Lottovolante pl@net

Votes taken by Lottovolante

  1. .


    EXHIBITIONISM
    VIAGGIO NELLA STORIA DEGLI STONES


    Dal 5 aprile al 9 settembre la Saatchi Gallery di Londra metterà in mostra oltre 500 pezzi tra strumenti, costumi, ricostruzione di backstage, tracce audio rarissime e diari personali


    Il primo e irripetibile viaggio nella storia dei Rolling Stones: l’appuntamento per andare alla scoperta dei segreti di Mick Jagger e soci è dal 5 aprile al 9 settembre alla Saatchi Gallery di Londra con Exhibitionism. Non poteva esserci titolo più azzeccato per la mostra che occuperà due piani con i suoi oltre 500 pezzi, divisi in nove gallerie tematiche: dalla ricostruzione di camerini e backstage ai bozzetti originali dei palchi, ma anche strumenti, costumi, tracce audio rarissime e persino i diari personali di Jagger, Keith Richards, Charlie Watts and Ronnie Wood. La mostra ha fatto discutere sin dalle prime fasi della promozione: l’immagine del designer Mark Norton – i celebri labbroni su degli slip femminili (vedi qui sotto) – è stata censurata, ma continua a circolare sui social insieme con l’hashtag #stonesim. «Sarà dieci volte quella di David Bowie!», disse Mick Jagger al momento dell’annuncio.

    Ora che il Duca Bianco non c’è più, dovrà mantenere quella promessa...

    Info: www.saatchigallery.com

  2. .


    I sei minuti epici che chiudono "Sticky Fingers" suonano come nessun altro pezzo nel epertorio dei Rolling Stones. Mick Jagger canta di perderso "sotto strani cieli", mentre percorre la strada che lo porta dal suo amore, con una melodia influenzata dalla musica giapponese e dal blues e raddoppiando la voce con la chitarra acustica. Il pezzo cresce così con i fiati e i violini orchestrati da Paul Buckmaster e la tensione drammatica della batteria, prima dell'entrata di Mick Taylor sulla coda strumentale. Come in "Sway" anche in questo brano Keith Richards non partecipa affatto...

    (Mark.Divine@74)


    Moonlight Mile
    Jagger-Richards - Da "Sticky Fingers" 1971

    When the wind blows and the rain feels cold
    With a head full of snow
    With a head full of snow
    In the window there's a face you know
    Don't the nights pass slow
    Don't the nights pass slow
    The sound of strangers sending nothing to my mind
    Just another mad mad day on the road
    I am just living to be lying by your side
    But I'm just about a moonlight mile on down the road
    Made a rag pile of my shiny clothes
    Gonna warm my bones
    Gonna warm my bones
    I got silence on my radio
    Let the air waves flow
    Let the air waves flow
    Oh I'm sleeping under strange strange skies
    Just another mad mad day on the road
    My dreams is fading down the railway line
    I'm just about a moonlight mile down the road
    I'm hiding sister and I'm dreaming
    I'm riding down your moonlight mile
    I'm hiding baby and I'm dreaming
    I'm riding down your moonlight mile
    I'm riding down you moonlight mile
    Let it go now, come on up babe
    Yeah, let it go now
    Yeah, flow now baby
    Yeah move on now yeah
    Yeah, I'm coming home
    'Cause, I'm just about a moonlight mile on down the road
    Down the road, down the road
  3. .


    YOUNGER THAN YESTERDAY
    The Byrds


    1967 (Columbia)


    Un disco cruciale nella storia del folk-rock

    Chi dice Byrds dice tante cose: folk-rock, raga-rock, country-rock, space-rock. Stili, intuizioni, "lampi" sonori che McGuinn e soci, in pochi anni di travolgente, continua evoluzione, lasciarono dietro di sé a beneficio di tutti i musicisti vogliosi di percorrere strade nuove. Perché, se è vero che il rock'n'roll si può suonare con tre-accordi-tre, è anche vero che questa musica, che inonda la nostra fantasia da più di cinquant'anni, ha saputo perennemente rigenerarsi, per proporsi e riproporsi ad almeno tre generazioni di appassionati ascoltatori (molti dei quali sono stati e sono anche emuli, con la chitarra in pugno, dei loro beniamini). Passiamo al disco clou (secondo chi scrive) del gruppo americano per antonomasia dei Sixties (ma sì, è chiaro, assieme ai Beach Boys, eroi del surf e quindi diametralmente opposti alla premiata ditta McGuinn & soci). "Younger Than Yesterday" - anche se sotteso da un unico, magico sound - è tutto meno che un concept album, perché vi coabitano alla grande ritmi e stili caratteristici delle diverse anime (almeno tre) del gruppo: il tintinnio pervicace di McGuinn con la sua fida Rickenbacker 360 12 corde, il sempre occhieggiante innamoramento per il country di Hillman e i deliri onirici - splendidi, fantastici - di David Crosby.


    Quando incidono l'album, i Byrds sono in quattro. Oltre a quelli citati, c'è Michael Clarke alla batteria, mentre Gene Clark, portabandiera dei primi lavori targati folk-rock, ha deciso di lasciare i clamori della scena per poi rientrare, di lì a poco, come raffinato solista. I due genietti della band, McGuinn e Crosby, novelli Lennon-McCartney, nei solchi del disco mettono le rispettive anime, ponendosi a confronto senza contrasti, ma, anzi, vivificando l'insieme proprio grazie alla profonda, evidente diversità d'ispirazione che genera risultati compositivi immediatamente distinguibili. Quel confronto umano e non solo artistico, che avrebbe in breve tempo, purtroppo, portato al divorzio, qui si esplica e vive reggendosi su un miracoloso equilibrio e raccordandosi agli spruzzi di tradizione Usa firmati Hillman. Tutto è perfetto, tutto è in linea con i Byrds che già conoscevamo e che adesso toccano i vertici di una psichedelia sognante già messa a punto nel precedente "Fifth Dimension". "So You Want To Be A R'n'R Star" apre la sfilata dei brani con un inno ironico e disincantato (punk ante litteram di una decina d'anni) che mette in guardia contro gli inganni delle luci della ribalta, dietro le quali stanno gli inutili urletti delle ammiratrici, l'avidità dell'industria discografica e i mille trabocchetti dei manager. L'assolo, anziché alla "Rick" di McGuinn, è affidato alla tromba, leggera e insinuante, di Hugh Musekela, a rendere tutto più aereo, più... levitante. Alla prima canzone fa da contrappunto la love song "Have You Seen Your Face", con un solo dirompente di chitarra fatto di note taglienti quanto mai prima. "CTA 102" paga il tributo byrdiano al mito dello spazio (i nostri sono, sì, contestatori, ma tengono pur sempre una bandiera a stelle e strisce nel cassetto): un riff ossessivo, interminabile, sembra un segnale radio inviato agli extraterrestri. La dolcezza dei Byrds emerge poi in "Renaissance Fair", sognante cronaca di una delle prime adunate rock, contrappuntata dalle note liquide della chitarra di McGuinn (Eric Burdon ne riprenderà un verso nella sua "Monterey"). Quanto al buon Chris Hillman, sono sue le bellissime "Thoughts And Words", "Time Between" e "The Girl With No Name". La prima punta a stupire (e ci riesce) col sound chitarristico registrato a rovescio (Beatles docent), mentre nelle altre due mette il suo sapiente zampino il futuro Byrd Clarence White, sciorinando piccoli assoli che scorrono sul vinile come i ruscelli sulle rocce montane a primavera. Abbiamo lasciato per ultimo Crosby, perché il suo discorso è davvero originale, si stacca dal resto, anticipando i fasti solistici di Dave e le insuperabili performance con Stills, Nash e Young. "Everybody's Been Burned" prima di tutto, ballata incantata nella quale, alla dolcezza del sound (con un McGuinn quasi jazzistico), fa da contraltare la profezia cruda dell'olocausto nucleare. E poi, "Mind Gardens", parabola crosbyana che aleggia sostenuta dal sitar: limpida, cantata nitidamente, intelligibile nelle singole sillabe. Ovviamente, non poteva mancare (siamo ad appena due anni da "Mr. Tambourine Man") l'omaggio al guru Dylan, con "My Back Pages", forte di un assolo di dodici corde tanto bello quanto semplice nel ripercorrere le note del cantato; una frase di questo brano (tributo dei tributi) dà addirittura il titolo all'album. A chiudere il tutto, "Why", in una versione diversa da quella del 45 giri, con la dodici corde di McGuinn che impazza a lungo nell'inciso solista e con uno splendido finale quasi strascicato, fatto di accordi secchi e sbavature solistiche (saranno in molti, soprattutto nelle garage band, a riprendere la song in pregevoli e fedeli cover). Volutamente, non è stata seguita esattamente la cronologia dei pezzi, preferendo enucleare le diverse anime che convivono nel disco. E' innegabile che la band avesse già dato magnifica prova di sé nei precedenti lavori discografici. Sta di fatto, però, che "Younger", assieme a "Fifth Dimension", celebra l'esplodere della fantasia creativa dei Byrds. Il folk-rock è ancora dietro l'angolo, ma, anche attraverso il filtro di suoni elettronici e di piccole invenzioni di studio (valide ancor oggi), gettando qua e là l'occhio sul country-rock prossimo venturo, sfocia in una psichedelia "non voluta", che nasce da dentro, dalla testa e dal cuore dei musicisti, trovatisi in uno di quei momenti di grazia che raramente si ripetono nel corso di una carriera artistica. Certo, i singoli componenti dei Byrds faranno ancora grandi, grandissime, cose, da soli e in compagnia (basti pensare ai trionfi che attenderanno Crosby negli anni a venire), ma questo quartetto (mettiamoci anche il buon Clarke ai tamburi) non si ripeterà più a certi livelli. Sì, arriverà l'anno seguente "Notorious", album che però suonerà un po' malinconico, sviluppando ed estremizzando concetti e suoni già cristallizzatisi nella loro perfezione in "Younger", e segnalandosi come canto del cigno di una band irripetibile, che si riformerà, sotto la sferza energica di McGuinn, con altri partner (bravissimi). Una band che, ammaliata dall'eterno mito western radicato nel Dna degli americani, saprà produrre ancora belle canzoni, ma mai come prima. Alla fine della strada, la reunion dei cinque Byrds originali, che incanteranno per forza e bravura, senza, però, più essere capaci di resuscitare il jingle-jangle sound che ci lasciò a bocca aperta 40 anni fa o giù di lì. Un'ultima nota sull'album. "Younger" è un lavoro che fa sognare (certe canzoni si gustano molto di più standosene sdraiati sul letto con gli occhi chiusi e, magari, con un bicchierino in mano), è un insieme di pezzi che sembrano volare (levitare) a qualche metro dal suolo, con quelle voci tese all'estremo, con le chitarre che cercano le ottave più alte, con le note che "sbavano" in tutte le direzioni. Questa è psichedelia, non voluta (come già detto), ma "scaricata" addosso agli ascoltatori da chi concepiva la musica (droga o non droga, chi lo sa?) come una cavalcata fuori dal mondo di tutti i giorni, come un filo sottile ma robusto che unisce chi, nella musica cerca la vita, la realizzazione di sé, e di qualche sogno. Basta lasciarsi andare e crederci.

