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    METAFORISMI E PSICOPROVERBI
    Alejandro Jodorowsky


    Jodorowsky ci regala pillole di saggezza e di sentimento, per allontanare i cattivi pensieri, correggere posture mentali distorte, cominciare la giornata con una carica di ottimismo. E lo fa interagendo con i suoi lettori, in un dialogo continuo, come spiega nella sua introduzione: “La letteratura da eremiti narcisisti giace nel mausoleo del Ventesimo secolo. Adesso la letteratura, e specialmente la poesia, nascono dalla collaborazione stretta fra lo scrittore e i suoi lettori: insieme creano l’opera. Si connettono con te, ti seguono, ti rispondono ma se quello che dici non è quello che vogliono sentirsi dire, ti chiudono la bocca con un unfollow e ti abbandonano. Te li devi guadagnare giorno per giorno, devi sorprenderli, convincerli, coccolarli, accarezzarli. Tu sei la barca che li traghetta, navigando sull’oscuro mare dell’inconscio per arrivare alla Coscienza”. Nella parte finale, una serie di domande da parte dei suoi lettori e follower, cui risponde dando anche suggerimenti di psicomagia.


    Genere:esoterismo
    Listino:€ 13,00
    Editore:Feltrinelli
    Data uscita:12/01/2017
    Pagine:144

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    RUM, SODOMY AND THE LASH
    Pogues


    1985 (Stiff)


    Attitudine punk e atmosfere alticce da pub per un classico del folk-rock

    Ancora una volta è il punk a farla da padrone, non certo nelle melodie o nella strumentazione, quanto nell'attitudine nello spirito, nel riportare nelle nostre case e nelle nostre orecchie un genere che si credeva ormai perso nelle brume professorali e un poco noiose dei club per pochi intimi, più attenti alla forma che allo spirito delle canzoni, la musica folk. I Pogues nascono all'inizio degli anni '80 (come Pogue Ma Hone che in lingua gaelica suona più o meno come "baciami il culo" e che sarà accorciato quando i nostri firmeranno con la Stiff) su iniziativa di Shane MacGowan, personaggio scorbutico, ribelle, brutto come la fame in India (non si possiede una sua foto che lo mostri sorridere con la sua dentatura completa), che dopo diverse esperienze in band punk nei Seventies (quelle da un singolo, qualche gig e via), esperienze piuttosto fallimentari, e spinto dalla necessità comunque di campare, pagarsi il whiskey, un poco di cibo e, se ne avanza, qualche sostanza illegale, decide di mettere su un gruppo in grado di suonare quantomeno nei pub, di fronte a un tipo di pubblico sempre poco attento alla forma quanto alla sostanza di ciò che gli viene proposto (come quello punk), comunque più numeroso e ben disposto del precedente. Dopo un periodo di rodaggio nei pub di Londra e in veste di busker per le strade del Regno Unito tutto (con anche qualche puntatina in Francia), il nostro e i suoi sodali (Jem Finer al banjo e Spider Stacey al tin whistle, cui poi si aggiungeranno il batterista Andrew Ranken e il polistrumentista James Fearnley), confortati dalla risposta del pubblico alla propria ricetta che mostra country, rockabilly, ska e reggae filtrati nell'ottica della ripresa folk, decidono di ritentare la strada del professionismo musicale, reclutando all'uopo la bassista Cait O' Riordan.


    "Rum, Sodomy And The Lash" è il loro secondo disco, quello della maturità artistica. Dopo aver dimostrato con il primo "Red Roses For Me" (1984) di essere in grado di manipolare la materia folk ben al di là della rivitalizzazione dei classici infondendogli con l'attitudine punk che li guida nuova linfa vitale, con questo secondo lavoro i Pogues trovano con il proprio suono, abile mix di strumentazione acustica e ritmi forsennati e alcolici (pilotato da un Elvis Costello in stato di grazia in cabina di produzione e grazie anche all'inserimento nella line up del veterano Philip Chevron), e con la penna di MacGowan la ricetta per la definitiva consacrazione tra i grandi della folk music (sfido chiunque a saper distinguere tra "The Sick Bed Of Cuchulainn" e "I'm A Man You Don't Meet Everyday" quale sia il traditional e quale sia stata scritta per l'occasione), dando voce a quella massa di "beautiful losers" che prima di lui solo il Tom Waits che cercava il cuore del sabato notte e lo Springsteen che si agitava nell'oscurità ai margini della città erano riusciti a rendere protagonisti in un ambito più propriamente pop-rock. "Sally MacLennane", "A Pair Of Brown Eyes" riaggiornano quell'epica quotidiana di cui tutti abbiamo bisogno per vivere, se non altro per esorcizzare i nostri demoni, ma meglio per celebrare la nostra sfida quotidiana con la vita (proprio come con i biglietti d'auguri natalizi delle puttane di Minneapolis del signor Waits), che la dimensione elettrica ed elettronica del sound wave allora imperante aveva di fatto oscurato. Se agli originali scritti da MacGowan aggiungete una serie di traditional o cover perfettamente in tema quali "Dirty Old Town" di Ewan McColl (da alcuni giudicata una delle più belle folk song della seconda metà del secolo scorso) o la "Waltzing Mathilda" di Eric Bogle riproposta in una versione meravigliosa con un'interpretazione di MacGowan superba che sa far rivivere tutta la desolazione e l'angoscia di quei ragazzi australiani mandati al massacro durante la prima guerra mondiale, aggiungete la gioia danzereccia degli strumentali che punteggiano il disco ("Wild Cats Of Kilkenny" su tutti) o "A Pistol For Paddy Garcia", che dimostra come i nostri sappiano metabolizzare anche elementi "spuri" come il country o il folk americano nella loro ricetta, otterrete un disco quasi perfetto nel suo tenersi in equilibrio tra passato e presente, nel suo tener ben salde le radici della propria storia e nel saper spiegare le proprie ali al di sopra delle contingenze stilistiche per arrivare a essere un classico. (Fonte: Ondarock)



    Rum, Sodomy & the Lash

    Pubblicazione - 1985
    Durata - 45 min : 25 s
    Tracce - 12
    Genere - Folk punk
    Etichetta - MCA Records
    Stiff Records
    WEA International
    Produttore - Philip Chevron, Elvis Costello


    Tracce

    The Sick Bed of Cuchulainn - 2:59 (MacGowan)
    The Old Main Drag - 3:19 (MacGowan)
    Wild Cats of Kilkenny - 2:48 (strumentale; l'autore del brano non compare sul disco)
    I'm a Man You Don't Meet Every Day - 2:55 (trad. arr. dai Pogues)
    A Pair of Brown Eyes - 4:54 (MacGowan)
    Sally Maclenanne - 2:43 (MacGowan)
    Dirty Old Town - 3:45 (Ewan MacColl)
    Jesse James - 2:58 (trad. arr. dai Pogues)
    Navigator - 4:12 (P. Gaston)
    Billy's Bones - 2:02 (MacGowan)
    The Gentleman Soldier - 2:04 (trad. arr. dai Pogues)
    And the Band Played Waltzing Mathilda - 8:10 (Eric Bogle)

    Tracce Bonus

    Nel 2004 è stata pubblicata una versione dell'album rimasterizzata e ampliata con 6 bonus tracks

    "A Pistol for Paddy Garcia" – 2:31* (Finer) dedicata a Paddy Garcia
    "London Girl" – 3:05** (MacGowan)
    "Rainy Night in Soho" – 5:36** (Fearnley Finer, MacColl, MacGowan, O'Riordan, Ranken)
    "Body of an American" – 4:49** (MacGowan)
    "Planxty Noel Hill" – 3:12** (Finer)
    "The Parting Glass" – 2:14 (traditional)

    *Questa traccia era stata pubblicata nella versione originale in audiocassetta


    Formazione

    Shane MacGowan
    Jeremy "Jem" Finer
    James Fearnley
    Cait O'Riordan
    Andrew Ranken
    Spider Stacey
    Philip Chevron

    Figurano tra gli ospiti:

    Tommy Keane (uillean pipes)
    Henry Benagh (violino)
    Dick Cuthell (corno)
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    VAL D'ISERE - COMBINATA FEMMINILE
    GOGGIA NON SMETTE DI STUPIRE: TERZA


    L’azzurra continua a mietere podi in Coppa: ha conquistato il terzo posto nella combinata di Val d’Isere


    La bergamasca Sofia Goggia non si ferma più. A Val D’Isère, nella combinata che ha aperto il weekend di Coppa del Mondo femminile, la bergamasca si è piazzata terza, alle spalle della slovena Ilka Stuhec e della svizzera Michelle Gisin. Per l’azzurra è il quinto podio stagionale, ottenuto nelle ultime cinque gare disputate e in quattro specialità diverse: gigante, superG, discesa e ora combinata. I sessanta punti di oggi portano Sofia Goggia al secondo posto nella classifica generale, davanti alla detentrice, la svizzera Lara Gut, che è uscita in slalom. “Sto solo cercando di sciare meglio che posso, gara dopo gara - si schernisce l’azzurra a chi le fa notare la posizione nella “overall” -, al resto non penso. Cerco di non accontentarmi di essere felice per qualcosa, ma di volere qualcosa in più, sempre. Per lo slalom ero in ansia, perché uscire dal cancelletto in gara è diverso da farlo in allenamento. Ho cercato di prendere il ritmo e di tenerlo, ma non credo che sia il mio miglior slalom di sempre: due anni fa, in Coppa Europa, avevo fatto alcune buone manche”. Sofia Goggia era quarta dopo la prova di discesa, disputata in mattinata sulla “Oreiller-Killy”. Davanti a lei c’erano la statunitense Ross e l’austriaca Huetter, due velociste che le sarebbero finite dietro in slalom, mentre la slovena Ilka Stuhec, alla terza vittoria in carriera dopo il doppio trionfo nelle discese di Lake Louise, è riuscita a tenerla dietro di sedici centesimi. Quattro, invece, i centesimi che hanno separato la bergamasca dalla ventitreenne Michelle Gisin, sorella minore di Dominique, al primo podio in carriera. Tra le altre azzurre, sesto posto di Federica Brignone, positiva in discesa e un po’ “trattenuta” in slalom. “Volevo arrivare giù davanti, volevo vedere verde, ma non sono riuscita a cambiare ritmo. Lo sentivo, eppure non ce la facevo. In allenamento comunque mi sento bene, in gigante ho messo a posto alcune cose. E’ come se in gara facessi più fatica, devo solo sbloccarmi”. Tra le altre azzurre, quindiesima Johanna Schnarf, sesta dopo la discesa (”Sotto sono stata un po’ troppo passiva. Peccato, di solito in combinata non vado sotto le prime dieci”); trentesima Nicole Delago (era ottima nona dopo la discesa) e trentacinquesima Anna Hofer, mentre Marta Bassino ed Elena Curtoni sono uscite senza conseguenze in discesa e Marsaglia ha sbagliato in slalom.



