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Posts written by Milea

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    PRIMA NOVELLA (EMILIA)
    A Firenze vi era un cardatore della lana di nome Gianni Lotteringhi, il quale era molto religioso e recitava tutti giorni delle lodi alla Madonna e spesso era molto preso dal lavoro che trascurava un poco la moglie, Monna Tessa. Quest’ultima era innamorata di un certo Federigo e dal momento che lei viveva in una villa un po’ fuori città e il marito soltanto qualche volta se ne veniva a casa a cenare e a dormire, molto spesso si incontravano di nascosto e lei gli diceva che quando voleva venire doveva fare attenzione perché nella vigna c’era un teschio d’asino su un palo e quando il muso era rivolto verso Firenze voleva dire che il marito non era in villa, altrimenti significava che c’era. Si incontrarono molte altre volte e una volta capitò che un contadino che passava per caso spostò il muso e non sapendo Federigo che Monna Tessa era a letto con il marito bussò tre volte come al solito e destatosi subito il marito, Monna Tessa gli disse che erano i fantasmi e che conosceva una lode per scacciarli e nel frattempo fece cenno a Federigo di andarsene, così il marito credulone prestò fede alle parole della donna e credette di aver scacciato i fantasmi.

    SECONDA NOVELLA (FILOSTRATO)

    Un muratore che viveva a Napoli era sposato con una bella donna di nome Peronella, la quale era innamorata di un giovane che si chiamava Giannello. Tutte le mattine il marito andava a lavorare e la moglie incontrava Giannello nella sua casa, ma un giorno inaspettatamente tornò a casa prima e una volta bussato all’uscio, Peronella fece nascondere Giannello dentro un tino. Lei si finse sorpresa del suo arrivo e chiedendo spiegazioni seppe che aveva concluso un affare vendendo un tino per cinque gigliati, così lei, per non farsi credere meno furba disse che anche lei aveva venduto un tino però a sette gigliati a un uomo che aveva voluto entrarci dentro per vedere se era sano. In quel momento uscì Giannello fingendosi il compratore e disse che gli sembrava un po’ sporco, perciò la donna fece entrare il marito per pulirlo e nel frattempo se la spassò con il giovane, poichè per l’arrivo improvviso del marito non aveva potuto farlo la mattina e quando finì, Gianello pagò i sette gigliati e se ne andò via felice.

    TERZA NOVELLA (ELISSA)
    C’era a Siena un giovane bello e di nobile famiglia, il quale si innamorò di una sua vicina, moglie di un ricco uomo; con il tempo, essendo la donna incinta, la andava a visitare parecchie volte e divenne presto amico dei due coniugi, tanto che fu scelto da loro come futuro padrino del nascituro. Una volta nato, il giovane si fece frate ma non per questo perse il suo desiderio nei confronti della donna e così un giorno si incontrarono in camera di lei mentre il marito era assente e convinse la donna a soddisfare i propri piaceri, però all’improvviso tornò il marito e la donna, non perdendosi d’animo aprì e disse che dovevano ringraziare Dio che era venuto il loro amico frate perché il piccolo aveva dei vermicelli che in poco tempo sarebbero giunti al cuore, provocandone la morte però egli conosceva alcune orazioni per liberarlo e lo aveva prontamente guarito. In seguito il marito, molto felice di aver scelto il frate come padrino organizzò una festa in suo onore.

    QUARTA NOVELLA (LAURETTA)
    Ad Arezzo vi era un bel giovane di nome Tofano che era molto geloso della moglie la quale mal sopportava la sua gelosia e decise di andare con un altro uomo e tutte le sere, puntualmente lo faceva ubriacare e lo metteva a dormire così se la poteva intendere con il suo amante talvolta in casa sua, talvolta in casa di lei. Un giorno il marito, capendo qualcosa, finse di ubriacarsi e quando la donna andò a casa del suo amante, la chiuse fuori e al suo ritorno non la faceva entrare. Cosicché la donna minacciò di buttarsi dentro al pozzo così la gente avrebbe creduto che l’avesse buttata lui mentre era ubriaco e direttasi verso il pozzo buttò una grande pietra, provocando un tonfo enorme. Lui credendo che si fosse buttata, uscì di corsa per salvarla, però lei, che si era nascosta dietro la porta, entrò in casa e a sua volta lo chiuse fuori, giustificando la sua azione come una punizione per la sua gelosia, così si riconciliarono e lui le promise che non sarebbe più stato geloso.

    QUINTA NOVELLA (FIAMMETTA)
    A Rimini c’era un mercante molto ricco che era geloso oltre ogni misura della moglie e non la faceva uscire di casa, né affacciarsi alla finestra. Ella, poiché sapeva che accanto a loro viveva un giovane, per vendicarsi, quando il marito usciva ispezionava tutta la casa finchè riuscì a trovare una fessura dalla quale parlare al giovane. Avvicinandosi il Natale, la donna disse al marito che si doveva confessare ed egli indicatole un confessore, si travestì lui stesso da prete. Però la donna, capito l’inganno raccontò in confessione che tutte le notti se la intendeva con un prete che ella amava e che con orazioni particolari, faceva addormentare il marito ed entrava dalla porta. Il marito, avendo udito tutto ciò fu molto indignato e si mise di guardia tutte le notti fuori dal cancello, e nel frattempo lei chiamava il giovane dalla fessura e si giaceva con lui tutte le notti. Dopo molto tempo che non era riuscito a scorgere nessuno, interrogò la donna, la quale le disse che aveva capito il travestimento e per punire la sua gelosia si era inventata la storia del prete, e dal quel giorno in avanti il marito non fu più geloso e le concesse di uscire quando ne avesse avuto voglia.

    SESTA NOVELLA (PAMPINEA)

    Una giovane donna, moglie di un cavaliere assai valoroso, amava un giovane di nome Leonetto e quando il marito non c’era si incontrava con lui nella sua villa di campagna; però un giorno si innamorò di lei un altro cavaliere di nome Messer Lambertuccio, il quale minacciò di disonorarla se non avesse corrisposto al suo amore. Così un giorno che il marito era fuori città, ella se ne andò in campagna a giacersi con Leonetto, però informato dell’assenza del marito si presentò anche il cavaliere e lei fece nascondere il giovane sotto il letto. Dopo poco tempo sopraggiunse il marito e la donna disse al cavaliere di prendere un coltello e di urlare per le scale; così fece e il marito chiese spiegazioni alla donna, la quale ripose che mai aveva avuto una paura simile perché c’era questo cavaliere che inseguiva un giovane indifeso e lo minacciava con il coltello, perciò lei, impaurita lo nascose sotto al loro letto e, non trovandolo, se ne andò urlando. Allora uscì Leonetto e il marito, credendo al racconto della donna, la lodò molto per il suo coraggio, e in realtà solo la donna sapeva ciò che era realmente accaduto in quel castello.

