassofono tenore (tracce 6 e 7)
    Doris Troy, Liza Strike, Lesley Duncan, Barry St. John – cori
  7. .


    LA VERSIONE DI PAUL
    Paul McCartney


    In conversazione con Paul Du Noyer

    "Io non so esattamente in che direzione sto andando, perché invento tutto. Non ho mai preso lezioni, a parte quelle che ho ricevuto dalla vita. Ma c'è questa magia. Hai una piccola idea, ci aggiungi qualche accordo e diventa più grande." L'incontro fatale con John Lennon a una festa nel luglio 1957 a Liverpool e i retroscena del doloroso scioglimento della band nel 1970. La carriera di solista e l'amore per Linda, sua moglie. L'amicizia e l'inimicizia con i grandi della musica, da Michael Jackson a Stevie Wonder. La musica, l'amore, la fama, la moda, la vita. Non c'è argomento che Paul McCartney non affronti con sincerità disarmante in questa lunga rivelazione di sé, che emerge da trentacinque anni di frequentazione e collaborazione con Paul Du Noyer, giornalista di Liverpool, come Paul e gli altri Beatles, chiave necessaria per capire e cogliere a fondo il mondo del grande musicista. Ricco di particolari e dettagli personali che persino i fan più accaniti probabilmente non conoscono, e sorprendente per il tono intimo e generoso con cui affronta i temi più difficili, questa è la voce di Paulche non avete mai sentito.


    Genere:musica rock,cantautori,musica it.
    Listino:€ 20,00
    Editore:Piemme
    Data uscita:06/09/2016
    Pagine:364

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  8. .


    KLM OPEN 2016
    Prove di Open per 6 italiani


    Matteo Manassero, Renato Paratore, Nino Bertasio, Edoardo Molinari, Francesco Laporta e Nicolò Ravano affinano la loro condizione in vista del 73° Open d’Italia, nel KLM Open (8-11 settembre), il torneo dell’European Tour che al The Dutch di Spijk, in Olanda, anticipa la massima manifestazione golfistica italiana (15-18 settembre). Hanno fatto la stessa scelta anche alcuni giocatori in campo al GC Milano, tra i quali ricordiamo, l’inglese Chris Wood, gli svedesi Robert Karlsson e Alex Noren, vincitore domenica scorsa dell’European Masters, lo spagnolo Pablo Larrazabal, il thailandese Thongchai Jaidee e i coreani Byeong Hun An e Y.E Yang. Difende il titolo il belga Thomas Pieters, quarto alle Olimpiadi, a segno successivamente del Made in Denmark e in costante crescita negli ultimi due anni. Contribuiranno allo spettacolo anche l’austriaco Bernd Wiesberger, l’olandese Joost Luiten, l’indiano S.S.P. Chawrasia, il cinese Haotong Li, l’australiano Scott Hend, i sudafricani Brandon Stone e George Coetzee. Renato Paratore cerca conferme dopo il settimo posto in Svizzera, ma anche gli altri italiani, tutti in crescendo di condizione, possono puntare in alto.

    Il montepremi è di 1.800.000 euro con prima moneta di 300.000 euro.

  9. .