    Edited by Lottovolante - 17/12/2016, 09:45
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    VAL D'ISERE - GIGANTE
    FAIVRE BEFFA HIRSCHER


    Trionfo di casa con 4 francesi nei primi cinque. De Aliprandini sesto


    In Val d’Isere, nel recupero delle gare annullate a Beaver Creek, sin dalla prima manche è stato Hirscher contro i francesi e i padroni di casa hanno messo in difficoltà il leader delle ultime cinque coppe del Mondo fino alla fine. Trionfa Faivre, che nella seconda manche è riuscito a rifilare mezzo secondo a Hirscher e a chiudere in 2’25”01, 49/100 meglio dell’austriaco. E dietro a lui è una sinfonia francese: terzo è Pinturault (a 1”11), poi Fanara (a 1”52) e Muffat Jeandet (a 1”80). L’Italia del gigante dà forti segnali di ripresa, con le linee verdi. De Aliprandini, dodicesimo dopo la prima manche, è partito all’attacco senza temere i segni sulla pista e ha chiuso quinto (a 2”13, partiva con il pettorale numero 24). Per lui è un altro passo avanti dopo il decimo posto di Soelden. Tonetti, che partiva con il quinto tempo della prima manche, ha pagato un finale poco brillante ed è alla fine decimo (a 2”58). Ci sono altri due azzurri nei trenta: Eisath alla fine è 20°, Moelgg 25°. Paris ha fallito la qualificazione per la seconda manche di due decimi. Più dietro Nani, Borsotti (al rientro dopo l’infortunio di dicembre 2015, ha dichiarato che questa sarà l’unica gara della stagione) e Casse. La rimonta della seconda manche premia il figlio d’arte Eric Read (figlio di Ken, leader dei Crazy Canucks), partito con il 52, è risalito dal 24° della prima alla nona.

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    YOU WANT IT DARKER
    Leonard Cohen


    2016 (Columbia)


    L'addio al maestro canadese, attraverso il suo ultimo classico

    Tutti attendiamo il momento in cui potremo abdicare, svestirci di questi abiti da re, abbandonare il trono di queste vite.
    Nessuno vuole le vesti del re. Tutti vogliamo essere nudi l’un l’altro, perché è il modo migliore per dare sé stessi.

    (Leonard Cohen, 1992)

    Hinneni, hinneni...

    Parole antiche, parole che vengono da lontano. Dalle labbra di Abramo, dai rotoli della Torah. Da una voce arrochita dalle stagioni, scavata dal mestiere di vivere. Quando non aveva ancora quarant’anni, Leonard Cohen aveva raccontato il sacrificio di Isacco attraverso gli occhi del figlio, della vittima predestinata. “Story Of Isaac”, si intitolava quella canzone, e aveva l’aspetto di una profezia della violenza dei tempi. Sulla soglia del grande mistero, il suo sguardo è diventato quello di Abramo. Quello del padre che affida completamente sé stesso: hinneni, eccomi. Consonanze del destino: proprio intorno a quella parola, un altro autore ha costruito negli stessi mesi il suo affresco letterario più ambizioso. Di Cohen potrebbe essere il figlio, eppure sarebbe difficile immaginare una sintonia più profonda. Nel suo “Eccomi”, Jonathan Safran Foer parla di essere padri e di essere figli, di appartenere a un popolo e di appartenere a una famiglia. E, al centro di tutto, c’è sempre la risposta di Abramo. “Non dice: ‘Che cosa vuoi?’. Non dice: ‘Sì?’. Risponde con una dichiarazione: ‘Eccomi’. Qualunque cosa Dio voglia, Abramo è completamente presente per lui, senza condizioni o riserve o necessità di spiegazioni”. “I’m ready, my Lord”, mormora Cohen nel primo brano del suo ultimo disco. In una grigia mattina d’autunno, quel sussurro è diventato un addio. La verità della notizia che gli occhi fissano increduli su uno schermo. Ma non gli si renderebbe giustizia, a considerare quelle parole solo come un commiato. Dire “Eccomi” è molto di più, ci ricorda Safran Foer: è ciò che più di tutto definisce la nostra identità. È essere completamente presenti di fronte alla realtà, anche quando la sua domanda sfugge alla comprensione. Perché “non puoi impedire alle cose di succedere, puoi però solamente scegliere di non esserci.”.


    Leonard Cohen ha scelto di esserci fino alla fine. Il soggiorno, nella sua casa di Los Angeles, si è riempito di chitarre acustiche, tastiere, laptop. E, al centro, un vecchio microfono Neumann, per raccogliere ogni respiro del vecchio maestro. Sveglia alle prime luci dell’alba, lavoro senza distrazioni. Il conforto dello spirito, la fatica del corpo. Già all’epoca di “Popular Problems” aveva una raccolta di nuove canzoni nel cassetto. Ci ha lavorato intensamente per un anno insieme a Patrick Leonard, poi le sue condizioni hanno avuto un improvviso peggioramento. “La situazione era buia, la sofferenza acuta, il progetto era abbandonato”, ricordano le note del nuovo disco. Ed è allora che gli si è fatto vicino il figlio Adam. Non avevano mai lavorato insieme: troppo ingombrante l’ombra di un padre del genere, per un figlio deciso a seguire le sue orme lungo il sentiero impervio del cantautorato. Ma stavolta le cose erano diverse. “Ha capito che il mio recupero, se non la mia stessa sopravvivenza, dipendevano dalla possibilità di rimettermi al lavoro”. Quando aveva 17 anni, Adam era rimasto per mesi in coma dopo un terribile incidente stradale. Il padre trascorreva le giornate accanto al suo letto, leggendogli versetti della Bibbia. La vita a volte gioca a invertire i ruoli: “Adam ha preso in mano il progetto, mi ha sistemato su una poltrona ortopedica per permettermi di cantare e ha portato a termine queste canzoni incompiute”. Il brano chiamato a dare il titolo al quattordicesimo album di Cohen, “You Want It Darker”, comincia con le voci di un coro. Non il consueto controcanto femminile, ma il coro della congregazione Shaar Hashomayim, la più antica sinagoga aschenazita del Canada. La sinagoga della sua famiglia. Ed ecco il groove pulsante del basso stendere il tappeto per quell’inconfondibile baritono. Viene da terre d’ombra e solitudine, viene da tempi di silenzio e desiderio. Ci sono prigionieri condotti all’esecuzione, c’è una fiamma lasciata spegnere nella notte. Le angosce di una vita sembrano nulla di fronte al travaglio del mondo: “I struggled with some demons/ They were middle-class and tame”. Il domani oscuro di “The Future”, ormai, è diventato il presente. Ma da dove viene il male che avvelena la storia, se non dagli abissi del cuore dell’uomo? “If thine is the glory/ Then mine must be the shame”. Le voci della sinagoga intonano insieme a lui l’inizio del Kaddish: “Magnified and sanctified/ Be Thy Holy Name”. La preghiera della lode, la preghiera del lutto. Un inno funebre a sé stesso, o forse all’umanità. “I’m ready, my Lord”. Occorreva l’amore di un figlio, per restituire a Cohen il rigore del classico. E che “You Want It Darker” sia destinato a occupare il posto di un classico lo si capisce già dall’essenzialità della copertina, da quel gioco di contrasti in bianco e nero che chiama in causa direttamente il passato. Il capitolo finale di una trilogia che lascia da parte i residui orpelli di “Popular Problems”, per raggiungere una sobrietà ancora più misurata di quella di “Old Ideas”. L’unica cornice davvero consona alla voce di Cohen: “I miei arrangiamenti devono contenere qualcosa di sbagliato, essere indifesi, sconfitti, a pezzi, semplici, umili. Altrimenti sono io a non trovare più posto, a non riuscire a respirare”. Dal pianoforte di “Treaty” si leva un fremere di archi che anticipa la ripresa orchestrale posta in chiusura del disco. “I wish there was a treaty/ Between your love and mine”, invoca Cohen. Non con la rassegnazione del compromesso, ma con la sofferta consapevolezza dell’irriducibilità dell’altro a qualsiasi conquista. La collaborazione con Patrick Leonard lascia in eredità i tratti musicali più elaborati, dall’organo che introduce il gospel in chiaroscuro di “If I Didn't Have Your Love” al lirismo gitano di “It Seemed The Better Way”, mentre l’unico episodio firmato insieme a Sharon Robinson, “On The Level”, contribuisce ad alleviare la trama dell’album con le sue tonalità soul. È un disco fatto di congedi, “You Want It Darker”. Impossibile ascoltarlo prescindendo dal fatto che contiene le ultime parole di Leonard Cohen. Impossibile soprattutto perché non c’è verso che non sia permeato dall’intima consapevolezza della fine. È il testamento di un uomo pronto a fare un passo indietro rispetto al trasporto della passione (“I turned my back on the devil/ Turned my back on the angel too”, confessa in “On The Level”), un passo indietro rispetto alla battaglia quotidiana (“I do not care who takes this bloody hill”, proclama in “Treaty”). Un passo indietro per contemplare finalmente il disegno delle cose, non per rinunciare a possederle. Tra nostalgici riverberi twang e ricami di pedal steel, “Leaving The Table” lo riassume con la semplice forza di un’immagine (“I’m leaving the table/ I’m out of the game”), mentre Cohen si ritrova a osservare con distacco il gioco della commedia umana. Uno dopo l’altro, cadono tutti i fardelli inutili. Ombre di donna e rovine di centri commerciali, cicatrici di ferite e certezze consumate. Sulle partiture da camera di “Steer Your Way”, il vecchio chansonnier le attraversa come se fossero vestigia di un altro tempo, di un’altra vita. “Year by year/ Month by month/ Day by day/ Thought by thought”. A restare, più di tutto, è il bisogno di portare a compimento ciò che si è iniziato. Ed è proprio questa, in fondo, l’essenza di “You Want It Darker”. “I’m traveling light/ It’s au revoir”. Il viaggio è lungo, il bagaglio leggero. Il coro di “Traveling Light” risuona come il canto lontano delle donne di uno shtetl, come la memoria di una danza klezmer sulle corde del violino, una “Dance Me To The End Of Love” offerta in dono a Matt Elliott. Nella valigia resta solo l’indispensabile, mentre quel crooning grave come il tempo declama l’ultimo arrivederci. Poche settimane prima dell’addio, Cohen ha confidato a David Remnick del New Yorker i versi su cui stava ancora lavorando. A occhi chiusi, in un sussurro. “Listen to the mind of God, wich doesn’t need to be”. La tradizione ebraica la chiama bat kol, la voce dal cielo: “Un’altra realtà che canta sempre al tuo orecchio dal profondo, anche se per la maggior parte del tempo non sei grado di decifrarla”. A volte, esserci non significa altro che ascoltare. E non c’è voce più grande di quella di chi ha imparato ad ascoltare. “Listen to the mind of God/ Don’t listen to me”. (Fonte recensione:Ondarock)