    SETTIMA NOVELLA (FILOMENA)
    A Parigi, il figlio di un mercante, avendo sentito dire da degli amici che erano andati al Santo Sepolcro che a Bologna vi era la donna più bella che avessero mai visto e che però era sposata con un certo Egano, si recò in quel luogo e si fece assumere come servitore. Dopo molto tempo acquistò la fiducia di Egano e divenne il suo miglior servitore e un giorno che andò a caccia manifestò a questa donna tutto il suo amore e lei dopo avergli dato ogni sorta di piacere, gli disse di presentarsi in camera sua a mezzanotte. Puntuale si presentò e si nascose dietro al letto, allora la donna disse al marito che il loro miglior servo le aveva chiesto di incontrarlo sotto un pino per giacersi con lei, e mandò il marito a controllare, vestito con una gonna delle sue. Uscito il giovane si baciarono appassionatamente e la donna gli disse di andare dal marito e di prenderlo a bastonate dicendo che era una cattiva moglie perché lui aveva voluto tentarla e lei non si doveva presentare se fosse stata fedele. Il giovane fece come gli era stato raccomandato e quando Egano ritornò in camera sua disse che era l’uomo più contento del mondo perché aveva la più leale donna e il più fedele servo.

    OTTAVA NOVELLA (NEIFILE)

    Un ricchissimo mercante di nome Arriguccio si assentò per un mese dalla città dove viveva e la moglie si innamorò di un giovane operaio di bell’aspetto; quando ritornò il marito, sapendo che egli aveva il sonno pesante, lei si legò al dito del piede una corda che arrivava fin fuori dalla finestra cosicché quando il giovane avesse tirato la corda, la donna gli sarebbe corsa incontro. Però un giorno Arriguccio vide la corda e sospettando qualcosa se la legò al suo piede; quando sentì tirare prese le armi e scese di corsa ma nel frattempo il giovane iniziò una fuga e si rincorsero a lungo. Intanto la donna pagò una serva per mettersi a letto al posto suo e quando il marito tornò, percosse violentemente la serva e le tagliò i capelli. In seguito si recò dai fratelli della donna e raccontò loro l’accaduto, però una volta recatisi da quest’ultima la videro seduta a una sedia che cuciva e senza nessun segno in faccia e di fronte allo stupore generale la donna disse che era da un po’ di sere che il marito tornava a casa ubriaco e non ricordava niente; così il povero marito fu ingiuriato e non fu più creduto e la donna se la potè spassare con il giovane ogniqualvolta lo avesse desiderato.

    NONA NOVELLA (PANFILO)

    Ad Argo, nell’antica Grecia, vi era Nicostrato che aveva una moglie di molti anni più giovane di lui, la quale si innamorò di un servo di nome Pirro; nei giorni successivi mandò diverse serve da Pirro per manifestargli il suo amore ma egli non voleva recare un offesa al re e in secondo luogo non prestò fede alle parole della donna e così gli chiese tre prove: ella doveva uccidere lo sparviero del marito, doveva inviargli una ciocca della barba e un suo dente. Allora lei non perdendosi d’animo uccise prima lo sparviero e tra le risa generali disse che era stufa del fatto che preferiva andare a caccia con quello piuttosto che una notte d’amore con lei; poi gli strappò una ciocca della barba e infine dicendogli che gli puzzava la bocca e che secondo lei la causa era di un determinato dente, glielo estirpò e lo spedì al suo amato. Così egli convinto dell’amore di lei fu disposto a giacersi con lei tutte le volte che il re si fosse assentato.

    DECIMA NOVELLA (DIONEO)
    Nella città di Siena c’erano due giovani che erano molto amici e si chiamavano Tingoccio e Meuccio. Poiché ogni volta che prendevano parte alla messa sentivano parlare della gloria e della miseria che spetta alle anime nell’altro mondo secondo i loro meriti, si erano molto incuriositi e si promisero che colui che sarebbe morto per primo sarebbe tornato in vita per raccontare all’altro come vengono di fatto giudicate le anime.Un giorno divennero padrini di battesimo del figlio di una giovane donna, il cui nome era monna Mita e se ne invaghirono entrambi però solo Tingoccio con i suoi corteggiamenti la conquistò e potè essere soddisfatto da lei. Meuccio se ne accorse ma non disse nulla e arrivò il giorno che Tingoccio morì; poco tempo dopo ritornò come promesso e Meuccio gli domandò se era stato dannato per avere avuto un rapporto con la sua comare di battesimo ed egli rispose negativamente dicendo che non conta il rapporto di parentela e detto questo Meuccio si rammaricò molto perché in vita sua si era sempre fatto di questi problemi prima di andare con una donna.

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    Kiev 9 agosto 1942:
    la "partita della morte" in 11 contro il Reich








    Il 9 agosto del 1942, quando Kiev era sotto occupazione nazista, si disputò una partita di calcio, nota come “la partita della morte”. Il monumento fuori dallo stadio di Kiev è dedicato ai giocatori che giocarono quella partita. Tra il 29 e il 30 settembre 1941 ben 33.771 ebrei vennero fucilati in un solo giorno. La storia narra di due giovani, Joseph Kordic e Nicolai Tosievich (portiere della vecchia Dinamo Kiev) che riescono, grazie a i loro contatti, a mettere insieme un'intera squadra di calcio. Ai nazisti, bisognosi di forza lavoro, pare opportuno introdurre qualche lieve forma di benessere, di conseguenza si opta per i tram, i fiorai e il calcio. Si crea una piccola lega di calcio con alcune squadre, come la guarnigione ungherese, una squadra di collaborazionisti ucraini e tante altre. La piccola squadra della città, nata principalmente dai lavoratori di un panificio, si distingue battendo tutte le altre compagini, al che i tedeschi, per dimostrare la loro superiorità in ogni campo, decidono di organizzare una finale il 6 agosto 1942, contro la loro squadra chiamata Flakefel. La partita viene vinta per 5-1 dai “rossi” (chiamati così per il colore rosso delle loro divise, delle vecchie magliette di lana ritrovate in un magazzino) perciò i nazisti decidono di ri-disputarla tre giorni dopo. Stavolta i tedeschi chiamano dal fronte i migliori atleti del Reich e sotto la direzione di un tenente nazista, si procede al match di rivincita, che si svolge senza alcuna regola in campo e durante il quale ai tedeschi è permessa qualsiasi scorrettezza. La partita viene comunque vinta per 5-3 dalla squadra del panificio, nonostante all'intervallo vi furono delle pesanti minacce ai danni dei “rossi” e la condotta di gara continuò a mantenersi tutt'altro che imparziale. A seguito del risultato non gradito ai tedeschi, dopo qualche settimana quasi tutta la squadra fu arrestata e morì poco dopo nei campi di lavoro. Questa è la triste storia, ricordata da tre monumenti presenti a Kiev, della “partita della morte”.