    Younger Than Yesterday

    Pubblicazione - 6 febbraio 1967
    Durata - 29 min : 11 s
    Tracce - 11
    Genere - Rock
    Rock psichedelico
    Raga rock
    Etichetta - Columbia Records
    Legacy
    Produttore - Gary Usher


    Tracce

    Lato A

    So You Want to Be a Rock 'n' Roll Star - 2:05 - (McGuinn/Hillman)
    Have You Seen Her Face - 2:40 - (Hillman)
    C.T.A.-102 - 2:28 - (McGuinn/R.J. Hippard)
    Renaissance Fair - 1:51 - (Crosby/McGuinn)
    Time Between - 1:53 - (Hillman)
    Everybody's Been Burned - 3:05 - (Crosby)

    Lato B

    Thoughts and Words - 2:56 - (Hillman)
    Mind Gardens - 3:46 - (Crosby)
    My Back Pages - 3:08 - (Dylan)
    The Girl with No Name - 1:50 - (Hillman)
    Why - 2:45 - (McGuinn/Crosby)


    Formazione

    The Byrds

    Roger McGuinn – chitarra, voce
    David Crosby – chitarra, voce
    Chris Hillman – basso, voce (chitarra acustica in bonus track 12)
    Michael Clarke – batteria

    Musicisti aggiuntivi

    Hugh Masekela – tromba (traccia 1, bonus track 16)
    Cecil Barnard (Hotep Idris Galeta) – pianoforte (traccia 2)
    Jay Migliori - sassofono (traccia 4)
    Vern Gosdin – chitarra acustica (traccia 5)
    Clarence White – chitarra (tracce 5, 10)
    Daniel Ray (Big Black) – percussioni
    Musicista ignoto - organo (traccia 9)
  4. .


    "Dipende da me
    il cambiamento è arrivato
    lei è sotto al mio pollice"


    Un pezzo che entra nella storia per il testo misogino che parla di una donna sottomessa fino a diventare una "che parla solo quando le viene detto di farlo" e viene descritta come "un cane che scodinzola", un "gatto siamese" o "l'animale domestico più dolce". La musica però è seducente, grazie alle marimbas di Brian Jones e alla chitarra discreta di Richards, che aggiungono dolcezza alla baldanza di Jagger. Mick ha detto che il testo nasce dal fatto che al tempo aveva troppe "relazioni sbagliate". E' come una versione dark di un pezzo della Motown, sul quale per tutti gli anni Sessanta non splende mai il sole: gli Who ne fanno una cover nel 1967 per solidalizzare con la band in seguito al loro arresto per droga, e due anni dopo diventa addirittura la colonna sonora della morte di Meredith Hunter al concerto di Altamont. Dal punto di vista della scrittura, però, è uno dei momenti più alti della band.

    (Mark.Divine@74)


    Under My Thumb
    Jagger-Richards - Da "Aftermath" 1966

    Under my thumb
    The girl who once had me down
    Under my thumb
    The girl who once pushed me around

    It’s down to me
    The difference in the clothes she wears
    Down to me, the change has come
    She’s under my thumb
    Ain’t it the truth, babe?

    Under my thumb
    ‘S a squirmin’ dog who’s just had her day
    Under my thumb
    A girl who has just changed her ways

    It’s down to me, yes it is
    The way she does just what she’s told
    Down to me, the change has come
    She’s under my thumb
    Say it’s alright

    Under my thumb
    ‘S a Siamese cat of a girl
    Under my thumb
    She’s the sweetest pet in the world

    It’s down to me
    The way she talks when she’s spoken to
    Down to me, the change has come
    She’s under my thumb
    Take it easy babe

    It’s down to me, oh yeah
    The way she talks when she’s spoken to
    Down to me, the change has come
    She’s under my thumb
    Yeah, it feels alright

    Under my thumb
    Her eyes are just kept to herself
    Under my thumb, well I
    I can still look at someone else

    It’s down to me, oh, that’s what I said
    The way she talks when she’s spoken to
    Down to me, the change has come
    She’s under my thumb
    Say, it’s alright

    Take it easy, babe
    Take it easy, babe
    Feels alright
    Take it, take it easy, babe
  5. .