    Tracklist

    You Want It Darker
    Treaty
    On The Level
    Leaving The Table
    If I Didn't Have Your Love
    Traveling Light
    It Seemed The Better Way
    Steer Your Way
    String Reprise / Treaty

  6. .


    GRAN PREMIO DEGLI STATI UNITI
    AUSTIN 2016


    Comanda Rosberg. Ferrari, Vettel 4° e Kimi 10°


    SECONDE LIBERE

    Ha lasciato prima sessione al compagno di scuderia Lewis Hamilton e nella seconda si è preso la scena. Nico Rosberg davanti a tutti al termine della prima giornata di prove libere del GP degli Usa. Firmato nella seconda sessione il miglior tempo della giornata in 1'37"358 del tedesco della Mercedes davanti all'ottima Red Bull dell'asutraliano Daniel Ricciardo, staccato di un paio di decimi. Terzo crono per l'altra Freccia d'argento di Lewis Hamilton. Quarto tempo per la prima Ferrari, quella di Sebastian Vettel che ha preceduto Max Verstappen e Nico Hulkenberg. Kimi Raikkonen ha chiuso 10°. Sebastian Vettel è anche finito sotto investigazione per ingresso irregolare in corsia box: per lui solo una reprimenda (però la prima della sua stagione).


    PRIME LIBERE

    Nella prima sessione erano stati Hamilton e Rosberg a scatenarsi. La coppia della Mercedes aveva chiuso in cima alla lista dei tempi della prima ora e mezza di lavoro. Lewis ha realizzato il miglior tempo in 1'37"428 davanti al leader iridato, staccato di 315 millesimi. Quest'ultimo corre con la quinta unità motrice e ha cambiato anche turbo, MGU-H e MGU-K. Primo degli inseguitori e Max Verstappen con la Red Bull, staccato di 1"9, lo stesso distacco della prima Ferrari, quella di Raikkonen quarto davanti al tedesco Nico Hulkenberg, Valtteri Bottas su Williams e Daniel Ricciardo con la seconda Red Bull. Vettel con la seconda Ferrari ha chiuso ottavo a 2"5 da Lewis Hamilton. Per il tedesco piccolo inconveniente nel salire su un cordolo: il tedesco ha perso un flap che ha divelto lo specchietto anteriore destro e costretto il quattro volte iridato a rientrare ai box tenendolo fermo con la mano sinistra. Primo degli inseguitori e Max Verstappen con la Red Bull, staccato di 1"9, lo stesso distacco della prima Ferrari, quella di Kimi Raikkonen che è quarto davanti al tedesco Nico Hulkenberg, Valtteri Bottas su Williams e Daniel Ricciardo con la seconda Red Bull. Sebastian Vettel con la seconda Ferrari ha chiuso ottavo a 2"5 da Lewis Hamilton. Per il pilota tedesco piccolo inconveniente nel salire su un cordolo: il tedesco ha perso un flap che ha divelto lo specchietto anteriore destro e costretto il quattro volte iridato a rientrare ai box tenendolo fermo con la mano sinistra.

    PRIME LIBERE [VIDEO]

  7. .


    SCI ALPINO
    RIPARTE IL CIRCO BIANCO


    Brignone guida la pattuglia azzurra


    I soliti formidabili mostri e l'attesa di qualche sorpresa. La coppa del mondo di sci riparte nel weekend dalla casa della neve, dall'Austria, con il gigante femminile domani e maschile (domenica) a Soelden. Un'apertura di stagione che è anche il primo raccoglitore di indizi per l'anno che verrà: a febbraio (6-19) ci saranno i mondiali a St.Moritz. Il cammino è lungo e freddo verso la Svizzera e dopo l'opening il circo bianco va in pausa per quasi in mese fino alle prove in nord America. Eppure, gli sci vanno scaldati subito. Sul ghiacciaio austriaco di Rettenbach si parte con varie assenze importanti: l'americana Lindsey Vonn e l'austriaca Anna Fenninger, il norvegese Aksel Lund Svindal e l'austriaco Matthias Mayer. Nella nostalgia ormai definitiva di Tina Maze: la slovena, 33 anni, dopo l'anno sabbatico preso lo scorso anno, ha annunciato il ritiro definitivo proprio in Austria dopo una coppa generale vinta nel 2013 con 11 successi e record di punti (2414, battuto il primato stabilito nel 2000 con 2000 punti da Hermann Mayer), dopo due ori olimpici (a Sochi 2014 in discesa e gigante) e 4 titoli mondiali (gigante 2011, super-G 2013 discesa e combinata '15). Commenterà la storia in tv.


    In casa Italia, la novità Dominik Paris. Il velocista della Val d'Ultimo, 27 anni, affronta la sua terza gara in carriera tra i pali larghi. Gli farà da guida Manfred Moelgg di Brunico, 34 anni, alla sua undicesima volta a Soelden (con un 2° posto nel 2012), ormai un veterano della nazionale dopo il ritiro l'anno scorso di Massimiliano Blardone (anche per lui sul Rattenbach un 2° posto nel lontanissimo 2004). Squadra interessante quella azzurra, con l'inserimento di un classe '95 come Tommaso Sala, lecchese: per lui è una prima assoluta in Austria e terzo gigante in coppa (gli altri due ad Hinterstoder senza mai entrare nei trenta). Ci riprova invece Roberto Nani, 27 anni, l'anno scorso quarto in apertura delle danze invernali. Tutti contro il vincitore delle ultime cinque edizioni della Coppa, il 27enne austriaco Marcel Hirscher, l'insaziabile che ha firmato anche 3 coppette di gigante (e 3 di slalom). Proveranno soprattutto il francese Alexis Pinturault e lo statunitense Ted Ligety a dominare le porte larghe. L'Italia non ha mai vinto al maschile a Soelden, invece con le donne altro che: l'anno scorso Federica Brignone ha rotto il tabù vincendo proprio qui per la prima volta in carriera. Prima di lei, solo Denise Karbon nel 2007 e 2009 ci era riuscita. Brignone, 26 anni, l'anno scorso ha chiuso ottava nella classifica generale e punta anche quest'anno in alto, affiancando al gigante il Superg dove nella passata stagione ha anche vinto (a Soldeu). Fede sarà al cancelletto con Nadia Fanchini, Marta Bassino, Irene Curtoni, Sofia Goggia, Francesca Marsaglia, Manuela Moelgg, Elena Curtoni e anche la 19enne Laura Pirovano nonostante l'infortunio rimediato ieri (è caduta riportando un leggero trauma distorsivo con contusione al ginocchio sinistro). Laura, trentina, è all'esordio anche lei sul Rettenbach e al suo secondo pettorale nel massimo circuito. Arriva tra le grandi dopo una grande stagione in Coppa Europa dove ha centrato una vittoria in gigante e il terzo posto nella classifica generale. Squadra ambiziosa quella delle ragazze giganti, già l'anno scorso molto competitive. Veterane e nuove leve, a parte Pirovano c'è da tenere d'occhio Marta Bassino, 20 anni, piemontese, talentuosissima in cerca di maturità e continuità e Sofia Goggia, 23 anni, la brillantissima bergamasca che si sta spostando sulla polivalenza. Una giungla, le avversarie delle azzurre. Il trofeo di specialità è dell'austriaca Eva-Maria Brem (alla svizzera Lara Gut l'anno scorso la coppa generale) ma l'americana Mikaela Shiffrin, 21 anni, slalomista, punta a fare la strepitosa anche tra le porte larghe per poi mirare dritto alla sfera di cristallo. Lindsey Vonn permettendo: l'americana, 32 anni, non ci sarà a Soelden per rientrare in gara in casa in nord America (così come Anna Fenninger, diventata Veith dopo il matrimonio, fuori per tutta la scorsa stagione dopo un grave infortunio proprio nel gigante 2015 sul Rettenbach). Dopo l'ennesimo infortunio rimediato sul finire della stagione passata, Lindsey ha bisogno di altro tempo per recuperare. Scrive libri e gira fiction sulla sua vita (un kolossal). La superwoman delle nevi è a 76 successi in coppa, mai nessuna come lei e più di lei solo un lui: la leggenda Ingemar Stenmark (86). C'è tempo per esagerare. E se ancora non c'è, Lindsey Vonn c'è sempre.
  8. .