    DEUTSCHE BANK CHAMPIONSHIP 2016
    Ruggito di Rory McIlroy



    Il nordirlandese Rory McIlroy ha vinto con 269 colpi (71 67 66 65, -15) il Deutsche Bank Championship, secondo dei quattro tornei dei Playoffs che assegnano i 10 milioni di dollari della FedEx Cup al primo di un speciale classifica a punti, e si è messo in corsa per la conquista del jackpot. Sul percorso del TPC Boston (par 71), a Norton nel Maryland, con un giro finale a gran ritmo (65, -6) ha sorpassato l’inglesePaul Casey, in vetta dopo tre turni e secondo con 271 (-13), e Jimmy Walker, terzo con 272 (-12). Al quarto posto con 273 (-11) l’australiano Adam Scott e al quinto con 274 (-10) Patrick Reed, leader della FedEx Cup, James Hahn e l’argentino Fabian Gomez. In ottava posizione con 275 (-9) Dustin Johnson, in 15ª con 276 (-8) l’australiano Jason Day, numero uno mondiale, in 21ª con 277 (-7) Jordan Spieth, in 24ª con 278 (-6) lo spagnolo Sergio Garcia e in 57ª con 283 (-1) l’inglese Justin Rose. Nella classifica della FedEx Cup invariate le prime tre posizioni con al vertice Patrick Reed (punti 3.957) seguito da Jason Day (p. 3.409) e da Dustin Johnson (p. 3.189), Rory McIlory si è portato al quarto posto (p. 3.115) superando Adam Scott (p. 3.063) e Jordan Spieth (p. 2.451). Hanno preso il via 97 dei 100 concorrenti aventi diritto e solo i primi 70 della graduatoria FedEx potranno partecipare al prossimo BMW Championship (8-11 settembre). Sono rimasti fuori dopo il Deutsche Bank, tra gli altri, Steve Stricker, Jim Furyk, il fijiano Vijay Singh e l’inglese Danny Willett, che non ha partecipato. Al Tour Championship (22-25 settembre), gara finale dei Playoffs e del circuito statunitense 2015/2016, avranno accesso solo il primi 30. Tutti i tornei dei Playoffs hanno un montepremi di 8.500.000 dollari con prima moneta di 1.530.000 dollari, che in questa occasione ha gratificato Rory McIlroy. Nei PlayOffs sono cambiati i punti assegnati. Nel corso della stagione al vincitore ne andavano 500 in una gara normale, 600 nei major e 550 in quelle del WGC. Ora il primo ne riceve 2.000, il secondo 1.200, il terzo 760, il quarto 560 e via a scalare. Dopo il BMW Championship i punti acquisiti verranno resettati. Rimarrà ovviamente lo stesso ordine di graduatoria, ma il primo partirà per la volata conclusiva con 2.000 punti, il secondo con 1.800, il terzo con 1.600, il quarto con 1.440, il quinto con 1.280 fino al 30° con 168. In questo modo anche il 30° avrà la teorica possibilità di arrivare ai 10.000.000 di dollari di jackpot, pure se la serie di concomitanze è quasi impossibile.

    LA CLASSIFICA FINALE

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    FALSE READING ON
    Eluvium