    YES I'M A WITCH TOO
    Yoko Ono


    2016 (Manimal Vinyl) | avant-pop


    A nove anni di distanza ecco il secondo capitolo di "Yes I'm A Witch"

    Quanto il personaggio e l’artista Yoko Ono siano fuori dagli schemi lo si deduce con evidenza fin dall’immagine di copertina, che mostra un’anziana signora ottantatreenne riversa in avanti a mostrare il proprio décolleté, neanche si trattasse di una soubrettina in erba. L’ego della donna che (secondo molti) contribuì in maniera determinante a mandare a rotoli la più importante pop band di tutti i tempi, e che si legò indissolubilmente ad uno dei più grandi songwriter di sempre, condividendone vita privata, artistica e impegno civile, non cessa certo con il passare del tempo. La sua discografia non eccelle per numeri imperdibili, ma la signora Ono ha avuto la capacità di capitalizzare al massimo quanto pubblicato negli anni, arrivando in tarda età alla decisione di (far) rimettere mano a molte tracce del passato, svecchiandole nei suoni e nell’aspetto grazie al contributo di musicisti molto più giovani di lei. Questo è il secondo capitolo di una saga iniziata nove anni fa con il credibilissimo “Yes I’m A Witch”: ora ulteriori diciassette tracce vengono ripensate e ristrutturate alla luce di nuovi interventi. Molto spazio viene concesso alla scena elettronica, con svariati episodi remixati per il dancefloor (“She Gets Down On Her Knee”, “Wouldn’t”) e su tutti il lungo remix firmato da Moby di “Hell In Paradise”, i quasi dieci minuti che chiudono sontuosamente la tracklist. Ma ci sono anche le decise chitarre di “Move On Fast” e “Coffin Car”, a determinare le sferzate più rock della scaletta, mentre “Mrs Lennon” pare uscita dalla colonna sonora di Kill Bill I, quasi fosse il commento del cartoon nel quale si narra la storia di O-Ren Ishii. Le amichette giapponesi Cibo Matto rivedono “Yes I’m Your Angel”, il figlio Sean mette le mani su “Dogtown”, tUnE yArDs fa un lavoro molto personale su “Warrior Woman”, i Death Cab For Cutie intervengono su “Forgive Me My Love”, mentre “Walking On Thin Ice” è arricchita da un arrangiamento basato sugli archi che ne sottolinea ancor di più la drammaticità. “Yes I’m A Witch Too”, una via di mezzo fra il disco tributo, il greatest hits e la traccolta di remix, pur nella sua discontinuità evidenzia una volta di più l’importanza della figura di Yoko per le generazioni a lei successive, la degna chiusura del cerchio di un percorso artistico che ha fatto dell’esplorazione la propria ragione di vita.


    Tracklist

    Walking on Thin Ice (with Danny Tenaglia)
    Forgive Me My Love (with Death Cab for Cutie)
    Mrs. Lennon (with Peter, Bjorn and John)
    Give Me Something (with Sparks)
    She Gets Down on Her Knees (with Penguin Prison)
    Dogtown with Sean Lennon
    Wouldn’t (with Dave Audé)
    Move on Fast (with Jack Douglas)
    Soul Got Out of the Box (with Portugal the Man)
    Approximately Infinite Universe (with Blow Up)
    Yes, I'm Your Angel with Cibo Matto
    Warrior Woman (with Tune-Yards)
    Coffin Car (with Automatique)
    I Have A Woman Inside My Soul (with John Palumbo)
    Catman (with Miike Snow)
    No Bed For Beatle John (with Ebony Bones)
    Hell In Paradise (with Moby)
  6. .


    "I'll stick my knife right down your throat, baby, And it hurts!"
    "Conficcherò il mio coltello nella tua gola, baby, e fa male!"



    "Nessuno aveva intenzione di fare un'opera blues" ha detto Richards nel 2002, "è venuta fuori così". Scritta da Mick e da Keith durante una vacanza in Italia con l'idea di dare un tempo diverso al blues di Chicago, è un epico pezzo lungo sette minuti, che dal vivo ha sempre funzionato benissimo fino ad oggi. Keith passa cinque notti la sua minacciosa parte di chitarra slide Brian Jones fa una delle sue ultime apparizioni con la band suonando le percussioni ("L'ultimo segnale prima del naufragio", ha detto in seguito Keith Richards). Scritta pensando al serial killer Alberto DeSalvo, lo strangolatore di Boston, assume un nuovo significato dopo i delitti della Manson Family. "Non so spiegarmi come abbiamo fatto a scrivere una canzone così oscura in un posto così bello e pieno di sole come l'Italia". (Mark.Divine@74)


    Midnight Rambler
    Jagger-Richards - Da "Let It Bleed" 1969

    Did you hear about the midnight rambler
    Everybody got to go
    Did you hear about the midnight rambler
    The one that shut the kitchen door
    He don't give a hoot of warning
    Wrapped up in a black cat cloak
    He don't go in the light of the morning
    He split the time the cock'rel crows
    Talkin' about the midnight gambler
    The one you never seen before
    Talkin' about the midnight gambler
    Did you see him jump the garden wall
    Sighin' down the wind so sad
    Listen and you'll hear him moan
    Talkin' about the midnight gambler
    Everybody got to go
    Did you hear about the midnight rambler
    Well, honey, it's no rock 'n' roll show
    Well, I'm talkin' about the midnight gambler
    Yeah, the one you never seen before
    [ad lib]
    Well you heard about the Boston...
    It's not one of those
    Well, talkin' 'bout the midnight...sh...
    The one that closed the bedroom door
    I'm called the hit-and-run raper in anger
    The knife-sharpened tippie-toe...
    Or just the shoot 'em dead, brainbell jangler
    You know, the one you never seen before
    So if you ever meet the midnight rambler
    Coming down your marble hall
    Well he's pouncing like proud black panther
    Well, you can say I, I told you so
    Well, don't you listen for the midnight rambler
    Play it easy, as you go
    I'm gonna smash down all your plate glass windows
    Put a fist, put a fist through your steel-plated door
    Did you hear about the midnight rambler
    He'll leave his footprints up and down your hall
    And did you hear about the midnight gambler
    And did you see me make my midnight call
    And if you ever catch the midnight rambler
    I'll steal your mistress from under your nose
    I'll go easy with your cold fanged anger
    I'll stick my knife right down your throat, baby
    And it hurts!
  7. .


    LULLABY AND...THE CEASELESS ROAR
    Robert Plant


    Nonesuch Records - 2014


    Suoni dal mondo e canzoni ispirate

    "Gli artisti sono come i pescecani: devono continuare a muoversi o sono destinati a morire", scrive un editorialista del New York Daily News mettendo impietosamente a confronto le carriere di Jimmy Page e di Robert Plant : il primo intento a lucidare per l'ennesima volta il catalogo storico dei Led Zeppelin vagheggiando una nuova reunion e rimandando a data da destinarsi la pubblicazione di un nuovo disco atteso da decenni; il secondo sempre in viaggio per il mondo con lo zelo infaticabile dell'esploratore di suoni e di culture. Capace di fare un passo avanti anche quando, come in questa occasione, torna indietro con una consapevolezza e un bagaglio di esperienze che rendono tutto diverso da quel che è stato. Dopo un lungo e fruttuoso soggiorno americano, Plant ha sentito forte il richiamo delle proprie origini tornando a vivere nelle sue terre di confine, tra l'Inghilterra e il Galles. Per farlo, si è lasciato alle spalle Nashville e Austin, Alison Krauss, Buddy Miller, la Band Of Joy e la relazione sentimentale con Patty Griffin, che in questo disco resta una presenza mai esplicita ma ricorrente e spettrale. Cosicché "lullaby and...The ceaseless roar" è un capitolo del tutto nuovo, e basta l'avventurosa rilettura iniziale dello standard bluegrass "Little Maggie" a spiegarlo: un kologo africano viaggia in coppia con un banjo americano intrecciandosi in un patchwork multicolore con percussioni tribali, il violino a una corda (ritti) del giovane griot gambiano Juldeh Camara e i loop elettronici di John Baggott, già collaboratore dei Portishead e artefice del Bristol Sound. Roba da farsi cacciare a pedate dal Ryman Auditorium - il tempio del country nashvilliano - ha spiegato ridacchiando lo stesso Plant al mensile inglese Uncut, convinto che questa sia la missione della musica: sparigliare le carte, disattendere le aspettative, spiazzare e provocare. Ci riesce benissimo, "Little Maggie", con quella fusione irresistibile di aromi folk e africani e un ritmo che non ti concede tregua insinuandosi sotto pelle: sul palco, e nei festival estivi da Glastonbury a Pistoia, ha fatto un figurone.