    Edited by Lottovolante - 16/1/2014, 13:27
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    Lo spot Haynes:
    astronauta tradito dai fagioli








    La pubblicità Haynes mette in scena un combattimento ''spaziale'' tra un mostro gigante e gli astronauti in missione per piantare la bandiera Usa sul suolo extraterrestre. Un video con finale a sorpresa, da oltre 1,5 milioni di visualizzazioni su Youtube. Tra i tanti utenti, alcuni si sono chiesti perché alla fine, l'astronauta nascosto, abbia cucita la bandiera italiana sulla spalla. Non tutti sanno che lo spot è stato girato da Alvise Avati, figlio d'arte del più famoso Pupi. Animatore di professione, Avati ha collaborato in passato per dare vita ai personaggi di Avatar, di James Cameron.

    CLICCA E GUARDA IL VIDEO


    Edited by oeufcoque - 21/12/2013, 15:16
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    Bobo di Davide




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    Mark Nixon, “Much Loved”:
    le foto dei vecchi peluche tanto amati



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    Probabilmente si contano sulle dita di una mano quelli che nell'infanzia non hanno avuto un pupazzo di stoffa come compagno di giochi. Il fotografo Mark Nixon, tra i migliori ritrattisti in Irlanda, ha riunito una serie di peluche creando una stravagante e nostalgica raccolta di immagini intitolata “Much Loved”. Orsi, conigli, giraffe e cagnolini sono stati fotografati in modo da portare alla luce la loro essenza: con un solo occhio, una sola metà del corpo, toppe e cuciture raccontano un passato fatto di "amorevoli abusi". "L'idea del progetto - racconta Nixon - è nata guardando mio figlio Calum giocare con il suo coniglietto Peter, mi ha ricordato il mio Panda quando ero piccolo. Così ho pensato che sarebbe stata una bella mostra per la mia galleria".

    Il fotografo ha chiesto ai suoi clienti di portargli i propri peluche, finora ne ha raccolti 140. Gli scatti sono stati pubblicati sul sito e in pochi giorni hanno registrato 6,5 milioni di visualizzazioni. Ogni peluche è accompaganto da una storia particolare: dall'orsetto regalato a Bono degli U2 e alla moglie Ali Hewson, in ricordo di un amico scomparso, a "Teddy" compagno di Rowan Atkinson, in arte Mr Bean, nel suo show televisivo. "Quando tutto era ignoto, loro c'erano. Quando tutto poteva accadere, loro erano lì. Nella solitudine della notte sono stati la nostra coperta", con queste parole Mark Nixon presenta il suo libro fotografico "Much Loved" edito da Abrams Image. Foto di Mark Nixon



    One Eyed Teddy di Gerry Ryan



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    Daddy Bunny di Zoe Bracken



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    Teddy di Luke Foley



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    Panda del fotografo Mark Nixon



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    Ted di Frances Curtin



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    Flopsie di Lua Spencer



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    Pink Teddy di Aisling Hurley



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    Bobo di Shane Haher



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    Beary di Tom O Connor Jr



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    Teddy Tingley di Nicky Griffin







    Edited by Milea - 31/10/2013, 18:31
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    ”Magritte, The Mistery of Ordinary”:
    al Moma 80 quadri per svelare l'enigma Magritte


    A New York dal 12 febbraio
    una straordinaria esposizione del maestro del Surrealismo



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    Le faux miroir






    Il giro di Magritte in ottanta quadri.
    I più famosi, quelli che hanno influenzato e sono stati influenzati dalle avanguardie del Novecento e rimangono saldamente radicati nell’immaginario moderno. Quei capolavori senza tempo vengono oggi presi in prestito dalla pubblicità, dalla grafica, dal cinema: non rimandano forse alle creazioni del grande artista belga i paesaggi fluttuanti di Avatar?


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    La trahison des images


    L’OMAGGIO


    Al MoMa di New York una magnifica esposizione, intitolata ”Magritte: The Mistery of Ordinary” (in programma fino al 12 febbraio) rende omaggio al maestro della pittura surrealista. Innamorato di De Chirico, è stato l’esploratore instancabile degli enigmi dell’universo e dei labili confini che dividono il pensiero dall’immagine, la realtà dall’inconscio, l’oggettività dalla rappresentazione.
    La mostra, curata da Anne Umland e Danielle Johnson, è incentrata sugli anni cruciali in cui Magritte, che dal 1927 al 1930 si era trasferito a Parigi, lavorò a stretto contatto con i santoni del movimento surrealista André Breton, Salvador Dalì, Paul Éluard.

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    L’assasin menacé


    LA SFIDA


    Tra il 1926 e il 1938 René Magritte firmò un numero impressionante di opere (a New York sono esposti anche oggetti, piccole sculture, collages) in cui la sfida alla realtà è protagonista. I soggetti sono corpi senza testa, specchi dai riflessi ”impossibili”, trompe-l’-oeil, parole sotto forma di scritte o di fumetti, nuvole biomorfiche, uova ingabbiate, nudi e paesaggi scomposti in quadri diversi. E poi gli uomini con la bombetta, motivo ricorrente nel lavoro del maestro belga, scomparso nel 1967: il segno dell’irrisione alla borghesia tanto avversata dalle avanguardie.
    Niente è come sembra, l’evidenza viene continuamente ribaltata dall’illusionista Magritte. Il visitatore del Moma rimane affascinato e spiazzato dall’universo enigmatico, ambiguo e trasgressivo dell’autore di “Ceci n’est pas une pipe”, il celeberrimo dipinto del 1929 in cui la riproduzione perfetta di una pipa viene smentita dalla scritta sottostante ”questa non è una pipa”. Quadro-manifesto: «Un’immagine non è la stessa che pretende di rappresentare», spiegava il pittore nei ruggenti anni parigini, «ho scoperto un nuovo potenziale nelle cose, la loro abilità nel diventare qualcosa d’altro che se stesse...davanti ai miei quadri l’occhio deve pensare in modo diverso».