    Meraviglia e consolazione nel capolavoro ambient di Matthew Cooper

    Ci sono giorni che rimangono senza consolazione, sospesi nell'irreale silenzio che segue una tragedia che è di tutti, umana e non soltanto nazionale. Poche ore prima del deplorevole attentato di Nizza, ascoltando per la prima volta il nuovo album di Matthew Cooper, ripensavo già alle cicatrici di tutte quelle stragi per cui non si è ancora trovato conforto, estranee come sono al minima moralia che in linea di massima ancora sopravvive nella cultura europea, mentre la furia cieca dell'estremismo aggredisce la quotidianità degli innocenti. Ancor più vicina a noi invece, appena una settimana fa, l'inspiegabile devastazione del sisma nel centro Italia, che lascia dietro sé l'angoscia e l'impotenza di intere comunità alle quali non è rimasto nulla, in molti casi nemmeno l'affetto dei cari. Ciascuno di questi segnali, unito alla psicosi collettiva, lascia credere che l'incubo sia lungi dall'essere finito. Forse anche per questo, nella fragilità che ci coglie in questo momento storico, torna a manifestarsi la rara illusione che nel suo piccolo sia la musica ad ascoltare noi, a venirci incontro generosa e con le braccia aperte, stringendoci in una quiete anestetica che sopprima indistintamente ogni costrutto della realtà visibile. Dopo anni di apparizioni sporadiche e "minori", Eluvium si ripresenta con le sue sembianze più sfolgoranti in un nuovo, commovente connubio tra ambient e canto sacro: è come se i sampling di voci liriche ("Strangeworks", "Regenerative Being") e cori a cappella ("Movie Night Revisited", "Rorschach Pavan") provenissero dai più struggenti requiem mai scritti, da Tomás Luis de Victoria a Tavener e Górecki; uniti alle scie di chitarre e sintetizzatori, plasmate in una forma orchestrale dai contorni estremamente sfumati, essi giungono all'udito come quela carezza della più amorevole delle madri - memore a più riprese dell'arcana perfezione cristallizzata tra i ghiacci di "Erebus". Al suono di quell'inconfondibile organetto ("Fugue State", "Beyond The Moon For Someone In Reverse") il mondo appare spogliato di qualsiasi orpello materiale e ideologico, fuori dalla nostra finestra tutto sembra fermare la sua corsa per ritrovare una forma primaria di sentimento, un'unitarietà a lungo perduta che tiene tutto insieme in un legame invisibile al quale stentavamo sempre più a credere. Persino i più umili interludi, confondibili con bozzetti giovanili dall'impianto amatoriale, un ascolto dopo l'altro lasciano filtrare un lucore di placida serenità, utile a riassorbire il carico emotivo delle tracce principali. E non è affatto fuori luogo che il viaggio giunga a compimento con un titolo denso e altisonante come "Posturing Through Metaphysical Collapse", lunga suite che sigilla l'opera sconfinando nella pura trascendenza: un immenso coro di voci raggiunge la saturazione totale mentre la linea melodica va ad essa sovrapponendosi, generando una densità sempre crescente ove già non pareva possibile aggiungere alcunché; l'apice è debordante, annichilente a volume sostenuto, come se la geografia immaginaria di Tim Hecker si rivestisse delle bianche coltri noise di Jefre Cantu-Ledesma, in una visione eterna e abbacinante oltre il bene e il male. Cosciente che possa leggersi come una serie di malcelate iperboli critiche, credo fermamente che con un album come "False Readings On" persino il più bieco scetticismo dovrà far spazio a un'esperienza di così evidente assorbimento spirituale con la quale Eluvium, a dieci anni di distanza da "Copia", firma un'opera che non ne costituisce un mero spin-off ma l'ideale passo oltre, la nuova consolazione attesa e così trovata.


    TRACKLIST

    - Strangeworks
    - Fugue State
    - Drowning Tone
    - Regenerative Being
    - Washer Logistics
    - Movie Night Revisited
    - Beyond The Moon For Someone In Reverse
    - False Readings On
    - Rorschach Pavan
    - Individuation
    - Posturing Through Metaphysical Collapse


  11. .


    IL GATTO NELLA CITTA' DEI SOGNI
    Deborah Ellis


    Dall'autrice di "Sotto il burqa"

    Cisgiordania.

    Un gatto trova rifugio in una piccola casa palestinese occupata da due soldati israeliani, che ne hanno fatto il loro punto di osservazione della zona circostante. In un primo momento la casa sembra vuota, ma dopo poco il gatto avverte la presenza di un bambino nascosto in un vano sotto le assi del pavimento. Che cosa ci fa lì un bambino tutto solo, dove sono i suoi genitori? Deve fare qualcosa per aiutarlo? In fondo è soltanto un gatto. O no? Un’istantanea del conflitto isreaelo-palestinese visto attraverso uno sguardo insolito, imparziale e molto delicato.


    Genere:6-10 anni
    Listino:€ 16,00
    Editore:Rizzoli
    Data uscita:01/09/2016
    Pagine:160

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  12. .


    SEX PISTOLS
    MANCHESTER 1976: LA SERA IN CUI NACQUE IL PUNK


    Lo show alla Lesser Trade Free Hall che fece "convertire" un'intera generazione di musicisti, dai Joy Division ai Fall ai Buzzcocks fino a Morrissey.