    SORCERESS
    Opeth


    2016 (Nuclear Blast)


    L'atteso ritorno della band svedese, tra nostalgie prog e nuove ambizioni

    "Sorceress", l'atteso ultimo album degli Opeth, è stato anticipato da un dilemma: come riuscire a rinnovare la propria verve creativa ed emotiva in questa loro ultima direzione musicale, pericolosamente ai confini di un revival derivativo del progressive storico, senza però tornare a quel prog-death-metal ormai lontano dalle aspirazioni (e dall'ispirazione) di Mikael Åkerfeldt e soci? Come restituire freschezza a quelle sonorità degli anni 70 senza sembrare eccessivamente nostalgici? Ci sono formazioni che negli stessi anni sono riuscite nell'impresa assimilando e rinnovando nel proprio stile sia l'hard-rock più bluesy sia lo stesso progressive (come per esempio i Mastodon, rispettivamente con "The Hunter" e "Once More 'Round The Sun", pur ricchi di omaggi al decennio 70). Tuttavia, nel caso degli Opeth, il responso è stato meno apprezzato e ha diviso il pubblico e la stampa specializzata. Sì, da un lato "Heritage" e "Pale Communion" mostravano la consueta cura certosina negli arrangiamenti, una maturata esperienza compositiva, e soprattutto avevano il merito di stupire con una decisa voglia di cambiare rotta, per quanto in parte "annunciata" tra le righe. Lo stesso Åkerfeldt, in un'intervista a Drowned In Sound, ha replicato alle critiche sostenendo "meglio essere considerati inconsistenti piuttosto che monotoni". Ma d'altra parte è innegabile una certa dose di manierismo e ripetitività, al punto che in certi casi quasi non sembrava di ascoltare gli Opeth con il loro personale marchio di fabbrica. Le loro atmosfere drammatiche, il loro pathos svanivano tra arabeschi esagerati e veli psichedelici troppo autoindulgenti.


    "Sorceress" probabilmente non entusiasmerà chi auspicava un passo indietro che rimarcasse l'identità del gruppo, ma pone in parte rimedio ai difetti sopraelencati, pur senza rinunciare all'impostazione di base ormai consolidata. Il disco piuttosto rielabora il modo di esprimerla e ne puntella i dettagli. Possiamo definirlo un album in parte "semplificato" (nel senso di meno virtuoso) rispetto ai due predecessori: minutaggio più contenuto, un piglio più "riff-centrico" in molti brani ai limiti dell'hard-prog, un accorto equilibrio fra melodie acustiche e distorsioni incalzanti che in certi momenti sfiora lidi più folk, atmosfere più corpose e ispirate, virtuosismi più dosati, lontani dagli eccessi del precedente album. Le somiglianze con gruppi come Camel, King Crimson, ELP e Jethro Tull si percepiscono in maniera palpabile lungo l'ascolto, ma questo capitolo suona più spontaneo, c'è più "anima" e meno lezioncina accademica di stile. L'album ha punti di forza e macchie, e, come è prevedibile, dividerà nuovamente gli ascoltatori. Se si eccettua la breve introduzione acustica "Persephone", si entra nel disco direttamente con quello che è forse il pezzo migliore di tutti, la title track, che è anche il primo singolo: giro di note di chitarra straniante e lisergico, riff cavernoso a subentrare, ritornello dalle melodie particolarmente ispirate nel concept. Un brano atipico, ma trascinante, che anticipa la grinta di "The Wilde Flowers" (titolo ispirato al precedente nome dei Caravan). Ancora più grintosa è "Chrysalis" con i suoi attacchi di chitarra accompagnati dall'organo, anche se ricorda un po' troppo da vicino i Deep Purple. C'è comunque una relativa varietà di citazioni lungo l'album: se "A Fleeting Glance" contamina il folk psichedelico britannico dei Sixties con schitarrate più hard e melodie vicine ai Porcupine Tree, "The Seventh Sojourn" (dichiaratamente ispirata a "Summer '67" dei Family) assume tinte etniche fra arabeschi di tastiere e percussioni etniche, mentre "Era" è forse il brano più catchy, spedito e diretto del lotto, vicino all'hard & heavy anni 80. Il lato più complesso e cerebrale emerge soprattutto in brani come "Strange Brew", tecnicista e virtuoso, che eleva al quadrato i Led Zeppelin più psichedelici (qualcuno ha detto "Dazed And Confused"?) per poi svilupparsi in maniera più pomposa e graffiante (purtroppo senza raggiungere i livelli di un "Bitches Brew", nonostante il riferimento alla fusion) e infine concludendosi con una coda spettrale e scarnificata che rimanda ai tempi di "Deliverance/Damnation". I momenti più placidi hanno il loro picco in "Sorceress 2", una ballata ancora ledzeppeliana che si fa più spensierata sul finale, e in parte "Will O' The Wisp", che appare però troppo debitrice dei Jethro Tull (Akerfeldt ammette di essersi ispirato alla loro "Dun Rigill") ma suona più semplice e coinvolgente rispetto agli episodi simili dei due album precedenti. È forse il loro album più "mainstream". Qualcuno lo troverà in parte un "Watershed" senza metal, qualcun altro un "Heritage" più melodico e omogeneo e altri ancora un "Pale Communion" più immediato e d'impatto. Accettando che questo è ciò che Mikael Åkerfeldt intende esprimere ormai, ci piace pensare che, pur con i suoi difetti e un immancabile "passatismo", rimane un disco godibile, anche se non quel che in molti si sarebbero aspettati. Ci piace comunque vedere negli svedesi un forte amore per gruppi e suoni ai quali si vuol rendere tributo. Però non ci stupiremmo se qualcuno obiettasse che è un po' un controsenso chiamare "progressive" ciò che si rifà al rock progressista di un tempo. (Fonte recensione: Ondarock)


    Tracklist

    Persephone
    Sorceress
    The Wilde Flowers
    Will O the Wisp
    Chrysalis
    Sorceress 2
    The Seventh Sojourn
    Strange Brew
    A Fleeting Glance
    Era
    Persephone (Slight Return)
  9. .


    NOBEL A BOB DYLAN
    L'artista che ha trasformato il rock'n'roll in una rappresentazione poetica della realtà


    Dal folk alla psichedelia ha insegnato a tutti, anche ai Beatles, come bisognava e si poteva scrivere test


    NON ci si credeva quasi più, come per tutte le cose troppo a lungo annunciate e poi negate, ma alla fine è arrivato: il massimo riconoscimento letterario al mondo va a un artista che, a essere precisi, letterato non è. È uno che fa canzoni, ma a far canzoni è stato il Migliore, il più bravo, il sacro padre fondatore, quello che ha insegnato a tutti, anche ai Beatles, come bisognava, anzi come si poteva far canzoni, trasformando il rock'n'roll in una micidiale arma di rappresentazione poetica delle realtà. Dylan, il grande dissimulatore, il genio della musica popolare, l'acuto e sfuggente persecutore di verità a lui solo note, si è trovato a esprimere il suo talento in un momento cruciale dello sviluppo della cultura di massa, nei primi anni Sessanta, quando ancora nessuno credeva davvero che la canzone potesse essere qualcosa di più che intrattenimento, magarianche nobile, ma pur sempre intrattenimento. Dylan sì, ci credette, cominciò a trasformare il linguaggio del suo amato folk in qualcosa di più ampio, iniziò a introdurre visioni ampie, complesse, cominciò a parlare del mondo, di quello che stava succedendo, delle lotte per i diritti civili, delle aspirazioni dei giovani, degli orrori della guerra, della paura del nucleare, arrivarono Blowin in the wind, un inno pacifista capace di contagiare il mondo in un baleno (era appena il 1963), poi la inaudita ferocia requisitoria contro i padroni della guerra, Masters of war, poi la febbrile esaltazione di una nuova era che stava arrivando, The times they are a changin, poi ancora il mistero di Mr.Tambourine man, decine di canzoni sconvolgenti, meravigliose, che aprirono un universo di possibilità.