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    Les amants


    L’INCONSCIO


    In ”Tentative de l’impossible” del 1928 una modella nuda si materializza sotto il pennello dell’artista: il senso dell’opera, omaggio alla moglie Gorgette che accetò di posare, è l’impossibilità di fissare su tela l’oggetto del desiderio. Nell’inquietante ”Le viol” (lo stupro), del 1934, i seni, l’ombelico e il sesso sostituiscono occhi, naso e bocca nel volto di una donna: Breton metterà l’opera sulla copertina del saggio ”Cos’è il surrealismo”.

    In ”L’assassin menacé”, uno dei quadri più grandi, un uomo ascolta musica dopo aver ucciso una donna che giace insanguinata, mentre due personaggi gli tendono un agguato. ”Le temps ménaçant” (1929) raffigura l’inconscio sotto forma di un busto, una tromba e una sedia fatti della materia impalpabile delle nubi: nacque dopo una vacanza in Spagna dei coniugi Magritte, ospiti di Dalì. A New York è esposto anche ”Le faux miroir”, un occhio riempito di nuvole, oggi adottato come logo dalla Cbs.E c’è il famoso ”Les amants”, il bacio di due innamorati coperti da lenzuoli bianchi: simbolo dell’incomunicabilità e della morte, il dipinto sarebbe una reminiscenza del suicidio della madre di Magritte che venne trovata annegata in un fiume, con la testa avvolta nella camicia da notte. Fonte


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    Not to be reproduced



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    The man of son




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    IL NOME

    ( da Feria d'agosto, Torino, Einaudi )



    Chi fossero i miei compagni di quelle giornate, non ricordo. Vivevano in una casa del paese, mi pare, di fronte a noi, dei ragazzi scamiciati -due -forse fratelli. Uno si chiamava Pale, da Pasquale, e può darsi che attribuisca il suo nome all'altro. Ma erano tanti i ragazzi che conoscevo di qua e di là.

    Questo Pale - lungo lungo, con una bocca da cavallo - quando suo padre gliene dava un fracco scappava da casa e mancava per due o tre giorni; sicché, quando ricompariva, il padre era già all'agguato con la cinghia e tornava a spellarlo, e lui scappava un'altra volta e sua madre lo chiamava a gran voce, maledicendolo, da quella finestra scrostata che guardava sui prati, sui boschi del fiume, verso lo sbocco della valle. Certe mattine mi svegliavo all'urlo lamentoso, cadenzato, di quella donna da quella finestra. Molte vecchie chiama- vano così i figli, ma il nome che faceva ammutolire tutti e che in certe ore echeggiava esasperante come le fucilate dei cacciatori, era quello di Pale. A volte anche noialtri si gridava quel nome per baldanza o per beffa.

    Credo che persine Pale si divertisse a urlarlo. Così, il giorno che salimmo insieme sulle coste aride della collina di fronte -prima, nelle ore bruciate, avevamo battuto il fiume e i canneti -non so bene se fossimo soli, io e Pale, certo che il mio socio aveva i denti scoperti e la testa rossa, e me ne ricordo perché gli raccontavo che il Ieone, che vive nei luoghi aridi, aveva i denti come i suoi e il pélo fulvo.

    Quel giorno eravamo agitati perché l'avevamo impiegato a fare una ricerca metodica della serpe. C'eravamo infradiciati fino al ventre e arrostita la nuca al sole; qualche rana era schizzata via da sotto le pietre rimosse, le mie caviglie erano tutte un livido. A Pale poi colava dai denti il sugo verde di un'erba che aveva voluto masticare. Poi, nel silenzio delle piante e dell'acqua, s'era sentito fioco, ma nitido, sul vento un urlo di richiamo.

    Ricordo che tesi l'orecchio, caso mai chiamassero me. Ma l'urlo non si ripetè. Lasciammo, poco dopo, la bassa del fiume e salimmo la costa, dicendoci che andavamo per prugnoli, ma ben sapendo - io, almeno, e il cuore mi batteva - che lo scopo questa volta era la vipera. Fu mentre salivamo il sentiero tra i ginepri che presi a parlare, imbaldanzito, dei leoni. Mi ero rimesso le scarpe, quasi a scongiurare con un gesto da bravo ragazzo i pericoli impliciti nella resa di conti serale. Fischiettavo.
    «Piantala. Non è così che si chiama la vipera», brontolò il mio socio, fermandosi. C'eravamo muniti di due verghe a forcella, e con queste dovevamo inchiodare la bestia e ammazzarla. Se anche nell'acqua eravamo andati in parecchi, sono certo che quel
    sentiero lo salimmo noi due soli. Pale - ben diverso da me -camminava scalzo sui sassi e sugli spini, senza badarci.

    Volevo dirglielo, quando d'improvviso si fermò davanti a un roveto e cominciò a sibilare piano piano, sporto in avanti, dondolando il capo. Il roveto usciva da uno scoscendimento roccioso, e di là si vedeva il cielo.
    «Era meglio se acchiappavamo la serpe», dissi, nel silenzio.
    L'amico non rispose, e continuò a sussurrare, come un filo d'acqua a un rubinetto. La vipera non usciva. Ci riscosse un clamore improvviso sul vento, qualcosa come un urlo o uno scossone. Di nuovo, dal paese, avevano chiamato: era la solita voce, lamentosa e rabbiosa: «Pale! Pale! ».
    Pensai subito ai miei di casa. Pale s'era fermato, a testa innanzi, dritto su una gamba sola, e mi parve che facesse una delle sue smorfie diaboliche. Ma ecco che il silenzio s'era appena rifatto, e di nuovo la voce - inumana in quel salto d'aria - strillò «Pale! Pale! » E fu allora che il socio gettò con rabbia il vincastro e disse in fretta: «Quei bastardi.

    Se la vipera sente il nome mentre la cerchiamo, poi mi conosce ». «Vieni via», dissi con un filo di voce.
    La vecchia maledetta continuava a chiamare. Me la vedevo alla finestra, sbucare ogni tanto con un lattante in braccio e cacciare quello strillo come se cantasse. Pale mi prese un bel momento per il polso e gridò: « Scappa! » Fu una corsa sola fino alla piana; ci gridavamo.
    «La vipera!» per eccitarci, ma la nostra paura - la mia, almeno - era qualcosa di più complesso, un senso di avere offeso le potenze, che so io, dell'aria e dei sassi.
    Venne la sera e ci trovò seduti sui traversini del ponte. Pale taceva e sputava nell'acqua. «Prendiamo il fresco al balcone», dissi a Pale. Era quella l'ora che tutte le donne del paese cominciavano a chiamare questo e quello, ma per il momento c'era una pace meravigliosa, e si sentiva soltanto qualche grillo.