    - E' il miglior esempio di un progetto di "musica globale" molto ambizioso, che qualcuno potrebbe anche definirlo velleitario. Ma che funziona grazie al carisma del band leader e alla poliedrica flessibilità dei Sensational Space Shifters, un gruppo versatile di musicisti che tiene fede al suo nome impegnativo ricomponendo in sostanza il nucleo storico degli Strange Sensation ("Mighty rearranger", 2005) intorno alla figura chiave di Justin Adams, chitarrista rockabilly e cultore del blues africano del deserto che di Robert Plant è da anni il fedele braccio destro e che qui, oltre a Camara, porta in dote la giovane sezione ritmica dei suoi Ju-Ju mentre Liam "Skin" Tyson dimentica il passato Brit pop dei Cast per trasformarsi in una via di mezzo tra un barbuto folk singer e un guru psichedelico. Robert Plant ha sfidato i suoi musicisti a stracciare il libro delle regole tracciando sulla mappa inediti punti di contatto tra il Mali e le Marche gallesi, il folk celtico e il trip-hop passando per le imprescindibili fonti del blues: ne è scaturita una musica densa e stratificata, che rimane in equilibrio senza mai precipitare nel kitsch e nella cacofonia. Che sia stata registrata in parte ai Real World Studios di Peter Gabriel non sorprende assolutamente . I suoni nebbiosi, misteriosi e autunnali di "Embrace another fall" sono perfettamente in sintonica con quel marchio, quell'ambiente e quel laboratorio di suoni, l'incedere è quello di una carovana transoceanica e quando nel finale entra in scena la cantante gallese Julie Murphy quei versi in lingua gaelica riportano tutto a casa, tra "il gelo e la pioggia" di quelle aspre colline dalle parti del cottage di Bron-yr-aur. Significativo che siano tutti i musicisti a firmare i pezzi, e che Robert Plant diriga con mano sicura ma con apprezzabile understatement: invece di ruggire come ai vecchi tempi degli Zeppelin, le sue corde vocali accarezzano dolcemente e sussurrano, impennandosi in morbidi falsetti e acuti di intenso lirismo. L'ultima immagine del "Golden God", ci fossero dubbi, resta fissata a quella sera del dicembre 2007 alla O2 Arena di Londra e i fan irriducibili degli Zeppelin si mettano il cuore in pace: del Dirigibile qui sopravvive giusto qualche sporadico riff e arpeggio di chitarra ("Somebody there", ricordi di infanzia nella campagna inglese evocati da una melodia che ricorda un po' "Tangerine" e un po' "Over the hills and far away") e qualche richiamo testuale, tra la "strada che rimane la stessa" di "Turn it up" - il pezzo più teso e nervoso, il momento rivelatore in cui Robert Plant in giro in auto per il Mississippi si sente sperduto nel grande paesaggio americano, disconnesso, lontano da se stesso e desideroso di ritrovarsi - e nella prima strofa di "Pocketful of golden" che ricalca quella di "Thank you" dal lontanissimo "Led Zeppelin II" del 1969.

    Lullaby and... The Ceaseless Roar

    Pubblicazione - 8 settembre 2014
    Tracce - 11
    Genere - Rock
    Folk rock
    World music
    Etichetta - Nonesuch Records
    Warner Bros. Records


    Tracce

    Little Maggie – 5:06 (musica: tradizionale, arr. di Robert Plant, Justin Adams, John Baggott, Billy Fuller, Dave Smith, Liam "Skin" Tyson)
    Rainbow – 4:18 (musica: Plant, Adams, Baggott, Fuller, Tyson)
    Pocketful of Golden – 4:12 (musica: Plant, Adams, Baggott, Juldeh Camara, Fuller, Smith, Tyson)
    Embrace Another Fall – 5:52 (musica: Plant, Adams, Baggott, Camara, Fuller, Smith, Tyson)
    Turn It Up – 4:06 (musica: Plant, Adams, Baggott, Fuller, Smith, Tyson)
    A Stolen Kiss – 5:15 (musica: Plant, Adams, Baggott, Fuller, Tyson)
    Somebody There – 4:32 (musica: Plant, Adams, Baggott, Fuller, Smith, Tyson)
    Poor Howard – 4:13 (musica: Plant, Adams, Baggott, Camara, Fuller, Smith, Tyson)
    House of Love – 5:07 (musica: Plant, Adams, Baggott, Fuller, Smith, Tyson)
    Up on the Hollow Hill (Understanding Arthur) – 4:35 (musica: Plant, Adams, Baggott, Fuller, Tyson)
    Arbaden (Maggie's Babby) – 2:44 (musica: Plant, Adams, Baggott, Camara, Fuller, Smith, Tyson)


    Formazione

    Robert Plant - voce

    The Sensational Space Shifters

    Justin Adams - cori, chitarra, percussioni
    Liam "Skin" Tyson - cori, banjo, chitarra
    John Baggott - cori, tastiere, loop, moog, piano
    Juldeh Camara - cori, percussioni
    Billy Fuller - basso
    Dave Smith - batteria
  8. .


    SABBATH BLOODY SABBATH
    Black Sabbath


    Castle - (1973)


    Una contaminazione tra il suono duro e pesante tipico del gruppo con atmosfere progressive

    Con l'autoreferenzialità giunge anche il terzo grande album del gruppo, a testimonianza che le notti passate tra colli e umidi di sottobosco sono fonte di rara ispirazione. Sabbath bloody sabbath è un manifesto: sembra non essersi spostati dall'impero fantastico di "War pigs", "A national acrobat" da tutti i motivi per essere ascoltata e vissuta dall'inizio alla fine: sembra promettere, su di un letto, in penombra o nel buio più totale gli effetti di tante droghe assunte e comunque sempre sostenute e superate con il credere, il potente credere nel fascino di stati supremi quali le visite di notte ai cimiteri e le scorribande tra foreste sconosciute limitrofe di città altrettanto potenzialmente nemiche. C'è una forza però che rende saldamente possibile tutto questo: se il male siamo noi chi altri potrà farcelo? "Fluff" ritorna all'acustico: e la sua grazia e sincerità prende il sopravvento su qualsiasi retorica artificiosa. "Sabbra cadabra" vanta il riff per eccellenza: l'iniziale, uno dei più famosi della storia del rock. "So" continua con il sabba consueto fino arrivare al culmine: il confine più remoto della voce di Ozzy Osbourne che fa l'impossibile in termini di struggimento ed effetto: è un secondo, e non è un orgasmo, ma una lacrima che cade, secca, in un deserto (certo non il brano, ottimo in tutte le sue parti, ma il mondo quotidiano, dell'ascoltatore, anni luce lontano dall'evasione nell'occulto, magico e poetico). "Killing yourself to live" ha un titolo che testimonia da solo quello che dicevamo prima dei propositi dei Black Sabbath, e questo titolo giunge a generazioni di musicisti metal ai quali serve come base programmatica di filosofia. "Who are you?" si abbandona alla resa dell'acido lisergico che pare calare dal cielo in cui è effigiato un giudizio universale dove trova spazio solo l'inferno. E con calma viene affrontato, con la calma di chi non cerca altro essendo il suo vivere morire. Da qui il compiacimento di tutto ciò e l'incoraggiamento (la catarsi sabbathiana) a sopportarlo. Poi la melodia, come nell'addio quando ci si gira indietro, si lancia in una commozione finale ed assoluta. "Looking for today" è dozzinale pur con un flauto che incoraggia l'esacerbare di Ozzy Osbourne; "Spiral architect" consuma di maestà, empio di toccate e fughe, si staglia in una domenicale festività dove le campane del matrimonio altrui sono tanto più care quanto si sa che quelle nostre saranno solo di funerale.


    Sabbath Bloody Sabbath

    DOWNLOAD

    Pubblicazione - 1º dicembre 1973Regno Unito
    gennaio 1974 Stati Uniti
    Durata - 42 min : 31 s
    Tracce - 8
    Genere - Heavy metal
    Rock progressivo
    Etichetta - Vertigo Records - Regno Unito
    Warner Bros. Records - Stati UnitiCanada
    Produttore - Black Sabbath
    Registrazione - settembre 1973 nello studio no.4 dei Morgan Studios di Londra


    Tracce

    Tutti i brani sono stati composti da Ozzy Osbourne, Bill Ward, Geezer Butler e Tony Iommi.