    Non è una cosa da poco, ma tutti quelli che cantano canzoni, anche quelli che non sanno di essere suoi figli in un certo senso lo sono perché vengono dal precedente di quella prima folgorante intuizione. La canzone è un mezzo espressivo importante, potente, può essere un prodotto artistico, e per questo alla fine il Nobel è un riconoscimento non solo all'arte di Bob Dylan ma anche alla canzone in sé, che se andiamo a ripensarci, è stata in fin dei conti uno dei prodotti più significativi e illuminanti del Novecento. Bob Dylan dal canto suo è uno che non si è mai fermato. Dopo essere stato il grande pifferaio della rivoluzione delle coscienze, dopo aver aperto la strada ai molti che negli Sessanta completarono quella rivoluzione, ha girato le spalle al mondo folk, ha cercato di distruggere quel monumento che già allora volevano costruirgli intorno, decise di elettrificare la sua musica, di rompere schemi e liturgie, di dissacrare perfino se stesso, e incise "Like a rolling stone", in assoluto una delle più influenti canzoni del secolo passato, quella che di solito i musicisti arrivati dopo (a partire da Bruce Springsteen) indicano come il momento in cui hanno capito cosa poteva essere il rock e che cosa dovevano fare della propria vita. Poi la psichedelia struggente di Blonde on Blonde, visioni dentro visioni dentro altre visioni, con livelli di complessità e di raffinatezza poetica mai percepite prima in una canzone, e proprio in quel momento, nel 1966, quando più o meno tutto il mondo cercava di tirarlo per la giacca a seguire cause e appelli politici, quando finalmente la sua lingua cominciava a diventare diffusa, condivisa da molti in giro per il pianeta, lui pensò bene di sparire.Con la scusa di un incidente di moto, mai provato, riuscì a stare diciotto mesi fuori da tutto, invisibile, chiuso nel suo rifugio di campagna. Questo è bene raccontarlo per capire chi è davvero Bob Dylan, condannato a una mobilità perenne, a dover costantemente sfuggire al suo stesso mito, come ha confermato pochi anni fa quando finalmente è uscita la sua tanto attesa autobiografia, intitolata Chronicles - Volume 1, nella quale ha pensato bene di raccontare tutto quello che gli pareva, e per giunta con una prosa sfavillante, ma di sicuro nessuna delle cose che da decenni tutti i fan avrebbero voluto sapere, tipo la famosissima sparizione dei diciotto mesi, o altre legittime curiosità sulle sue più belle canzoni. Per non dire delle sue performance live. Amate e odiate allo stesso tempo, perché originali ma inquiete, mai celebrative, fino a momenti diventati proverbiali in cui le sue canzoni più note le storpiava al punto da renderle praticamente irriconoscibili. Dopo il 1968 Bob Dylan continuò in parte a nascondersi, per poi riemergere di tanto in tanto, incidendo ancora dischi epocali, vedi Nashville skyline, Blood on the tracks, Knockin on heaven's door, tanti altri mattoni del castello, diciamo pure musical letterario, della sua opera. Anche se lo stesso Bob Dylan, come quasi tutti i grandissimi autori di canzoni, ci ha tenuto a specificare che la canzone è affare diverso dalla poesia, ha un suo linguaggio proprio, che è unità inscindibile di musica e parole, anche se nel suo caso, come è ovvio, può capitare spesso che un testo abbia anche un valore autonomo, ma la canzone va giudicata come tale, e per questo è significativo che il Nobel sia andato a lui. Il premio Nobel l'ha vinto come autore di canzoni. E quindi il mondo della canzone l'ha vinto assieme a lui.

    [Con lui la canzone pop è entrata nel mondo dell'arte - VIDEO]
  10. .


    A SEAT AT THE TABLE
    Solange


    2016 (Saint/Columbia)


    La piccola di casa Knowles consegna un mini-classico di moderno soul

    La tavola è apparecchiata, l'atmosfera è informale e conviviale; si ride, ci si racconta, si condividono le proprie esperienze e si ragiona sulla società contemporanea e sui massimi sistemi. Stasera in casa Knowles sembra di respirare l'odore dell'incenso e delle candele che Erykah Badu bruciava quando passava le proprie nottate in compagnia dei suoi artsy friends (ricordate l'eterna "Appletree"?). Ma, volendo, si può immaginare anche quello che probabilmente succedeva quando la divina Etta James, negli anni 70, apriva le porte di casa agli artisti squattrinati e dava il via a pazze e sguaiate festicciole a ritmo di disco music. Certamente la presenza di Solange non è totalizzante come quella delle due Signore nominate qui sopra, ma la sua voce oggi ha acquistato una personale profondità, che la trasporta da eterna piccola di famiglia a figura capace di affermare il proprio pensiero attraverso le situazioni più pluraliste, e senza mai snaturare il parere di nessuno - i paralleli con Janet Jackson, in tal senso, decisamente si sprecano.


    Si prova quindi un immenso piacere nello scorrere tra le tracce di "A Seat At The Table" e stare ad ascoltare le chiacchiere che animano la tavolata, grazie a una plètora di coloriti ospiti che cantano, raccontano, suonano e danno manforte alla gentile ma all'occorrenza pungente padrona di casa. Il risultato è un senso di comunità che scalda il cuore, un lavoro emotivo, politicizzato e fortemente matriarcale allo stesso tempo, ma che non scade mai in retoriche di sorta. Non v'è alcun bisogno di proclamare slogan a effetto o di alzare inutilmente la voce, dal momento che uno dei requisiti principali per stare alla tavola dovrebbe essere quello di saper ascoltare gli altri, cosa che purtroppo raramente succede ai piani alti. Anche solo per questa sua attidudine, Solange il suo posticino lo merita tutto (nonostante quel famoso incidente dell'ascensore...). Il disco, infatti, pesca a piene mani dai grandi numi della musica del passato, con Nina Simone e Minnie Riperton elette a madrine della serata, ma allo stesso tempo tiene l'orecchio teso verso la contemporaneità, tramite l'uso di delicati inserti elettrici e una serie di pensose e riflessive presenze maschili rubate al mondo dell'hip-hop. Così, questo neo-soul dalle scarne trame art, trova forse il parallelo più diretto col recente "Freetown Sound" del suo grande amico e collaboratore Blood Orange, e anche se Solange non ha proprio la scrittura cristallina di quest'ultimo, pezzi come "Cranes In The Sky", "Where Do We Go" e "Mad" sono veri e propri solluccheri di delicatissimo soul post-moderno. La curiosa base electro di "Junie", i soffici controcanti in stile Mariah anni 90 di "Don't Wish Me Well" e i punteggi pianistici dell'iniziale "Rise", invece, mostrano un songwriting delicato ed evanescente, ma tutt'altro che povero. Sul lato più comunitario del lavoro, "Borderline (An Ode To Self Care)" conta della presenza di Q-Tip e omaggia lo spirito di Aaliyah, mentre dall'altra parte dell'oceano giunge Sampha a prendere parte alla scrittura e produzione di diversi pezzi, il più bello dei quali è sicuramente "Don't You Wait" (che conta pure la presenza di altri due talenti anglosassoni: Kindness e il felpatissimo basso di Olugbenga Adelekan dei Metronomy). Su ben tre brani i controcanti in aria gospel sono opera della voce di super-lusso di Tweet (il che, per l'ambiente di riferimento, è un po' come avere Madonna in casa a farti la lavatrice). Nell'"Interlude: I Got So Much Magic, You Can Have It", Solange si diverte a cantare nella spazzola di fronte allo specchio assieme a Nila Andrews e l'ex-Destiny's Child Kelly Rowland, mentre l'altro "Interlude: This Moment" conta, tra gli altri, la presenza dello stesso Blood Orange e della violoncellista/modella Kelsey Lu. Verso il finale, l'amica e compagna di tour Kelela dona la sua maliconica voce di burro fuso allo scarno ed evanescente duetto "Scales". Ma c'è pure Tina Knowles, che nel suo "Interlude: Tina Taught Me" si rivolge alla figlia - e di conseguenza all'America intera - col fare pratico, diretto e accorato tipico di una madre. Ovunque si posi l'orecchio, insomma, c'è una piccola storia da ascoltare. Da notare come "A Seat At The Table" - pubblicato a meno di due mesi dalla fine del secondo termine dell'amministrazione Obama, e col volgare spauracchio nichilista di Donald Trump a gravare sull'umore generale - abbia debuttato direttamente in vetta alla classifica americana. Si tratta di un risultato nel suo piccolo assolutamente non indifferente, vista la matrice del lavoro, e che va ulteriormente celebrato in quanto al suo interno si muovono le molteplici voci di tutte quelle minoranze che compongono - e arricchiscono - la popolazione statunitense. Solange insomma, a questo giro ha fatto proprio canestro; si può forse rimpiangere la mancanza di un pezzo squisitamente pop come quella "Losing You" contenuta nel precedente Ep "True" (che non a caso era stata cucinata sempre con l'aiuto di Blood Orange), ma è un sentimento che tende a svanire col progredire degli ascolti. "A Seat At The Table" è un vero e proprio album d'ascolto, fatto per restare nel tempo come testimone della sua era, e porta con sé già il profumo del mini-classico.