    "Non mi hanno ancora chiamato", pensavo; e dissi: «Perché non rispondi quando ti chiamano? Questa sera te le danno».
    Pale alzò le spalle e fece una smorfia. «Cosa vuoi che capiscano le donne».
    «Davvero, se la vipera sente un nome, poi lo viene a cercare?»
    Pale non rispose. A forza di scappare di casa era diventato taciturno come un uomo.
    «Ma allora il tuo nome dovrebbero saperlo tutte le serpi di queste colline».
    «Anche il tuo», disse Pale con un sogghigno. «Ma io rispondo subito».
    «Non è questo», disse Pale. «Credi che alla vipera importi se fai il bravo ragazzo? La vipera vuole ammazzare quelli che la cercano...»
    Ma in quel momento ricominciò l'urlo di prima. La vecchia s'era rifatta alla finestra. Cigolarono le ruote di un carro e s'udì il tonfo di un secchio nel pozzo. Allora m'incamminai verso casa, e Pale rimase sul ponte.


    Libri



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    La narrazione, come spesso accade nei racconti di Pavese, inizia con un ricordo indeterminato (sottolineato da «mi pare», «forse» “può darsi”) Il verbo reggente (“non ricordo”) in fine di periodo dà particolare risalto alla negazione. Il titolo Il nome appare ambiguo e non suscita nel lettore precise aspettative. Dalla prim fase del racconto comprendiamo che la storia narrate viene proposta come un racconto dell’infanzia dello scrittore, legato a un soggiorno in campagna, il nome cui si riferisce il titolo è dunque quello di un compagno di giochi e d’avventure, un ragazzo di campagna fiero della propria libertà e “taciturno come un uomo”.

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    La vicenda narrate appare una sorta di iniziazione all’avventura e al rischio, operata nei confronti di un ragazzo di città da parte del suo compagno di giochi, tanto più esparto e sicuro: nella caccia alla vipera si può infatti scorgere una volontà di sfida contro le forze ostili della natura, le potenze dell’aria e dei sassi”. L’avventura dei due ragazzi è però destinata a fallire, perchè contro di loro interviene il mondo degli adulti: la madre di Pale comincia a chiamarlo, diffondendo a gran voce il suo nome tra le colline. Nella mente fantasiosa del ragazzo, in apparenza così smaliziato, il riecheggiare del suo nome rende impossibile la cattura della vipera, perchè “se la vipera sente il nome mentre la cerchiamo, poi mi conosce” . Il desiderio di totale libertà di Pale viene dunque limitato proprio dal suo nome, che lo rende riconoscibile dale creature che popolano le colline, non soggette invece ad alcuna limitazione

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    E’ interessante considerare infine la chiusa del racconto, che mette in evidenza il differente comportamento dei due protagonisti: il ragazzo di città ritorna a casa per non disobbedire ai propri genitori, mentre il ragazzo di campagna prosegue la sua avventura, restìo ad ogni richiamo. Al termine della lettura, dunque, il significato del titotlo si chiarisce e diventa element importante per la comprensione della storia. (Milea)


    Libri




    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:13
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    FUMATORI DI CARTA


    Mi ha condotto a sentir la sua banda.
    Si siede in un angolo e imbocca il clarino.
    Comincia un baccano d'inferno.
    Fuori, un vento furioso e gli schiaffi, tra i lampi,
    della pioggia fan si che la luce vien tolta,
    ogni cinque minuti. Nel buio, le facce
    danno dentro stravolte, a suonare a memoria
    un ballabile. Energico, il povero amico
    tiene tutti, dal fondo. E il clarino si torce,
    rompe il chiasso sonoro, s'inoltra, si sfoga
    come un'anima sola, in un secco silenzio.

    Questi poveri ottoni son troppo sovente ammaccati:
    contadine le mani che stringono i tasti,
    e le fronti, caparbie, che guardano appena da terra.
    Miserabile sangue fiaccato, estenuato
    dalle troppe fatiche, si sente muggire
    nelle note e l'amico li guida a fatica,
    lui che ha mani indurite a picchiare una mazza,
    a menare una pialla, a strapparsi la vita.

    Li ebbe un tempo i compagni e non ha che trent'anni.
    Fu di quelli di dopo la guerra, cresciuti alla fame.
    Venne anch'egli a Torino, cercando una vita,
    e trovò le ingiustizie. Imparò a lavorare
    nelle fabbriche senza un sorriso. Imparò a misurare
    sulla propria fatica la fame degli altri,
    e trovò dappertutto ingiustizie. Tentò darsi pace
    camminando, assonnato, le vie interminabili
    nella notte, ma vide soltanto a migliaia i lampioni
    lucidissimi, su iniquità: donne rauche, ubriachi,
    traballanti fantocci sperduti. Era giunto a Torino
    un inverno, tra lampi di fabbriche e scorie di fumo;
    e sapeva cos'era lavoro. Accettava il lavoro
    come un duro destino dell'uomo. Ma tutti gli uomini
    lo accertassero e al mondo ci fosse giustizia.
    Ma si fece i compagni. Soffriva le lunghe parole
    e dovette ascoltarne, aspettando la fine.
    Se li fece i compagni. Ogni casa ne aveva famiglie.
    La città ne era tutta accerchiata. E la faccia del mondo
    ne era tutta coperta. Sentivano in sè
    tanta disperazione da vincere il mondo.

    Suona secco stasera, malgrado la banda
    che ha istruito a uno a uno. Non bada al frastuono
    della pioggia e alla luce. La faccia severa
    fissa attenta un dolore, mordendo il clarino.
    Gli ho veduto questi occhi una sera, che soli,
    col fratello, più triste di lui di dieci anni,
    vegliavamo a una luce mancante. Ii fratello studiava
    su un inutile tornio costruito da lui.
    E il mio povero amico accusava il destino
    che li tiene inchiodati alla pialla e alla mazza
    a nutrire due vecchi, non chiesti.

    D'un tratto gridò
    che non era il destino se il mondo soffriva,
    se la luce del sole strappava bestemmie:
    era l'uomo, colpevole. Almeno potercene andare,
    far la libera fame, rispondere no
    a una vita che adopera amore e pietà,
    la famiglia, il pezzetto di terra, a legarci le mani.