    Sabbath Bloody Sabbath - 5:45
    A National Acrobat - 6:13
    Fluff - 4.09
    Sabbra Cadabra - 5:57
    Killing Yourself to Live - 5:41
    Who Are You? - 4:10
    Looking For Today - 5:01
    Spiral Architect - 5:31


    Formazione

    Ozzy Osbourne - voce
    Tony Iommi - chitarre elettriche ed acustiche, pianoforte, sintetizzatore, flauto
    Geezer Butler - basso, sintetizzatore, mellotron
    Bill Ward - batteria, timpani; bongo in Sabbath Bloody Sabbath
  9. .


    ZEROFOBIA
    RENATO ZERO


    1977 - Rca Italiana



    "Ho smarrito, un giorno, il mio circo,
    ma il circo vive senza di me!
    Non è l’anima tua che io cerco, io sono solo più di te!"

    (dal brano "Mi vendo")

    "Attenzione, avvertiamo i passeggeri di avere una sgualdrina a bordo, siete pregati di allacciare le cinture di castità e di non fumare, grazie".

    Dopo una gavetta lunghissima (l'esordio in concerto c'era stato nel 1964, le prime incisioni nel 1965, poi il teatro, il cinema, il musical, fino a tre album di scarso o medio successo), nel 1977 Renato Zero incassa i frutti di tanta attesa. 'Zerofobia' arriva come un fulmine a ciel sereno nel panorama del cantautorato mainstream, che a quel tempo era o d'amore o di protesta. La genialità di Renato Zero sta nell'aver sovrapposto i due generi, unendone un terzo, quella della trasgressione e dell'ambiguità sessuale, che all'epoca rappresentava indubbiamente una novità. A rendere ancor più esplosiva la miscela, c'era il fatto che Zero, truccato pesantemente e ancheggiante più che mai, coloriva alcuni suoi brani di una forte valenza tradizionalista e ultracattolica. Insomma, tutto e il contrario di tutto. Ecco perché questo 'Zerofobia', che personalmente ritengo uno degli album più riusciti e godibili nell'ambito della musica italiana (lo spettacolo dal vivo, comunque, è cento volte meglio) rappresenta la summa artistica del cantautore della Montagnola. L'album si apre con "Mi vendo", (va bene, la conosciamo tutti…), che su un arrangiamento disco (in definitiva siamo nel 1977) racconta una storia che sembra scritta per il 2006: un imbonitore che vende grinta e felicità a chi ne è sprovvisto. Segue l'intensa "Vivo" e poi si passa a "Sgualdrina", una bizzarra cover di "Dreamer" dei Supertramp (il titolo parla da sé). Da qui in avanti gran parte del disco ruota intorno alla figura di questa donna con la quale, evidentemente Renato doveva avere un conto aperto. E' sempre lei la protagonista di "Tragico samba", che si trascina tra psicofarmaci, violenze sessuali e aborti a raffica. La cavalcata misogina prosegue con "L'ambulanza" e con la strepitosa "Morire qui", impietosa cronaca rock di un amore allo stadio terminale ("Che strano esisto anch'io sotto il tuo stesso tetto/Quello che siamo noi è un letto ormai disfatto/Senza più un avvenire, senza più dignità/Con il veleno nel cuore, nella meschinità"). "La trappola" è un altro rock di immediato impatto (dal successivo Zerolandia si passerà a un pop molto più melodico e edulcorato), mentre "Regina" conferma che questo è un concept album dedicato a una donna di dubbia virtù ("Sporca, ladra, rubi e te ne vai/Quando un uomo non conosce i vizi tuoi/Quando un uomo accanto a te non è un uomo mai/Mai"). La chiusura è affidata a due capolavori (opinione personale): "Manichini", ovvero gli esseri umani come fantocci, ma inconsapevoli di esserlo ("Chi ti muove i fili è Dio o Satana/Chi ti muove i fili è maschio o femmina/Chi ti prega, chi ti odia, chi ti aspetterà/Qualcuno, o qualche cosa, i fili certo muoverà"); e "Il cielo", clamoroso affondo antiabortista che da quel momento diventa la sua canzone simbolo.. Il testo lo metto tutto perché merita davvero. E chiudo in gloria.

    "Quante volte ho guardato al cielo/Ma il mio destino è cieco e non lo sa/E non c'è pietà per chi non prega e si convincerà/Che non è solo una macchia scura il cielo.

    Quante volte avrei preso il volo/ma le ali le ha bruciate già/La mia vanità e la presenza di chi è andato già/Rubandomi la libertà,il cielo.

    Quanti amori conquistano il cielo/Perle d'oro nell'immensità/Qualcuna cadrà, qualcuna invece il tempo vincerà/Finché avrà abbastanza stelle il cielo.

    Quanta violenza sotto questo cielo/Un altro figlio nasce e non lo vuoi/Gli spermatozoi l'unica forza tutto ciò che hai/Ma che uomo sei, se non hai il cielo."



    Zerofobia

    ASCOLTA L'ALBUM

    Pubblicazione - 1977
    Durata - 38 min : 29 s
    Tracce - 10
    Genere - Pop
    Etichetta - RCA Italiana, PL 31271


    Tracce

    Mi vendo (Renatozero/Caviri-Renatozero) - 4:16
    Vivo (Evangelisti/Wright-Renatozero) - 3:55
    Sgualdrina (cover in italiano di Dreamer dei Supertramp) (Renatozero/Hogdson-Davies) - 3:16
    Tragico samba (Evangelisti-Renatozero/Pintucci-Renatozero) - 4:15
    L'ambulanza (Renatozero/Pintucci-Conrado-Renatozero) - 3:53
    Morire qui (Renatozero) - 3:36
    La trappola (Renatozero/Conrado-Renatozero) - 3:53
    Regina (Renatozero-Evangelisti/Conrado-Renatozero) - 3:34
    Manichini (Renatozero/Pintucci-Renatozero) - 3:22
    Il cielo (Renatozero) - 4:15

    Fonte recensione: Debaser
  10. .


    A HARD DAY'S NIGHT
    The Beatles


    1964 (Parlophone)


    La colonna sonora del loro omonimo e primo film

    Mentre With The Beatles era stato quasi un rifacimento di Please Please Me, sebbene non privo di spunti e segnali di crescita, A Hard Day's Night fu qualcosa di completamente diverso. In primis, quasi raddoppiava da solo il numero di brani originali del gruppo usciti su LP. Inoltre, era il primo album interamente composto di composizioni originali (e resterà l'unico dell'intera discografia dei fab four a presentare solo canzoni di Lennon e McCartney). Ancora, presenta le prime vere ballate del gruppo, mentre finora i Beatles si erano al più avventurati in qualche brano secondario in tempo moderato (All I've Got To Do, Not A Second Time). Anche la strumentazione vede una significativa evoluzione, con il frequente utilizzo di chitarre acustiche e a dodici corde. Con l'eccezione di quest'ultimo aspetto, le restanti qualità di A Hard Day's Night non trovarono da subito un'applicazione continuativa, e nei due successivi album i Beatles tornarono ad attingere abbondantemente al loro repertorio di cover; per quanto riguarda la composizione di brani squisitamente romantici e prevalentemente acustici, l'album A Hard Day's Night da solo ne annovera un numero maggiore dei due album successivi.