    TRACKLIST

    Rise feat. Raphael Saadiq
    Weary feat. Tweet
    Interlude: The Glory Is In You feat. Master P
    Cranes In The Sky
    Interlude: Dad Was Mad feat. Mathew Knowles
    Mad feat. Lil Wayne, Tweet
    Don't You Wait feat. Olugbenga Adelekan
    Interlude: Tina Taught Me feat. Tina Knowles
    Don't Touch My Hair feat. Sampha
    Interlude: This Moment feat. Master P, Sampha, Kelsey Lu, Dev Hynes
    Where Do We Go feat. Sean Nicholas Savage
    Interlude: For Us By Us feat. Master P
    F.U.B.U. feat. The-Dream, Bj the Chicago Kid, Tweet
    Borderline (An Ode To Self Care) feat. Q-Tip
    Interlude: I Got So Much Magic, You Can Have It feat. Nila Andrews, Kelly Rowland
    Junie
    Interlude: No Limits feat. Master P
    Don't Wish Me Well
    Interlude: Pedestals feat. Master P
    Scales feat. Kelela
    Closing: The Chosen Ones feat. Master P

  11. .


    GRAN PREMIO DEL GIAPPONE
    SUZUKA 2016

    Ferrari vicina alle Mercedes. Comanda Rosberg


    LIBERE 2

    È Nico Rosberg il più veloce della prima giornata di libere a Suzuka, sede del 17° GP stagionale. Sotto un cielo velato, condizioni che non dovrebbero ripresentarsi né per le qualifiche, né per la gara, attese entrambe bagnate, il tedesco della Mercedes regola tutti con il tempo di 1’32”250 della seconda sessione, soli 72 millesimi meglio del compagno Lewis Hamilton. Mercedes velocissime, come era preventivabile, ma Ferrari vicina, almeno con Kimi Raikkonen: il finlandese è 3° a 0”323 a parità di gomma soft, ma anche con problemi di sottosterzo (“è come se non avessi l’ala davanti”, ha detto in radio) che gli hanno innescato alcune innocue escursioni fuori pista, e qualche impuntamento lamentato alla power unit. A seguire i distacchi si fanno più consistenti: Max Verstappen è 4° con la Red Bull a 0”811, davanti alla Ferrari di Sebastian Vettel, 5° a 0”853 e che subirà in griglia una penalizzazione di 3 posti per la collisione con Rosberg in Malesia, e a Perez, 6° a 1”320. Poi 7° Hulkenberg, 8° Alonso (+ 1”735), avvistato nel paddock con la fidanzata Linda Morselli, 9° Bottas e 10° Sainz. Indietro Ricciardo, solo 12° a 1”900. Curiosità: in una sessione caratterizzata da una Virtual Safety Car per la Haas di Gutierrez ferma a bordo pista (problemi al turbo), si sono visti un testacoda a 360° di Kvyat in ingresso del rettilineo principale, e Nico Rosberg fumare vistosamente in uscita dalla pit lane a inizio turno: problema evidentemente di piccolo cabotaggio, vista la sua azione regolare.

    LIBERE 2 [VIDEO INTEGRALE]


    LIBERE 1

    Anche nella prima sessione il leader del mondiale piloti NicoRosberg era stato il più veloce, in 1’32”431, e scendendo già sotto la sua pole del 2015 (1’32”584). A seguire, 2° il compagno di scuderia Lewis Hamilton a 0”215, 3° Sebastian Vettel a 1”094 (1’33”525), 4° Raikkonen a 1”386 (1’33”817), 5° Ricciardo a 1”681 e 6° Verstappen a 1”948. Per il finlandese quinto ICE in uso, l’ultimo prima di incorrere in penalità. Uscite per lo spagnolo Fernando Alonso (Spoon curve), con danneggiamento dell’ala posteriore, e di Grosjean, senza freni, con l’alettone anteriore rovinato.

    LIBERE 1 [VIDEO INTEGRALE]

  12. .


    DO NOT DISTURB
    Van Der Graaf Generator


    2016 (Esoteric Antenna)


    Inizia a sentire il peso degli anni la storica prog-band di Peter Hammill

    Si dice che prima di morire si riviva in un flashback tutta la nostra esistenza. Musicalmente parlando, chissà se era proprio questo che avevano in mente i Van Der Graaf Generator di Peter Hammill (chitarra, tastiere, voce), Hugh Banton (organo, basso, fisarmonica) e Guy Evans (battteria, percussioni) per il nuovo album. Con "Do Not Disturb", la storica band del progressive giunge, infatti, al suo tredicesimo tassello discografico, il quarto dopo la loro reinvenzione come trio iniziata con "Present" (2005), in cui però c'era ancora il sassofonista David Jackson. Dopo quasi cinquant'anni di (onoratissima) carriera, la band guidata da Peter Hammill continua a esplorare l'hybris dell'esistenza umana, anche se il vero filo conduttore del disco è rappresentato dal riaffiorare dei ricordi, un susseguirsi di flashback dal passato che alludono inevitabilmente alla fine di un ciclo. In "Do Not Disturb" a trapelare, infatti, nelle musiche come nei testi, è la tentazione di appendere gli strumenti al chiodo e di affiggere al muro quel cartello "non disturbare" che ci separa dal mondo che ci circonda. Nonostante la presenta di alcune sequenze piuttosto godibili, non si può negare che l'album, nel suo complesso, manchi di forza motrice. I ricordi non bastano; la stanchezza dei musicisti - giustificabile, peraltro, vista la carta d'identità - porta in dote una musica più affaticata e meno sicura del solito, malgrado la presenza più cospicua di segmenti turbolenti rispetto agli altri album post-reunion (merito, soprattutto, dell'uso massiccio della chitarra e della fisarmonica, che relegano spesso l'organo in secondo piano). E' questo il caso della fosca cavatina di "Aloft", che prende l'abbrivio con accordi elettrici sospesi e percussioni appena accennate, prima di mutare la sua pelle come nelle migliori delle tradizioni prog. L'istrionico Hammill ci guida attraverso questo repentino cambiamento in una traccia che, come molte delle seguenti, ha tutto l'aspetto di una mini-suite.


    Nello scorrere dei ricordi non poteva mancare neanche una tappa in Italia. Nella nostra penisola, infatti, i Van Der Graaf Generator hanno goduto negli anni Settanta di un grande successo di pubblico e critica, arrivando a toccare le vette delle classifiche con "Pawn Hearts" (1972). In "Alfa Berlina", la band ricorda con affetto i viaggi assieme al loro manager italiano, Maurizio Salvadori, che scarrozzava i musicisti durante le tournée guidando spesso in modo spericolato. Sono proprio i rumori tipici del traffico ad aprire la traccia, la cui aura nostalgica viene poi evocata dall'organo di Banton e nelle malinconiche parole di Hammill ("I've got a lifetimes library of unreliable mementos/ and I could show you one or two"), il cui canto insolitamente spensierato, in memoria della libertà giovanile, viene contrappuntato da un ritmo sontuoso e imponente. Uno dei pilastri della carriera dei Van Der Graaf Generator è sempre stata la passione di Hammill per le storie tetre ed esistenziali; troviamo così anche una vignetta solitaria di una stanza d'albergo, che sul finale inizia ad assumere connotati orrorifici ("Room 1210"). In misura maggiore rispetto agli album precedenti, il trio cerca di sopperire alla mancanza di David Jackson, anche grazie all'inedito lavoro di Hugh Banton con la fisarmonica. L'atmosfera generale, talvolta, si avvicina così agli album anni Ottanta di Hammill, come in "Forever Falling", "Shikata Ga Nai" (giapponese per "non c’è niente da fare") e, in misura maggiore, in "(Oh No, I Must Have Said) Yes", che sembra quasi una caricatura grottesca del progressive stesso, con un riff ledzeppeliniano che prende la strada del jazz-fusion verso la metà. In "Brought To Book" e nella coda semi-strumentale di "Almost The Words" è invece stranamente quasi lo spirito gentile di Richard Wright a emergere, diffondendosi in qualche modo negli intrecci tra le tastiere e la chitarra. Quando il sipario infine si chiude, vi è un profondo incupimento dell'umore. Il tono di Hammill di stanca rassegnazione incombe sopra all'organo sacrale di Banton, mentre le ultime parole del testo ("more or less, all for the best/ in the end it's all behind you/ there's the thing for all you know/ it's time to let go") scrivono - in matita - una dolcissima epigrafe alla grande leggenda dei Van Der Graaf Generator.

    Tracklist

    Aloft
    Alfa Berlina
    Room 1210
    Forever Falling
    Shikata na Gai
    (Oh No, I Must Have Said) Yes
    Brought To Book
    Almost the Words
    Go
  13. .