    ( settembre 1932 )


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    mark2j
    Lavorare vuol dire essere uomini; lavorare con gli altri e per gli altri è per molti un valore centrale della vita, tuttavia la funzione del lavoratore non è sempre riconosciuta in tutta la sua importanza; e d'altra parte, il lavoro non dà sempre soddisfazione, anzi talvolta diventa gravosa fatica, perchè pesante e mal pagato. Ciò è particolarmente vero in alcuni periodi, in cui forte è l'ingiustizia sociale, come negli anni Trenta, periodo in cui è stata scritta questa lirica di Pavese, il quale esprime la necessità di un riconoscimento anche sociale, della dignità del lavoro umano.

    mark2j
    Cesare Pavese fu uno dei pochissimi autori italiani che, anche durante il periodo fascista, compose liriche che avevano, più o meno indirettamente, una tematica politica e sociale: egli tocca soprattutto i temi della sconfitta del movimento operaio ad opera del fascismo e delle dure condizioni di vita degli operai e dei contadini sotto il regime. Queste tematiche vanno inquadrate nelle vicende politico-sociali degli anni Trenta, quando ormai la resistenza operaio e contadina al fascismo era stata del tutto stroncata e restavano in vita solo pochi movimenti clandestini. D'altra parte, in quel periodo, la politica economica di Mussolini, mirante a ridurre il costo del lavoro, e l'inflazione insieme alle ripercussioni della grave crisi economica mondiale (1929-1933) portarono ad un peggioramento della condizione dei lavoratori che, privati delle organizzazioni sindacali, non poterono in alcun modo tutelarsi.

    mark2j
    In questa poesia, scritta nel settembre 1932, dunque in piena epoca fascista. Pavese ci presenta con linguaggio semplice e immediato, la figura di un compaesano, già operaio a Torino, inchiodato dalle esigenze familiari, ad un lavoro insoddisfacente e mal pagato; ora che, con il fascismo, non è più possibile neppure la solidarietà di classe, il giovane trova la sua unica, vera possibilità di espressione nel suonare il clarino della banda.

    mark2j
    Cesare Pavese parte da un'esperienza semplice, comune: una sera passata ad ascoltare la banda del paese, i cui suonatori sono stati istruiti dal suo amico. Su questo punto iniziale egli poi inserisce una serie di sviluppi:
    a) considerazioni generali sui contadini che fanno parte della banda;
    b) primo flashback: le esperienze a Torino negli anni della giovinezza;
    c) secondo flashback: lo “sfogo” dell'amico sulla sua triste condizione.

    mark2j
    Pavese crea un modo nuovo di fare poesia, che egli stesso definisce poesia-racconto le cui caratteristiche sono: presenza di personaggi, narrazione di una vicenda, presentazione di un ambiente.
    Ancora Pavese diceva che la poesia deve fare riferimento alle “esigenze etiche (morali) e pratiche dell'ambiente in cui si vive.” il titolo Fumatori di carta è evocativo e aperto a più interpretazioni. (Milea)


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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:12
  9. .

    Il falò del Valino

    ( da La Luna e i falò- 1950)



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    mark2j
    Collegabile al precedente, questo brano in modo più esemplare testimonia il duplice piano, di elegia e di tragedia, sul quella si sviluppa quella ricognizione del luoghi della memoria che costituisce il motivo portante de La luna e i falò.

    Il motivo elegiaco anzi, in tutta la prima parte del brano ha forse esiti più felici di tutto il romanzo con quella struggente domanda iniziale - Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri che cosa resta?- con quel susseguirsi di considerazioni che da quest’avvio si sviluppa.
    Ma il brano si conclude con un tragico colpo di scena: il Valino, il colono che ora lavora sul podere Gaminella (dove Anguilla ha trascorso l’infanzia e che varie volte è tornato a contemplare quasi alla ricerca di una stagione della sua vita) dopo aver dato fuoco alla casa e alle bestie si è impiccato nella vigna. E’ Cinto, il povero ragazzo sciancato, ora unico superstite, a darne notizia: e con questo tragico falò si chiude il capitolo che si era aperto coi toni di una dolente elegia.

    mark2j
    Anguilla, in giro per il mondo, si è portato nella memoria il ricordo di ben altri falò: quelli che i contadini accendono sul gerbido per svegliare la terra, secondo un’arcaica consuetudine, o sulle colline per solennizzare le feste paesane. Ma a questi falò, emblemi di una secolare religione agricola e immagine, nella sua memoria, della terra da cui si è allontanato si sostituiscono ora, nella realtà presente, quelli nati dalla disperazione (come quello del Valino) o dalla tragica violenza della storia ( come quello nel quale bruciava Santina, la più giovane delle padroncine della Mora, giustiziata come spia dei partigiani). Per Anguilla-Pavese il vagheggiamento del mito della collina , della terra d’origine non è più possibile.

    mark2j
    Ma vale la pena sottolineare che mentre ne La casa in collina la sconsacrazione di questo mito lasciava ancora adito a problemi che avevamo legami con la storia degli uomini, qui il vuoto lasciato dal crollo di quel mito non può essere in alcun modo colmato. Col suicidio che seguì di qualche mese la pubblicazione di questo romanzo, Pavese confermava tragicamente questa impossibilità.(Milea)


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    XXVI.

    Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri, che cosa resta? Per tanti anni mi era bastata una ventata di tiglio la sera, e mi sentivo un altro, mi sentivo davvero io, non sapevo nemmeno bene perchè. Una cosa che penso sempre è quanta gente deve viverci in questa valle e nel mondo che le succede proprio adesso quello che a noi toccava allora, e non lo sanno, non ci pensano. Magari c'è una casa, delle ragazze, dei vecchi, una bambina - e un Nuto, un Canelli una stazione, c'è uno come me che vuole andarsene via e far fortuna -, e nell'estate battono il grano, vendemmiano, nell'inverno vanno a caccia, c'è un terrazzo - tutto succede come a noi. Dev'essere per forza così.

    I ragazzi, le donne, il mondo, non sono mica cambiati. Non portano più il parasole, la domenica vanno al cinema invece che in festa, dаnno il grano all'ammasso, le ragazze fumano - eppure la vita è la stessa, e non sanno che un giorno si guarderanno in giro e anche per loro sarà tutto passato. La prima cosa che dissi, sbarcando a Genova in mezzo alle case rotte dalla guerra, fu che ogni casa, ogni cortile, ogni terrazzo, è stato qualcosa per qualcuno e, più ancora che al danno materiale e ai morti, dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti così in una notte senza lasciare un segno. O no? Magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d'erbe secche e che la gente ricominci. In America si faceva così - quando eri stufo di una cosa, di un lavoro, di un posto, cambiavi. Laggiù perfino dei paesi intieri con l'osteria, il municipio e i negozi adesso sono vuoti, come un camposanto.