    Dal punto di vista degli equilibri interni della band, ciò che balza all'occhio è il peso della contribuzione di John Lennon all'album: nove brani su tredici sono pressochè interamente suoi, a cui si aggiungono A Hard Day's Night di cui fu l'autore principale ed And I Love Her cui contribuì con la sezione a contrasto. Alcuni attribuiscono questa esplosione creativa all'intento di John di ribadire la propria leadership del gruppo - che all'epoca era ben percepita sia all'interno, sia all'esterno della band - e che era stata intaccata dal grande successo di Paul con la sua All My Loving (inclusa tra l'altro nell'epocale esibizione all'Ed Sullivan Show). D'altro canto, le canzoni di McCartney, pur non rilevanti numericamente, confermavano la sua rapida crescita come autore: i suoi tre brani sono senza dubbio tra i migliori di un disco eccezionale oggi come allora. A Hard Day's Night fu un'anticipazione di quasi tutte le caratteristiche che avrebbero, nel giro di due anni e mezzo, trasformato i Beatles da un notevolissimo fenomeno commerciale ad un mito intramontabile: l'album contiene coinvolgenti brani rock, delicate ballate, splendide melodie, motivi orecchiabili, eccelse interpretazioni vocali. Anche strumentalmente i brani diventano più preziosi e rifiniti, mentre acquista centralità il lavoro chitarristico di George Harrison. Solo Ringo Starr rimane un po' in ombra, nell'unico album insieme a Let It Be in cui non ricopre nemmeno una volta il ruolo di cantante. Se A Hard Day's Night non viene quasi mai citato come possibile miglior album dei Beatles, ciò è dovuto semplicemente al fatto che in seguito il gruppo realizzò dischi ancora migliori. Tuttavia, per la qualità media dei brani che contiene (in fondo l'unico vero riempitivo è I'm Happy Just To Dance With You), per il suo essere a metà strada tra l'ingenua semplicità degli esordi e l'acquisizione di una maggiore consepevolezza, nonchè per la pura e intramontabile bellezza di brani come If I Fell, I'll Be Back e And I Love Her, è senz'altro uno dei loro dischi più compiuti, in assoluto il meno intaccato da compromessi di ogni sorta.


    A Hard Day's Night

    Pubblicazione - 10 luglio 1964
    Durata - 30 min : 30 s
    Tracce - 13
    Genere - British invasion
    Pop rock
    Rock and roll
    Folk rock
    Beat
    Pop
    Etichetta - Parlophone (in Italia: Parlophon PMCQ 31504)
    Produttore - George Martin
    Registrazione - gennaio-giugno 1964


    Tracce

    Tutti i brani sono accreditati a John Lennon e Paul McCartney. Questo è l'unico caso nella discografia beatlesiana.

    A Hard Day's Night
    I Should Have Known Better
    If I Fell
    I'm Happy Just to Dance with You
    And I Love Her
    Tell Me Why
    Can't Buy Me Love
    Any Time at All
    I'll Cry Instead
    Things We Said Today
    When I Get Home
    You Can't Do That
    I'll Be Back


    Formazione

    John Lennon - voce, chitarra ritmica, armonica, tamburello; chitarra solista in You Can't Do That; pianoforte in Things We Said Today
    Paul McCartney - voce, basso, pianoforte; chitarra addizionale in I'll Be Back
    George Harrison - chitarra solista, cori; voce in I'm Happy Just to Dance with You
    Ringo Starr - batteria, campanaccio, maracas, tamburello

    Altri musicisti

    George Martin - pianoforte
  11. .


    JUVENTUS-NAPOLI 1-0
    ZAZA SORPASSO SCUDETTO ALL'88'


    I bianconeri vincono lo scontro diretto con una rete del centravanti (complice la deviazione di Albiol) e centrano la quindicesima vittoria consecutiva


    Finisce con lo Stadium che canta beffardo "O surdato 'nnammurato" e i giocatori del Napoli che escono di corsa a testa bassa. Anche se nella notte di San Valentino una passione travolgente esplode comunque. Quella della Juventus per Simone Zaza, l’anatroccolo spelacchiato che a due minuti dal 90’ schioda uno 0-0 che sembrava scolpito nella pietra. Dopo una partita equilibrata, con un’occasione enorme per parte, in cui nessuna delle due aveva incantato. Nonostante una supremazia della Juve abbastanza evidente. Nelle grandi serie, come quella bianconera (giunta a quota 15 in campionato) ci vuole anche un pizzico di fortuna, recapitata stasera sotto forma della deviazione di Albiol che sporca il tiro dell’ex Sassuolo rendendolo imparabile per Reina. Il gol-partita arriva quando anche Allegri sembra aver accettato il pari, col cambio Alex Sandro-Dybala. Comunque poche storie: questa Juve che ribalta il campionato, ritrovando per la prima volta la vetta in stagione, compie una grande impresa. Firmata in primis dalla sua difesa, con un Bonucci perfetto fino alla sostituzione per infortunio, un Barzagli clamoroso nel ridurre quasi all' impotenza Gonzalo Higuain e nel fare da chioccia all’incoraggiante spezzone di Rugani. Il Napoli non esce ridimensionato: uomini chiave hanno giocato una partita troppo brutta per essere vera, Insigne su tutti. Male anche Higuain e Hamsik. Tuttavia, se Maurizio Sarri sarà bravo a far assorbire lo schiaffo ai suoi, correrà sicuramente fino a maggio...

    GUARDA GLI HIGHLIGHTS


    LA CRONACA

    Allegri, a corto di centrali, abbandona il 3-5-2 per un 4-4-2 in cui Barzagli è alla sinistra di Bonucci, Finezza tattica per poter passare più agevolmente a 3 in corso d’opera. Sarri presenta il solito Napoli, in cui l’importanza di Jorginho è lampante e i due esterni faticano a trovare Higuain. Soprattutto Insigne stecca, non creando nulla e buttando via un paio di palloni meritevoli di miglior trattamento. Se cercate un Napoli ammaliatore, che predica calcio, non è lo Stadium l’indirizzo giusto. Sarri schiera una squadra molto corta, molto brava a raddoppiare un Cuadrado che è l’unico vero grimaldello della Juve. L’ex Chelsea fa girare la testa a Koulibaly in avvio, prologo di una gara in cui sbaglierà qualche scelta ma sarà l’unico in grado di far saltare gli schemi difensivi del Napoli. Suo l’unico tiro in porta dei primi 45’: Reina c’è. Il Napoli si conferma squadra notevolissima nel ribaltare il fronte. Il cross di Hysaj, ben eseguito in una personale serata di tiro al piccione, troverebbe il Pipita pronto a metterla in porta, se non fosse per un clamoroso intervento di Bonucci. Delizioso quando imposta, decisivo quando difende: non ce ne sono molti più forti dell’ex barese a livello europeo. Lo 0-0 del riposo è comunque verdetto corretto, anche perché la gran parata di Buffon su Albiol è vanificata da un precedente fischio di Orsato per un fallo dello stesso spagnolo. Passano i minuti. C’è Rugani in difesa. La Juve fatica a creare gioco nonostante qualche fiammata di Pogba. Morata, sostituito da Zaza, e Dybala, sciupone sull’assist di Pogba sulla chance bianconera più nitida, non mettono mai in crisi la difesa di Sarri. Stesso copione sull’altro fronte, dove un sinistro di Hamsik è l’unico pericolo,per Gianluigi Buffon. Ma la notte di San Valentino, per definizione, non si può andare in bianco: a due minuti dalla fine Zaza si porta a spasso un Koulibaly rivedibile e schiocca la bomba da tre punti che può cambiare tutto il campionato...

    JUVENTUS-NAPOLI 1-0
    (primo tempo 0-0)

    MARCATORE: Zaza al 43' s.t.

    JUVENTUS (4-4-2): Buffon, Lichtsteiner, Barzagli, Bonucci (dal 7' s.t. Rugani), Evra, Cuadrado, Khedira, Marchisio, Pogba, Dybala (dal 41' s.t. Alex Sandro), Morata (dal 13' s.t. Zaza). (Neto, Rubinho, Romagna, Padoin, Sturaro, Hernanes, Pereyra, Favilli). All. Allegri

    NAPOLI (4-3-3): Reina; Hysaj, Albiol, Kouibaly, Ghoulam; Allan (dal 45' s.t. Gabbiadini), Jorginho, Hamsik; Insigne (dal 32' s.t. Mertens), Higuain, Callejon. (Gabriel, Rafael, Chiriches, Maggio, Strinic, Regini, David Lopez, Chalobah, Valdifiori, El Kaddouri). All. Sarri.

    ARBITRO: Orsato di Schio

    NOTE: ammoniti Callejon (N) per c.n.r., Pogba (J), Marchisio (J), Koulibaly (N) per gioco scorretto

  12. .