    22, A MILION
    Bon Iver


    2016 (Jagjaguwar)


    L'alter ego di Justin Vernon riemerge dai flutti digitali nella sua forma più precaria

    A questo punto ormai sappiamo che Bon Iver non è semplicemente un nome d'arte: è un alter ego e una voce interiore arrivata a separarsi dalla propria entità d'origine, ha assunto una vita ormai propria ed è cresciuta camminando con le proprie gambe... Allontanate l'essenzialità e l'introspezione dell'esordio, nel disco successivo ha abbracciato una coralità solenne - ma a ben vedere ugualmente intimista - risollevandosi dal più profondo dolore per avviare un cammino di emancipazione, un percorso che porta a una graduale immersione nella realtà circostante, e che oggi sembra giungere a un traguardo decisivo con "22, A Million". Se guardiamo alla produzione di Justin Vernon come a un ciclo di vita, vediamo chiaramente come l'inverno dell'anima si sia man mano calato nella postmodernità: si è intriso e ha trattenuto molte tracce delle influenze incontrate sulla sua via, accettando il rischio di compromettere la purezza che lo caratterizzava alla nascita; ciò nonostante, l'espressione "estranea" dell'artista del Wisconsin è riuscita a mescolarsi nella realtà caotica e liquefatta del nostro tempo senza perdere la sua singolarità, che altrimenti oggi ci risulterebbe irriconoscibile. Ciò che la musica elettronica aveva annunciato negli anni Ottanta-Novanta - e che solo ora sembra recepire ed elaborare pienamente - va a minare parole e suoni che ne escono criptati, glitchati: l'emersione dai flutti del mare digitale genera un simulacro estremamente precario, tanto nella forma quanto nella durata dei singoli momenti e dell'insieme; fragile ma in modo diverso dal passato, assalito da sporcature artificiali e dagli orpelli del pop di tendenza, suoni di superficie che scivolano su un basamento ben più spessorato dal mood a tratti esplosivo e debordante di effetti, tra epiche elevazioni di sassofoni ("10 d E A T h b R E a s T ⊠ ⊠", "33 'GOD'"), altre volte raccolto e solitario, come una nuova beatitudine bucolica ("29 #Strafford APTS"), sino a sfaldarsi completamente in una confusa e trasognata astrazione ("21 M♢♢N WATER"). A un contesto già poco agevole sul fronte sonoro vanno ad aggiungersi versi, simboli e numerologie indecifrabili, ipertrofiche nell'artwork come nella scaletta dei brani: enigmi verbali che potrebbero impegnare a lungo coloro che non si rassegnano di fronte a un linguaggio misterioso che, nella sua solipsistica ambiguità, costituisce parte integrante di quel profilo così schivo e renitente verso le luci della ribalta (I cut you in/ Deafening/ Fever rest / I've been sleeping in a stable, mate/ Not gonna do you no favors/ What I got is seen you trying/ Or take it down the old lanes around/ Fuckified). Il motivo concettuale e iconografico del Tao non è altro che un appiglio esemplificativo: la coesistenza degli opposti, la tensione tra la finitezza terrena e la dimensione spirituale non esauriscono il carico di senso insito in un'espressione così poliedrica e spesso incontrollata. Talmente al di fuori di sé che persino il talento innato di Justin Vernon non sembra proprio riuscire a parlarne con cognizione di causa, come se ormai fosse così per dire il tramite designato per qualcosa su cui non può rivendicare il pieno controllo...

    I find God and religion too
    Staying at the Ace Hotel
    If the calm would allow
    Then I would be just floating to you now
    It would make me pass to let it pass on
    I'm climbing the dash, that skin


    La stampa, e di riflesso il pubblico, si nutrono avidamente di tante banalità e aneddoti superflui che accompagnano l'auto-narrazione di chi preferirebbe non trovarsi dalla parte del microfono, di chi non vuole ma forse ancor prima non sa come parlare di ciò che riversa nella propria musica, se non per mezzo della stessa. Se c'è infatti un solo, autentico moto contrastante - qui come nell'intero output di Bon Iver - è proprio quello tra la volontà (se non altrimenti il tentativo) di sotterrare e superare un trauma, e la necessità di ritornarvi, come a un giaciglio rassicurante nella sua dolente familiarità, nonostante tutto un porto sicuro dove riprendere contatto con la propria vera natura (I worry about shame, and I worry about a worn path/ And I wander off, just to come back home). Non sembra esserci moltitudine o stravolgimento esteriore in grado di tradire l'anelito romantico che, in modo più o meno esplicito, sottende a ogni nuova mutazione di Bon Iver. La dimostrazione più cristallina risiede nella nudità e nello struggente lirismo del brano "715 - CRΣΣKS", soul a cappella che mutua lo sdoppiamento vocale di James Blake (con l'ausilio del sintetizzatore custom"Messina") dando fiato a una vibrante polifonia su fantastiche ottave distorte e simultanee:

    Oh, then how we gonna cry
    Cause it once might not mean something
    And love at second glance
    It is not something that we need
    Honey, understand that I have been left here in the reeds
    And all I'm trying to do is get my feet up from the creeks


    Di qui, inutile dirlo, risulta quantomai difficile immaginare cosa potrebbe seguire: l'unica pallida speranza che "22, A Million" ci consegna è che nemmeno un eventuale, ulteriore passo nella destrutturazione dell'attualità musicale potrà intaccare una sensibilità che in fin dei conti ne rimane avulsa. Ancor meno probabile sarebbe un effettivo ritorno alle origini, con tanta strada fatta in così poche tappe, oltre al distinto senso di incompiutezza che esige un'ultima parola prima del congedo ufficiale. Con l'andare degli ascolti, d'altronde, quel sample che inaugura il disco canticchiando "It might be over soon" comincia a risuonare come un monito sibillino, una gran traccia nascosta e subliminale per annunciare che forse l'esistenza del progetto per come lo conosciamo potrebbe giungere al suo termine, alla pienezza di quel ciclo di vita avviato un decennio fa. (Fonte recensione: Ondarock)


    Tracklist

    22 (OVER S∞∞N)
    10 d E A T h b R E a s T ⊠ ⊠
    715 - CRΣΣKS
    33 "GOD"
    29 #Strafford APTS
    666 ʇ
    21 M♢♢N WATER
    8 (circle)
    ____45_____
    00000 Million


    Edited by Violetta:) - 4/10/2016, 22:16
  14. .


    REAL BODIES
    IL CORPO UMANO IN MOSTRA A MILANO


    Il corpo umano in mostra con i suoi organi e le sue malattie


    Capire come funziona la "macchina del corpo" osservando gli organi che lo compongono per vedere con i nostri occhi qual è l'effetto del tempo e come stili di vita insani possano ridurci. E' questo il viaggio che consente di fare "Real Bodies, scopri il corpo umano", il più imponente allestimento al mondo dedicato a organi e corpi umani plastinati. La mostra, dall'impatto fortissimo e reduce dal successo enorme di Lisbona, dove ha registrato circa 220.000 visitatori, apre domani a Milano dove resterà fino alla fine di gennaio 2017. Oltre quaranta i corpi interi esposti e trecento organi tra malati e sani, tutti trattati con la tecnica della polimerizzazione. Insomma una vera enciclopedia di anatomia che si può osservare dal vivo. La mostra è stata allestita nella sede della ex fabbrica Faema in via Ventura 15 a Lambrate, su una superficie espositiva di oltre duemila metri quadri di fronte al frequentato mercatino "East Market". Come funziona il corpo. L'obiettivo della mostra, che ha come testimonial il giornalista e divulgatore scientifico Alessandro Cecchi Paone, è quello di informare sulle patologie che presentano la più alta incidenza sulla popolazione, mostrando organi colpiti dalle malattie più pericolose e mortali: dall'ictus ai tumori, oltre che le malattie causate da cattivi stili di vita come il fumo e l'alimentazione eccessiva. L'esposizione è stata suddivisa in dodici sezioni ognuna dedicata a un particolare apparato (cardiocircolatorio, osseo, nervoso, ecc.). Ci sono intere aree dedicate a temi come la prevenzione delle malattie, la lotta alle dipendenze, il benessere fisico attraverso lo sport e la biomeccanica, le ultime frontiere della chirurgia ricostruttiva, anche a favore della disabilità, l'informatica in campo medico e la realtà aumentata 3D a supporto della chirurgia.


    Che cos'è la plastinazione. Corpi e organi sono plastinati. La plastinazione è un procedimento che porta alla completa sostituzione dei fluidi corporei con dei polimeri, bloccando per sempre la decomposizione. Un processo che richiede circa 1500 ore di lavoro e un costo di circa cinquantamila euro per ogni corpo plastinato. Per la realizzazione della mostra sono serviti i corpi di centosessantacinque persone che spontaneamente e con generosità, prima del decesso, hanno voluto donare i loro resti mortali alla scienza per scopi scientifici e didattici. "Real Bodies analizza scientificamente la morte per istruire sull'importanza e sul grande valore della vita - commenta Alessandro Cecchi Paone - ; la mostra sarà un'occasione formativa per tutti, ma soprattutto per le scuole di ogni ordine e grado perché rappresenta il sistema più adatto per capire come funziona la macchina del corpo umano, come si fa a tenerla sana puntando soprattutto sulla prevenzione delle malattie e sul rispetto della sua fisiologia". Un atlante in 3D del corpo umano. Per l'edizione di Milano il tema è "La salute e come allungare la vita". Per questo ci sono organi e corpi devastati dalle dipendenze, come il fumo, l'alcolismo e le cattive abitudini alimentari. "Di norma chi visita questa mostra si porta a casa un ricordo indelebile - assicurano gli organizzatori - basti pensare per esempio che durante ogni tappa vengono gettati nell'apposito contenitore vicino ai polmoni devastati dal cancro migliaia di pacchetti di sigarette". Tra le novità ci sono una sezione dedicata alla riproduzione della razza umana e l'unico corpo plastinato al mondo di un uomo ultracentenario. L'osservazione del suo corpo rappresenta una grande occasione per apprezzare con i propri occhi come il tempo modella e logora i tessuti corporei. "Si tratta di un pezzo della collezione molto fragile e delicato" commentano da Venice Exhibition, organizzatrice della mostra. "E' arrivato da un'università degli Stati Uniti e non era mai stato esposto prima d'ora. Un pezzo originale dal valore anatomico immenso, oltre che economico, visto che per realizzarlo ci sono voluti tre anni con un investimento di circa 450.000 euro. Dopo la tappa di Milano dovremo restituirlo subito all'università americana che lo ha gentilmente concesso". Il corpo di Maria commuove. Gli organizzatori hanno deciso di posizionare un cartello di segnalazione all'ingresso della sezione dell'apparato riproduttivo dove si possono osservare i cicli di sviluppo del feto nella vita intrauterina e dove è esposto il corpo plastinato ribattezzato Maria. Si tratta di una donna deceduta 40 mesi fa con in grembo un bimbo di cinque mesi. La donna plastinata, infatti, anche per la sua particolare storia, è il corpo che più commuove e impressiona i visitatori e per questo finora giudicato quello più d'impatto nell'ambito di tutto l'allestimento. La "Galleria degli Atleti". Lancio del disco, 100 e 200 metri piani, maratona, scherma, centodieci metri ad ostacoli, tiro con l'arco, ma anche calcio, pugilato, basket, taekwondo, ginnastica artistica. Sono solo alcune discipline sportive olimpiche che hanno catturato le attenzioni dei tifosi di tutto il mondo alle recenti Olimpiadi di Rio De Janeiro e che sono rappresentate in mostra. Ma in mostra ci sono anche altre discipline sportive praticate da molti visitatori nella loro quotidianità come il body building, le arti marziali, l'aerobica, la danza, in modo da sottolineare l'importanza dell'attività fisica per mantenere il corpo in salute ed efficiente. Un'opportunità per scoprire come lavorano sottopelle le contrazioni antagoniste dei muscoli, sfruttando la tensione dei tendini di un fuoriclasse dell'atletica leggera come il grande Usain Bolt durante lo sforzo estremo alla ricerca del record, per analizzare l'anatomia dei possibili infortuni e la prevenzione dall'usura che l'agonismo sportivo inevitabilmente comporta sugli organi più sottoposti a sforzo. Nello stesso tempo, questa sezione ha anche la funzione educativa di informare e istruire le nuove generazioni esortandole alla pratica sportiva per contrastare malattie endemiche come obesità, diabete, ipertensione. "I corpi dei campioni" spiegano gli organizzatori di Venice Exhibition "saranno così per la primissima volta visibili direttamente sotto la pelle nei dieci corpi reali di atleti rigorosamente plastinati, alcuni dei quali deceduti da pochissimo tempo".