    La sera del 4 giugno 1976 non c'era molta gente alla Lesser Free Trade Hall di Manchester. La sala da concerti non era delle più prestigiose (anche se situata al piano superiore della leggendaria Free Trade Hall, quella dove Bob Dylan fu chiamato Giuda da uno spettatore molto scontento della sua svolta elettrica durante il tour europeo del 1966) e gli headliner della serata erano i semisconosciuti Sex Pistols. Quella serata ha però cambiato la storia del rock: tra i pochi presenti (la stima è molto controversa, ma si oscilla tra le 50 e le 100 presenze) c'erano molti futuri agitatori delle scene musicali che, folgorati dalla band di Johnny Rotten, misero in piedi band destinate a lasciare segni profondi. Tra la folla c'erano infatti, oltre a Howard Devoto e Pete Shelley dei Buzzcocks che organizzarono lo show, Peter Hook e Bernard Sumner dei Joy Division - New Order, Morrissey degli Smiths, Mark Perry dei Fall, Steve Diggle, anche lui nei Buzzcocks, il fondatore della Factory Records Tony Wilson e tutti i futuri agitatori della nuova scena di Manchester. Come scrive David Nolan nel suo libro Il concerto che ha cambiato il mondo, senza quello show (e il successivo dei Pistols a Manchester sei settimane dopo) "non ci sarebbero stati i Buzzcocks, i Magazine, i Joy Division, i New Order, la Factory Records, tutto il sistema delle etichette indipendenti britanniche, niente Fall, niente Hacienda, Madchester, Happy Mondays ed Oasis. E questo significa anche niente Green Day, niente Killers, niente Arctic Monkeys, Editors, niente Interpol, niente Pavement, niente Codplay, niente Prodigy, niente Kasabian...niente di niente".


    40 anni dopo, la registrazione di quel leggendario concerto (e di altri tre show dello stesso periodo: quello del 29 agosto a Islington, quello del 17 settembre nel carcere di massima sicurezza a Chelmsford e quello del 25 settembre a Burton on Trent) esce finalmente dalle nebbie grazie al cofanetto Sex Pistols live '76, che verrà pubblicato dalla Universal il 2 settembre. Registrazioni che aiutano a ricostruire il particolare clima di quel periodo storico in Gran Bretagna. Depressione, disoccupazione alle stelle, inflazione galoppante, nessuna fiducia nella classe politica: la speranza che animava gli anni 60 era affogata nella crisi economica. Ed in più, la musica allora in voga (soprattutto il progressive) era invisa alle nuove generazioni di appassionati del rock: "I dischi degli Yes stavano diventando sempre più lunghi - ha spiegato Pete Shelley - più lunghi delle intere discografie di molti gruppi". Il tempo giusto per un cambiamento radicale. Il biglietto d'ingresso al concerto del 4 giugno costava 50 pence. Il bassista della band era ancora Glen Matlock, che l'anno successivo avrebbe lasciato il posto a Sid Vicious. "Per il punk, quel giorno equivale alla scissione dell'atomo. I Pistols erano irresistibili e non gliene fregava niente di niente - ha spiegato Steve Diggle dei Buzzcocks - è da lì che è esploso tutto, quello show ha cambiato Manchester e ha cambiato il mondo". I Pistols eseguirono 13 brani, tra cui No Feelings, Seventeen, Pretty Vacant e, come bis, Problems. "Era la cosa più scioccante che avessi visto in vita mia - ha confessato Peter Hook - era tutto così...alieno a qualsiasi altra cosa. Ti veniva solamente da pensare 'possiamo farlo anche noi'". Lo stesso Hook confessò che, fino a quel giorno, non aveva mai preso in mano uno strumento. Come ha spiegato Tony Wilson, all'epoca presentatore e inviato di Granada Reports, un notiziario trasmesso in tutta l'area nord-ovest dell'Inghilterra, i Pistols conquistarono la platea per la loro autenticità. "Il vero rock'n'roll esiste quando qualcuno fa veramente sul serio, quando ci crede davvero". Stesso concetto espresso dal controverso manager dei Pistols Malcolm McLaren: "L'unico cosa che ricordo - disse qualche anno fa - è che quei ragazzi erano convinti di essere al cospetto dell'inizio di qualcosa. E che credevano di avere finalmente qualcosa di autentico a portata di mano". Dopo quello show, la maggior parte dei presenti corse a fondare una band. Morrissey, allora giovanissimo, preferì invece scrivere una lettera al settimanale New Musical Express, svelando il sarcasmo che avrebbe poi animato la sua vicenda artistica: "Mi piacerebbe che i Sex Pistols avessero successo. Forse così riuscirebbero a permettersi dei vestiti che non diano l'impressione che qualcuno ci abbia dormito dentro". Hook non ricorda se al concerto di Manchester fosse presente anche Ian Curtis. Sui biglietti dei concerti la data riporta un anno clamorosamente sbagliato (1076) e sono annunciati anche i Buzzcocks, che invece non salirono sul palco. Qualcuno invece, sostiene di aver visto in platea anche Mick Hucknall, futuro leader dei Simply Red. Ipotesi che la maggior parte dei testimoni oculari della serata ritiene altamente improbabile.