    LAYLA AND OTHER ASSORTED LOVE SONG
    Derek and the Dominos


    1970 - Polydor Records


    L'unico lavoro in studio pubblicato dal gruppo di New York

    Se nel 1970 un chitarrista venticinquenne si fosse svegliato al mattino blaterando di aver suonato negli Yardbirds, coi Bluesbreakers di John Mayall, nei Cream e nei Blind Faith, e se si fosse anche vantato di aver ricevuto anonime dediche sui muri che ne esaltavano la natura divina, sarebbe stato da tutti considerato un pazzo svitato oppure... Eric Clapton. A Eric piaceva suonare, ma non amava la routine, necessitava di stimoli nuovi, voleva progredire, crescere, creare, non amava molto il music business (all’epoca almeno), e cominciava a soffrire il peso della notorietà. Detestava l’immobilismo, il dover suonare sempre gli stessi brani, temeva di cadere nella monotonia. Le sue esperienze precedenti durarono poco essenzialmente per questi motivi, lì dove Eric non vedeva possibilità di maturazione artistica, lasciava, abbandonava in cerca di novità. Durante l'ultimo tour negli U.S.A. insieme ai Blind Faith, Eric fu piacevolmente colpito dal gruppo di supporto: Delaney & Bonnie (band capeggiata dai coniugi Dealaney e Bonnie Bramlett). Cominciò a collaborare con loro, collaborazione che si estese fino al suo album di debutto, “Eric Clapton” del 1970. Il celebre chitarrista, che in quel periodo iniziò a fare un uso sempre più massiccio di droghe, stava vivendo una difficile situazione personale. Si era, infatti, preso una bella cotta, anzi qualcosa di più, per la moglie del suo grande amico e collega George Harrison: Pattie Boyd. In Eric vi era un turbine di emozioni difficili da conciliare: da una parte l’amore, dall’altra l’amicizia con George che non aveva intenzione di rovinare. Inoltre la ragazza, pur conoscendo i sentimenti di Eric, non era disposta a contraccambiare.


    Intanto non tutto filava liscio nei Delaney & Bonnie, le personalità in continuo contrasto fra loro dei due coniugi non garantivano serenità e futuro roseo, così alcuni musicisti della band fra i quali Bobby Whitlock (tastiere e voce), il bassista Carl Radle e il batterista Jim Gordon lasciarono il gruppo e proposero a Eric di unirsi loro per suonare qualcosa insieme. Il feeling c'era, Eric accettò di buon grado. Il nome Derek and The Dominos fu quasi casuale: Clapton voleva restare nell’anonimato e durante un concerto suggerì al presentatore il nome Del & the Dominos, ma questi, non capendo bene, lo storpiò in Derek & the Dominos, che comunque fu accettato di buon grado. I quattro, in agosto, si trasferirono a Miami, in Florida, per mettere su un disco. Se la presero con molta calma: mattina in piscina, pomeriggio in studio. Droga, alcool e cibo fritto. Non proprio un cocktail salutare insomma. La voglia di suonare c'era, ma l'ispirazione latitava e il numero di brani composti su cui lavorare non era di certo corposo. Le frustrazioni d’amore di Eric erano già una bella fonte d’ispirazione, ma qualcosa non filava, non riusciva a tramutare quei sentimenti, quelle sensazioni, in musica. Una sera i quattro furono invitati ad assistere a un concerto dell’Allman Brothers Band che si trovava da quelle parti. Fu la svolta. Eric restò piacevolmente impressionato dal loro sound, ma soprattutto dal chitarrista Duane Allman. Senza esitare Eric lo avvicinò dopo il concerto e gli chiese se gli interessasse unirsi a loro per incidere qualcosa insieme. Allman diede l’ok. Per ammissione dello stesso Eric Clapton fu proprio l'arrivo di Duane Allman a infondere nel gruppo nuova linfa creativa. Per Eric Duane era il fratello musicale che non aveva mai avuto, il suo stile s’integrava magnificamente col suo. Il chitarrista americano era un asso della tecnica slide, e usava pizzicare le corde con le dita, preferendo il fingerpicking al classico uso del plettro, l’esatto opposto di Eric, quindi il complemento perfetto. Peccato che Duane Allman già avesse una famiglia, e subito dopo l'incisione del disco vi ritornò. Senza di lui i Dominos non furono più gli stessi e non fecero molta strada, ma quei giorni ai Criteria Studios di Miami furono magici. La penuria creativa divenne fertilità e ben presto si trovarono per le mani tanto materiale da poter allestire addirittura un doppio lp. La maggior parte dei brani fu composta da Eric Clapton e rifletteva più o meno direttamente la sua situazione personale e l'amore non corrisposto per Pattie. Canzoni d'amore sofferte quindi, ma anche piene di speranza. A queste si aggiunsero alcune cover blues, che ci stanno sempre bene. Se fino a quel momento Eric era stato uno degli eroi del british blues, nerboruto e sanguigno, con questo disco il chitarrista, si sposta verso un rock blues di gran classe, più morbido, più fine, molto più vicino alla tradizione e alle sonorità tipicamente a stelle e strisce. La svolta stilistica fu in pratica contemporanea al passaggio, ufficializzato dalla foto sul retro del disco, alla Fender Stratocaster, che di qui in avanti diventerà la sua chitarra per eccellenza. Fra atmosfere rilassate, ma niente affatto sornione e suoni caldi, avvolgenti, a spiccare è la straordinaria qualità delle esecuzioni. C’è spazio sufficiente per tutti, una certa tendenza alla jam, ma non a quelle tipiche free form basate su un semplice tema che poi è ampliato e rimescolato, bensì su pregevoli interventi strumentali che vanno ad arricchire brani già forti e solidi. La sezione ritmica guidata dal grande batterista Jim Gordon (che Eric definirà il migliore col quale abbia mai lavorato) e Carl Radle sostiene il tutto con vigore, ma senza mai sfociare in territori tipicamente hard. Trattasi di rock blues elegante, raffinato, ma anche sufficientemente deciso ed energico. Bobby Whitlock si dimostra pedina essenziale, non solo perché le sue tastiere fanno da cornice a tutto il disco, ma anche per le pregevoli parti cantate, nelle quali col suo vocione soul riesce a dare spessore e intensità lì dove Eric più di tanto, a livello vocale, non poteva osare. E poi quelle due chitarre li, a fare i miracoli. L’opera si apre con la soffice “I Looked Away”, un brano leggero, quasi pop, che introduce alla perfezione lo stile e il sound dell’intero disco. A volte i testi di Eric Clapton erano ispirati da cose apparentemente banali. “Bell Bottom Blues” in questo senso è emblematica. Pattie chiese a Eric di portarle dall’America un paio di bell bottom jeans, cioè quelli tipici a zampa anni settanta ed Eric compose una delle sue migliori canzoni. Bell Bottom Blues è un autentico capolavoro, una ballad romantica, forse un po’ zuccherosa, ma mai melensa. Un pezzo caldo, avvolgente, orecchiabile. Clapton la canta a meraviglia, aiutato anche da Whitlock; dolci versi dai quali è impossibile non farsi cullare. A seguire un’altra meraviglia: “Keep On Growing”. Qui i ritmi si fanno un po’ più sostenuti, un’andatura quasi reggae. La canzone fa venire in mente le spiagge di Miami, il sole, l’estate. Un pezzo che deve prendere aria, che ha bisogno di liberarsi in spazi ampi, fresca e vitale. Il cantato di Withlock qui fa la differenza e consente notevoli impennate di pathos. Sullo stesso canovaccio si sviluppa “Anyday”, forse appena più melodica e rilassata. Anche questo è un pezzo corale, con intrecci di chitarre che dilatano il tutto quanto basta, senza eccedere. Una delle carte vincenti del disco sarà proprio questa: tutto è perfettamente calibrato, tutti danno il massimo, ma in maniera misurata, senza eccessi di protagonismo. “Key to the Highway” è una splendida cover. Un classico mid tempo blues, con interventi strumentali di livello elevatissimo. Qui Eric e Duane fanno sfoggio di tecnica e stile. Si tratta di un tipico brano che fa da vetrina all’estro e all’inventiva dei due musicisti. Con i suoi quasi dieci minuti, è un compendio perfetto della chitarra blues, una sorta di breviario che ogni buon chitarrista dovrebbe tenere a portata di mano. Forse un po’ manieristico, ma tanta classe e grazia tutte insieme son difficili da trovare. Sembra proprio non vogliano smettere, si sente il tipico piacere del suonare insieme. “Tell the Truth” strizza l’occhio al nascente movimento Southern rock, con la sua tipica andatura indolente ma scandita da ottime impennate elettriche. Sembra quasi anticipare il sound e lo stile dei Lynyrd Skynyrd. “Why Does Love Got To Be So Sad” è la canzone perfetta per una corsa a briglie sciolte sulle highway americane. I ritmi sono travolgenti, la sezione ritmica impetuosa e Duane semplicemente incredibile. Un po’ una sorta di super funk rock. Il pezzo più sostenuto del disco. Mentre Clapton tiene il tempo, Allman ricama assoli mirabili per intensità e gusto melodico. Si arriva così all’ennesimo capolavoro: “Little Wing”. Eric Clapton qui rende omaggio l’amico Jimi Hendrix, e i cinque plasmano una delle migliori cover di sempre, molto diversa dall’originale, forse per questo ancora più apprezzabile, perché non fa il verso a Hendrix, ma rivolta le carte in tavola e partorisce qualcosa di completamente nuovo, inedito. Si apre a mo’ di marcia trionfale e poi… poi poesia in musica. Un fraseggio sublime e sfumato che sembra provenire da una terra lontana, meraviglioso, impalpabile, sfuggente. Il cantato di Eric, in coppia con Bobby, è sofferto, quasi urlato. A differenza dell’originale dolce e leggera, qui c’è molta più tensione, una cornice quasi drammatica sembra avvolgere il tutto. Duane nell’assolo sale su, dove solo Jimi poteva arrivare. C’è un passaggio memorabile durante quell’assolo, delle note che raggiungono il cielo, oltre l’umana percezione. Il Blues cosmico di Jimi sembra guidare le dita di Duane. Peccato solo che lo stesso Hendrix non riuscirà ad ascoltarla perché morirà poco prima dell’uscita dell’album. “It’s Too Late”, leggera e orecchiabile arriva con tempismo perfetto a smorzare un po’ la tensione di Little Wing, con un’andatura più rilassata; siamo dinanzi a un altro brano più che godibile, di spessore, tanto per cambiare. E si giunge così alla title track che si apre con uno dei riff più memorabili nella storia del rock. Il brano, interamente dedicato a Pattie, è fra i più famosi di Clapton; un rock blues infuocato con chitarre e sezione ritmica a livelli eccelsi ed è cantato da Eric Clapton in maniera impeccabile. Sentiva molto quei versi, e la cosa appare più che evidente ascoltando la sua voce. Lo stesso Clapton si dimostra ancora ottimo chitarrista ritmico (confermando così di essere musicista straordinariamente completo), mentre Duane come al solito ricama fraseggi d’alta scuola che impreziosiscono il tutto. Il brano, pieno di passione, sfuma poi in una coda dolce e romantica, vagamente malinconica, eterea e sognante, basata su di una composizione pianistica di Jim Gordon e delicate carezze di chitarra acustica. La chiusura dell’album è affidata interamente a Bobby Whitlock che compone un dolce e malinconico epilogo per voce e chitarra: degno finale per un disco così raffinato ed elegante. Altri brani da citare sono le cover blues “Nobody Knows You When You’re Down and Out” (Jimmie Cox) e “Have You Ever Loved a Woman”(Billy Myles), che non aggiungono molto a quanto già detto, mostrando il consueto ottimo feeling, con Eric e Duane in grandissima forma; e poi “I Am Yours”, chiara dichiarazione per la sua amata che forse dispensa fin troppa saccarina, ma resta un riempitivo di qualità. Il disco fu pubblicato a novembre del 1970, ma non ebbe molto successo. Eric Clapton, che allora era un idealista, avrebbe voluto che a vendere fosse solo la musica, non il nome, ma così purtroppo non successe, nonostante l’elevata qualità dell’album. Il chitarrista quindi si convinse a fare un po’ di promozione e a distribuire alla stampa spille con la scritta “Derek is Eric”. Mano lenta fu comunque molto soddisfatto del risultato, invitò Pat ad ascoltarlo, sicuro che l’avrebbe conquistata, lei accettò e rimase colpita, ma anche spaventata da tutto quel sentimento. Clapton dovette incassare l’ennesimo rifiuto. I tempi non erano maturi. Nonostante il quasi flop commerciale, nel tempo il disco si è guadagnato rispetto e ammirazione, tanto da essere oggi considerato uno dei migliori, se non proprio il migliore in assoluto fra i lavori di Eric Clapton, e uno dei grandi classici del rock blues. Layla è un assoluto masterpiece, un album perfetto, uno di quei lavori che vengono fuori solo quando grandi musicisti s’incontrano al momento giusto e quando fra loro si crea quell’alchimia, quell’affiatamento che permette di superare egoismi, personalismi e smanie di grandezza. Qui ognuno suona per gli altri e nessuno suona per se, al primo posto c’è la band, non come somma delle singole parti, ma come entità solidale e omogenea e il risultato non può che essere qualcosa di totalmente magico e irripetibile. L’esperienza Dominos durò ancora per un po’ con una serie di apparizioni live (celebre quella al Fillmore East, dal quale sarà estratto anche uno strepitoso album live). Senza Duane però, che era tornato con gli Allman, mancava qualcosa e il progetto di un secondo disco naufragò in breve tempo. Le morti degli amici Hendrix prima e dello stesso Allman poi e i forti problemi di dipendenza dalle droghe segnarono il periodo immediatamente successivo di slowhand, uno dei suoi peggiori, dal quale riuscirà a riprendersi, per affrontare grandi successi, ma anche altre tragedie… tears in heaven...