    Nuto non parla volentieri della Mora, ma mi chiese diverse volte se non avevo più visto nessuno. Lui pensava a quei ragazzi di là intorno, ai soci delle bocce, del pallone, dell'osteria, alle ragazze che facevamo ballare. Di tutti sapeva dov'erano, che cosa avevano fatto; adesso, quando eravamo alla casa del Salto e ne passava qualcuno sullo stradone, lui gli diceva con l'occhio del gatto: - E questo qui lo conosci ancora? - Poi si godeva la faccia e la meraviglia dell'altro e ci versava da bere a tutti e due. Discorrevamo. Qualcuno mi dava del voi. - Sono Anguilla, - interrompevo, - che storie. Tuo fratello, tuo padre, tua nonna, che fine hanno fatto? E' poi morta la cagna?

    Non erano cambiati gran che; io, ero cambiato. Si ricordavano di cose che avevo fatto e avevo detto, di scherzi, di botte, di storie che avevo dimenticato. - E Bianchetta? - mi disse uno, - te la ricordi Bianchetta? - Sì che la ricordavo. - Si è sposata ai Robini, - mi dissero, - sta bene.

    Quasi ogni sera Nuto veniva a prendermi all'Angelo, mi cavava dal crocchio di dottore, segretario, maresciallo e geometri, e mi faceva parlare. Andavamo come due frati sotto la lea del paese, si sentivano i grilli, l'arietta di Belbo - ai nostri tempi in quell'ora in paese non c'eravamo mai venuti, facevamo un'altra vita.

    Sotto la luna e le colline nere Nuto una sera mi domandò com'era stato imbarcarmi per andare in America, se ripresentandosi l'occasione e i vent'anni l'avrei fatto ancora. Gli dissi che non tanto era stata l'America quanto la rabbia di non essere nessuno, la smania, più che di andare, di tornare un bel giorno dopo che tutti mi avessero dato per morto di fame. In paese non sarei stato mai altro che un servitore, che un vecchio Cirino (anche lui era morto da un pezzo s'era rotta la schiena cadendo da un fienile e aveva ancora stentato più di un anno) e allora tanto valeva provare, levarmi la voglia, dopo che avevo passata la Bormida, di passare anche il mare.
    - Ma non è facile imbarcarsi, - disse Nuto. - Hai avuto del coraggio.
    Non era stato coraggio, gli dissi, ero scappato. Tanto valeva raccontargliela.

    - Ti ricordi i discorsi che facevamo con tuo padre nella bottega? Lui diceva già allora che gli ignoranti saranno sempre ignoranti, perchè la forza è nelle mani di chi ha interesse che la gente non capisca, nelle mani del governo, dei neri, dei capitalisti... Qui alla Mora era niente, ma quand'ho fatto il soldato e girato i carrugi e i cantieri a Genova ho capito cosa sono i padroni, i capitalisti, i militari... Allora c'erano i fascisti e queste cose non si potevano dire... Ma c'erano anche gli altri...

    Non gliel'avevo mai raccontata per non tirarlo su quel discorso che tanto era inutile e adesso dopo vent'anni e tante cose successe non sapevo nemmeno più io che cosa credere, ma a Genova quell'inverno ci avevo creduto e quante notti avevamo passato nella serra della villa a discutere con Guido, con Remo, con Cerreti e tutti gli altri. Poi Teresa s'era spaventata, non aveva più voluto lasciarci entrare e allora le avevo detto che lei continuasse pure a far la serva, la sfruttata, se lo meritava, noi volevamo tener duro e resistere.

    Così avevamo continuato a lavorare in caserma, nelle bettole e, una volta congedati, nei cantieri dove trovavamo lavoro e nelle scuole tecniche serali. Teresa adesso mi ascoltava paziente e mi diceva che facevo bene a studiare, a volermi portare avanti, e mi dava da mangiare in cucina. Su quel discorso non tornava più. Ma una notte venne Cerreti a avvertirmi che Guido e Remo erano stati arrestati, e cercavano gli altri. Allora Teresa, senza farmi un rimprovero, parlò lei con qualcuno - cognato, passato padrone, non so, e in due giorni mi aveva trovato un posto di fatica su un bastimento che andava in America. Così era stato, dissi a Nuto.

    - Vedi com'è, - disse lui. - Alle volte basta una parola sentita quando si è ragazzi, anche da un vecchio, da un povero meschino come mio padre, per aprirti gli occhi... Sono contento che non pensavi soltanto a far soldi... E quei compagni, di che morte sono morti?

    - Andavamo così, sullo stradone fuori del paese, e parlavamo del nostro destino. Io tendevo l'orecchio alla luna e sentivo scricchiolare lontano la martinicca di un carro - un rumore che sulle strade d'America non si sente più da un pezzo. E pensavo a Genova, agli uffici, a che cosa sarebbe stata la mia vita se quel mattino nel cantiere di Remo avessero trovato anche me. Tra pochi giorni tornavo in viale Corsica. Per quest'estate era finita.

    Qualcuno correva sullo stradone nella polvere, sembrava un cane. Vidi ch'era un ragazzo: zoppicava e ci correva incontro. Mentre capivo ch'era Cinto, fu tra noi, mi si buttò tra le gambe e mugolava come un cane.
    - Cosa c'è?
    Lì per lì non gli credemmo. Diceva che suo padre aveva bruciato la casa. - Proprio lui, figurarsi, - disse Nuto.
    - Ha bruciato la casa, - ripeteva Cinto. - Voleva ammazzarmi... Si è impiccato... ha bruciato la casa...
    - Avranno rovesciato la lampada, - dissi.
    - No no, - gridò Cinto, - ha ammazzato Rosina e la nonna. Voleva ammazzarmi ma non l'ho lasciato... Poi ha dato fuoco alla paglia e mi cercava ancora, ma io avevo il coltello e allora si è impiccato nella vigna...

    Cinto ansava, mugolava, era tutto nero e graffiato. S'era seduto nella polvere sui miei piedi, mi stringeva una gamba e ripeteva: - Il papà si è impiccato nella vigna, ha bruciato la casa... anche il manzo. I conigli sono scappati, ma io avevo il coltello... E’ bruciato tutto, anche il Piola ha visto...


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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:11
  10. .

    TUTTO CAMBIATO EPPURE UGUALE

    ( da La Luna e i falò- 1950)



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    mark2j
    Dall'America dove ha fatto fortuna, Anguilla, ritorna per una breve vacanza alle sue Langhe, dove ha trascorso una misera infanzia di trovatello. Su questa “situazione” si innesta il motivo di fondo del romanzo: la ricognizione – fatta con l'animo dell'esule, dell'espatriato – dei luoghi dell'infanzia, paesaggi geografici e paesaggi dell'anima nel contempo, la ricerca dei colori e del senso di una terra mitica – la collina, i poderi, la stalla e le bestie – che nella anonima e disumana vita di espatriato l'”americano si è portato nel sangue.

    mark2j
    Ma il ritorno a quella terra, l'onda di memorie che i luoghi rivisti suscitano approda alla elegia e nel contempo alla tragedia: Certe volte mi chiedevo perchè, di tanta gente viva, non restassimo che io e Nuto, proprio noi... Ero tornato, ero sbucato, avevo fatto fortuna... la le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c'erano più. Da un pezzo non c'erano più... non sapevo che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire, ritrovare la Mora com'era adesso.