  13. .


    RIO 2016: IN ACQUA COME PROIETTILI
    I TUFFATORI VISTI DAL FONDO VASCA




    Lo spettacolo dei tuffi dal trampolino di dieci metri non si limita ai volteggi spettacolari ma prosegue anche in vasca...

    L'obiettivo dei fotografi ha catturato l'entrata in vasca degli atleti. Una prospettiva diversa che racconta una disciplina affascinante.























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    #SYNCHRONIZEDSWIMMING
    RIO 2016: LO STUPORE PER LE SIRENE IN PISCINA


    Su Twitter e Instagram l'hashtag #synchronizedswimming è diventato un modo per condividere stupore e ammirazione verso le atlete più incredibili di Rio2016. Sì, perché mentre gli exploit di nuoto, tuffi, pallanuoto vengono celebrati e compresi da tutti, quelli delle sirenette della vasca, come spesso vengono soprannominate, rimangono per molti incomprensibili. "Sono davvero umane?" si chiedono spettatori e giornalisti che restano a bocca aperta davanti alle performance di queste atlete. Inarrivabile il Team Russo ma ottimo anche il Team Italia che riesce sempre a dare uno spettacolo di alto livello ed eleganza con Costanza Ferro e Linda Cerruti, che dopo il duo femminile si sono riunite a Beatrice Callegari, Francesca Deidda, Mariangela Perupato, Manila Flamini, Camilla Cattaneo, Elisa Bozzo e Sara Sgarzi per le gare a squadre. Queste atlete sfidano le leggi della natura riuscendo a compiere movimenti complicati restando sott'acqua per tempi lunghissimi che superano quelli all'aria aperta. E il tutto rispettando una "storia" per il loro balletto (temi ptradizionali per le giapponesi, una città frenetica per le russe, ma c'è anche chi si ispira al mondo gypsy o al rock'n'roll come le brasiliane), mantenendo un look e un trucco impeccabili. Insomma tanti elementi da tenere insieme per ottenere un buon piazzamento e che non fanno che rendere ancora più impressionante le loro fantastiche gare.

    Ecco alcuni dei momenti delle gare di Rio 2016



    Giappone



    Russia




    Giappone




    Italia




    Russia




    Cina




    Cina




    Egitto




    Ucraina




    Egitto




    Ucraina




    Ucraina




    Italia team a Rio 2016: Bozzo, Cattaneo, Deidda, Perrupato, Callegari, Cerruti, Flamini, Sgarzi, Ferro




    Australia




    Ucraina




    Italia




    Italia




    Cina




    Australia

  15. .


    JUVENTUS-FIORENTINA 2-1
    HIGUAIN SEGNA AL DEBUTTO E DECIDE


    Apre Khedira sul finire del primo tempo, nella ripresa Kalinic illude Sousa: la risolve l'argentino arrivato dal Napoli


    "Una palla un gol”.

    Gonzalo Higuain è molto più di questo. Il suo senso del gol va oltre al dibattito sul peso. L'argentino non sarà attualmente pronto per la copertina di un Magazine sul Fitness, ma ci mette 9’ per segnare il primo gol bianconero. Alla prima palla toccata. Lui che all’esordio non segna mai, dicevano. Ma il 2-1 con cui la Juventus batte la Fiorentina e conquista la prima vittoria stagionale nasconde segnali preoccupanti per la concorrenza. Di sicuro c'è un concorso di colpa viola nel dominio della Juventus, ma la qualità bianconera, orfana inizialmente di Pjanic e Higuain, scende sulla partita minuto dopo minuto. A gocce costanti, modello fronte di Vincenzo Nibali mentre scala lo Zoncolan. Massimiliano Allegri a fine partita si lagnerà certamente per i troppi gol sbagliati: l’1-0 con cui si chiudono i primi 45’ non è un inno alla concretezza della Juve. Che infatti, preso gol sull’unica iniziativa Viola, deve affidarsi alla gemma del Pipita per evitare un pari che sarebbe stato molto ingiusto.