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    Mellon Collie And The Infinite Sadness
    Smashing Pumpkins


    1995 (Virgin)


    L'opera omnia di Billy Corgan e compagni, tra canzoni memorabili e grandeur sonora

    È il 1995: la cosiddetta scena di Seattle sta dando sempre più evidenti segni di rigor mortis, i suoi alfieri Nirvana sono un ricordo, sta nascendo quello che di lì a poco verrà (orribilmente) chiamato "nu-metal"... ma per ora su Mtv fa furore il video di una canzone dalla classica struttura ruffianamente grunge, strofa piano-ritornello incazzato: si chiama "Bullet With Butterfly Wings" ed è degli Smashing Pumpkins, quartetto di Chicago costituitosi sei anni prima attorno al leader Billy Corgan. Il brano, dall'immediato impatto emotivo, forte anche delle liriche "despite all my rage I'm still just a rat in a cage" che Billy urla nel refrain, svolge perfettamente il suo ruolo di esca per milioni di ragazzini che si avventano a comprare il disco che lo contiene, ansiosi di colmare il vuoto lasciato da Cobain e soci; ma quello che questi incauti avventori si trovano tra le mani è ben altro che una semplice raccolta di canzoni pop condite da suoni punk-metal (non che questo fosse tutto ciò che conteneva un album dei Nirvana). Il titolo, "Mellon Collie And The Infinite Sadness", e la cover, decadente e romantica, dovrebbero lasciarlo intuire.


    In questo strepitoso doppio album, che segue un esordio acerbo ma incoraggiante ("Gish", 1991), un capolavoro assoluto capace di scardinare e ricreare le coordinate di un nuovo genere di rock ("Siamese Dream", 1993: in qualche modo avvicinabile al movimento dello shoegazing , è un disco costruito su muri di chitarre saturissime oscillanti tra metal e noise, alternate a oasi di assoluta serenità melodica, su cui Billy Corgan innesta nenie vocali sognanti e dolcissime), e una interessantissima raccolta di rarità ("Pisces Iscariot", 1994), l'incontrollabile ego di Billy Corgan viene lasciato finalmente libero di scorrazzare per ogni anfratto dell'universo musicale che gravita nei dintorni della parola "rock", anche laddove sia necessario forzare (e non poco) la mano per ritrovare i canoni tipici del genere: il risultato è una raccolta di ventotto canzoni, divise in due sezioni dai suggestivi titoli "Dawn To Dusk" e "Twilight To Starlight", quasi tutte stupende nella loro eccessiva, strabordante teatralità, e in grado di alternare con una noncuranza disarmante stili e generi tra i più disparati. Si passa dal grunge-rock della già citata "Bullet With Butterfly Wings" al pop sinfonico della meravigliosa "Tonight, Tonight", da esperimenti proto-industrial ("Love", "Tales From A Scorched Earth" - quest'ultima decisamente Nine Inch Nails) a ballate tristi e semiacustiche come "In The Arms Of Sleep", "Galapagos", "By Starlight"; e ancora, da scherzi minori come "Beautiful" o "We Only Come Out At Night" al rock radiofonico (ma con che classe...) di "Here Is No Why" o "Muzzle"; dall'hardcore di "X.Y.U.", al rock a la "Siamese Dream" di "Jellybelly", da brani inconfondibilmente progressivi fin dai titoli ("Porcellina Of The Vaste Oceans", "Thru The Eyes Of Ruby") alla meravigliosa pop-wave di "1979", dal metal ("Fuck You") al dream-pop ("Cupid De Locke"), in un ribollente calderone di suoni, chitarre, melodie, parole. Su tutto, l'acida voce di Billy Corgan, sempre al limite del sopportabile con quel timbro così particolare e nasale che ne è anche l'inconfondibile marchio di fabbrica. Impossibile coprire tutto l'arco musicale seguito in questo album da Billy Corgan alla guida (molto dispotica) delle sue zucche: troppo ampia la materia di studio, troppo vasti i territori esplorati. Così come è impossibile indicare un capolavoro o un brano rappresentativo - non a caso, dal doppio cd verrano estratti sei singoli, ciascuno dei quali pubblicato insieme a diversi inediti (molti dei quali, peraltro, di estremo interesse) a testimonianza di un momento di grazia creativa incontenibile. Unico trait d'union del disco, come il suo titolo lascia intuire, è un'aura di malinconia decadente che pervade tutte le tracce, sublimata in rabbia depressa nei brani più chitarristici o stemperata in languido romanticismo in quelli più atmosferici; anche questa componente contribuisce a rendere unico il risultato finale, salvandolo dal rischio di essere solo un'accozzaglia di ritagli musicali disparati e rendendolo un'opera competa e chiusa. Dopo aver esplorato il rock in lungo e in largo, Billy Corgan non aveva altro da fare nei suoi territori e ha dovuto cambiare strada. I risultati non sono stati all'altezza del personaggio, e l'agonia musicale di Billy è stata (è ancora?) lunga e dolorosa, dapprima con gli ultimi lavori degli Smashing Pumpkins e poi col progetto Zwan. Quello che è certo è che con questo doppio album Billy Corgan e soci hanno lasciato ai posteri un monumento alla musica, una summa del rock (più o meno mainstream ) che assieme a pochi altri lavori potrebbe servire da sussidiario o compendio per iniziare a conoscere le infinite sfaccettature in cui si è evoluto dagli anni Settanta agli anni Novanta. (Fonte recensione: Ondarock)


    Mellon Collie and the Infinite Sadness

    Pubblicazione - 24 ottobre 1995
    Durata - 121 min : 50 s
    Dischi - 2 (versione CD)
    Tracce - 14 + 14 (versione CD)
    Genere - Alternative rock
    Indie rock
    Grunge
    Noise pop
    Neoprogressive
    Etichetta - Virgin Records
    Produttore - Alan Moulder, Billy Corgan, Flood
    Registrazione - tra il marzo e l'agosto del 1995 a Pumpkinland, Sadlands, Bugg Studios, Chicago Recording Company; the Village Recorder


    Tracce

    Versione in doppio CD

    CD 1: Dawn to Dusk

    Mellon Collie and the Infinite Sadness - 2:52
    Tonight, Tonight - 4:14
    Jellybelly - 3:01
    Zero - 2:41
    Here Is No Why - 3:45
    Bullet with Butterfly Wings - 4:18
    To Forgive - 4:17
    Fuck You (An Ode to No One) - 4:51
    Love - 4:21
    Cupid de Locke - 2:50
    Galapogos - 4:47
    Muzzle - 3:44
    Porcelina of the Vast Oceans - 9:21
    Take Me Down - 2:52 (James Iha)

    CD 2: Twilight to Starlight

    Where Boys Fear to Tread - 4:22
    Bodies - 4:12
    Thirty-Three - 4:10
    In the Arms of Sleep - 4:12
    1979 - 4:25
    Tales of a Scorched Earth - 3:46
    Thru the Eyes of Ruby - 7:38
    Stumbleine - 2:54
    X.Y.U. - 7:07
    We Only Come Out at Night - 4:05
    Beautiful - 4:18
    Lily (My One and Only) - 3:31
    By Starlight - 4:48
    Farewell and Goodnight - 4:22 (Corgan/Iha)


    Formazione

    Billy Corgan - voce, chitarre, piano, mellotron, arrangiamenti, produzione
    James Iha - chitarra, voce
    D'arcy Wretzky - basso, voce
    Jimmy Chamberlin - batteria, voce
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