    Layla and Other Assorted Love Songs

    Pubblicazione - 1970
    Durata - 76 min : 43 s
    Tracce - 14
    Genere - Blues rock
    British blues
    Hard rock
    Pop rock
    Etichetta - Polydor Records, Atco Records
    Produttore - Tom Dowd
    Registrazione Agosto - settembre 1970, Criteria Studios, Miami


    Tracce

    ASCOLTA L'ALBUM

    I Looked Away - 3:05 - (Eric Clapton, Bobby Whitlock)
    Bell Bottom Blues - 5:02 - (Clapton)
    Keep on Growing - 6:21 - (Clapton, Whitlock)
    Nobody Knows You When You're Down and Out - 4:57 - (Jimmy Cox)
    I Am Yours - 3:34 - (Clapton)
    Anyday - 6:35 - (Clapton, Whitlock)
    Key to the Highway - 9:40 - (Charles Segar, Willie Broonzy)
    Tell the Truth - 6:39 - (Clapton, Whitlock)
    Why Does Love Got to Be So Sad? - 4:41 - (Clapton, Whitlock)
    Have You Ever Loved a Woman - 6:52 - (Billy Myles)
    Little Wing - 5:33 - (Jimi Hendrix)
    It's Too Late - 3:47 - (Chuck Willis)
    Layla - 7:04 - (Clapton, Jim Gordon)
    Thorn Tree in the Garden - 2:53 - (Whitlock)


    Formazione

    Eric Clapton - chitarra e voce
    Bobby Whitlock - tastiera
    Carl Radle - basso
    Jim Gordon - batteria
    Duane Allman - chitarra slide (tracce 4-14)
  13. .


    Una marcetta celentanesca lieve e malinconica, con tanto di bombardino sull'ineluttabilità della vita...

  14. .


    La base per pianoforte parte bene evocando gospel e l'R&B degli anni Cinquanta...

    Un brano che incuriosisce piacevolmente prima di avvitarsi in un pop di maniera con un testo fumoso francamente, di frasi fatte...

  15. .





    ESIBIZIONE 10/02/2016


2929 replies since 21/4/2008
.