    CLICCA E GUARDA GLI HIGHLIGHTS


    Il Conte Max sceglie Lemina play e le due locomotive brasiliane sulle fasce. Paulo Dybala arretra più spesso del solito a raccordare, per dare l’imprevedibilità che il francese non può dare. Ma è l’approccio della Juventus a impressionare, opposto a quello mediocre della prima di un anno fa con l’Udinese. Squadra alta, i due brasiliani che vivono sulla trequarti e la Fiorentina che non riesce a stare dietro ai bianconeri. Sia fisicamente che sul piano della qualità. Il tremebondo Tatarusanu regala subito palla a Khedira, che alza da due passi. Massa e l’addizionale non giudicano il tocco col braccio di Astori volontario: niente rigore. Alves regala qualità a destra, Khedira va a ritmi precampionato ma ha un’intelligenza calcistica che andrebbe dichiarata alla dogana da quanto è ingombrante. La sblocca proprio il tedesco di testa, su insospettabile pennellata mancina di Giorgio Chiellini. Il primo tempo Viola è rock, ma nel senso che ricorda un duo musicale, gli Zero Assoluto. Zero tiri in porta. Zero angoli. Zero iniziative. Il nulla. La Juventus cala dopo 45’ super. E’ difficile vedere le squadre di Allegri dominare per 90’, a maggior ragione il 20 agosto. I bianconeri gestiscono, mentre Paulo Sousa inserisce Tello per un decoroso Federico Chiesa con Bernardeschi che va centrale. Il pareggio della Fiorentina, piuttosto inatteso, nasce da una doppia sciocchezza di un fin lì positivo Alex Sandro. L’ex Porto va prima a vuoto su Tello: da lì nasce il corner battuto da Ilicic per la testa di Kalinic, che salta in testa ancora al brasiliano e beffa Gianluigi Buffon. Bel problema per Max Allegri: la Juve non sembra avere più molta benzina. Il Pipita però, pur senza l’addominale tartarugato da mostrare ai tifosi, avrà sempre un rapporto gemellare col gol. Asamoah (tra i migliori in campo) pesca ancora Khedira in mezzo all’area. E sulla conclusione sporcata del tedesco Gonzalo Higuain gioca a “Ok il posto è giusto” come solo gli eletti del gol sanno fare. Tocco di sinistro, gol.

    JUVENTUS-FIORENTINA 2-1
    (primo tempo 1-0)

    MARCATORI: Khedira (J) al 37' p.t.; Kalinic (F) al 25', Higuain (J) al 30' s.t.

    JUVENTUS (3-5-2): Buffon; Barzagli, Bonucci, Chiellini; Dani Alves, Khedira (dal 43’ st Hernanes), Lemina, Asamoah, Alex Sandro; Dybala (dal 40’ st Evra), Mandzukic (dal 21’ st Higuain). (Neto, Audero, Benatia, Rugani, Lichtsteiner, Marrone, Pjanic, Zaza, Pjaca). All. Allegri.

    FIORENTINA (3-4-2-1): Tatarusanu; Tomovic, G. Rodriguez, Astori; Bernardeschi, Vecino, Badelj (dal 20’ st C. Sanchez), Alonso; Ilicic (dal 35’ st G. Rossi), F. Chiesa (dal 1’st Tello); Kalinic. (Lezzerini, Dragowski, De Maio, Zarate, M. Fernandez, Diks, I. Hagi, Babacar, Milic). All. Sousa.

    ARBITRO: Massa di Imperia.

    NOTE: spettatori 40.184, incasso di 1.920.619 euro. Ammoniti Kalinic (F), Vecino (F), Barzagli (J), Tomovic (F). Recuperi: 1’pt, 5’st.

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