    Nemmeno i luoghi della memoria quindi sfuggono all'inesorabile legge del tempo. E a questa legge – amara ma pur naturale – dell'irrimediabile fine delle cose si aggiunge ancora dell'altro: la violenza della recente storia, i cadaveri che ancora affiorano in quella terra tra fango e pietre. L'ingresso brutale della storia distrugge il mito dei luoghi dell'infanzia che l'espatriato Anguilla-Pavese ha vagheggiato. (Milea)


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    Il ragazzo ci ascoltava appoggiato al muro, e mi accorsi che non era che ridesse - aveva le mascelle sporgenti e i denti radi e quella crosta sotto l'occhio -, sembrava che ridesse, e stava invece attento.

    Dissi alle donne: - Allora vado a cercare il Valino -. Volevo starmene solo. Ma le donne gridarono al ragazzo: - Muoviti. Va' a vedere anche tu.

    Così mi misi per il prato e costeggiai la vigna, che tra i filari adesso era a stoppia di grano, cotta dal sole. Per quanto dietro la vigna, invece dell'ombra nera dei noccioli, la costa fosse una meliga bassa, tanto che l'occhio ci spaziava, quella campagna era ben minuscola, un fazzoletto. Cinto mi zoppicava dietro e in un momento fummo al noce. Mi parve impossibile di averci tanto girato e giocato, di lì alla strada, di esser sceso nella riva a cercare le noci o le mele cadute, aver passato pomeriggi intieri con la capra e con le ragazze su quell'erba, avere aspettato nelle giornate d'inverno un po' di sereno per poterci tornare - neanche se questo fosse stato un paese intiero, il mondo. Se di qui non fossi uscito per caso a tredici anni, quando Padrino era andato a stare a Cossano, ancor adesso farei la vita del Valino, o di Cinto.

    Come avessimo potuto cavarci da mangiare, era un mistero. Allora rosicchiavamo delle mele, delle zucche, dei ceci. La Virgilia riusciva a sfamarci. Ma adesso capivo la faccia scura del Valino che lavorava lavorava e ancora doveva spartire. Se ne vedevano i frutti - quelle donne inferocite, quel ragazzo storpio.

    Chiesi a Cinto se i noccioli li aveva ancora conosciuti. Piantato sul piede sano, mi guardò incredulo, e mi disse che in fondo alla riva ce n'era ancora qualche pianta. Voltandomi a parlare, avevo visto sopra le viti la donna nera che ci osservava dall'aia. Mi vergognai del mio vestito, della camicia, delle scarpe. Da quanto tempo non andavo più scalzo? Per convincere Cinto che un tempo ero stato anch'io come lui, non bastava che gli parlassi così di Gaminella. Per lui Gaminella era il mondo e tutti gliene parlavano cosi. Che cosa avrei detto ai miei tempi se mi fosse comparso davanti un omone come me e io l'avessi accompagnato nei beni? Ebbi un momento l'illusione che a casa mi aspettassero le ragazze e la capra e che a loro avrei raccontato glorioso il grande fatto.

    Adesso Cinto mi veniva dietro interessato. Lo portai fino in fondo alla vigna. Non riconobbi più i filari; gli chiesi chi aveva fatto il trapianto. Lui cianciava, si dava importanza, mi disse che la madama della Villa era venuta solo ieri a raccogliere i pomodori. - Ve ne ha lasciati? - chiesi. - Noi li avevamo già raccolti, - mi disse.

    Dov'eravamo, dietro la vigna, c'era ancora dell'erba, la conca fresca della capra, e la collina continuava sul nostro capo. Gli feci dire chi abitava nelle case lontane, gli raccontai chi ci stava una volta, quali cani avevano, gli dissi che allora eravamo tutti ragazzi. Lui mi ascoltava e mi diceva che qualcuno ce n'era ancora. Poi gli chiesi se c'era sempre quel nido dei fringuelli sull'albero che spuntava ai nostri piedi dalla riva. Gli chiesi se andava mai nel Belbo a pescare con la cesta.

    Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale. Nemmeno una vite era rimasta delle vecchie, nemmeno una bestia; adesso i prati erano stoppie e le stoppie filari, la gente era passata, cresciuta, morta; le radici franate, travolte in Belbo - eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sempre uguale, tutto aveva quell'odore, quel gusto, quel colore d'allora.

    Gli feci dire se sapeva i paesi intorno. Se era mai stato a Canelli. C'era stato sul carro quando il Pa era andato a vendere l'uva da Gancia. E certi giorni traversavano Belbo coi ragazzi del Piola e andavano sulla ferrata a veder passare il treno.

    Gli raccontai che ai miei tempi questa valle era più grande, c'era gente che la girava in carrozza e gli uomini avevano la catena d'oro al gilè e le donne del paese, della Stazione, portavano il parasole. Gli raccontai che facevano delle feste - dei matrimoni, dei battesimi, delle Madonne - e venivano da lontano, dalla punta delle colline, venivano i suonatori, i cacciatori, i sindaci. C'erano delle case - palazzine, come quella del Nido sulla collina di Canelli - che avevano delle stanze dove stavano in quindici, in venti, come all'albergo dell'Angelo, e mangiavano, suonavano tutto il giorno. Anche noi ragazzi in quei giorni facevamo delle feste sulle aie, e giocavamo, d'estate, alla settimana; d'inverno, alla trottola sul ghiaccio.

    La settimana si faceva saltando su una gamba sola, come stava lui, su delle righe di sassolini senza toccare i sassolini. I cacciatori dopo la vendemmia giravano le colline, i boschi, andavano su da Gaminella, da San Grato, da Camo, tornavano infangati, morti, ma carichi di pernici, di lepri, di selvaggina. Noi dal casotto li vedevamo passare e poi fino a notte, nelle case del paese, si sentiva far festa, e nella palazzina del Nido laggiù - allora si vedeva, non c'erano quegli alberi - tutte le finestre facevano luce, sembrava il fuoco, e si vedevano passare le ombre degli invitati fino al mattino.

    Cinto ascoltava a bocca aperta, con la sua crosta sotto l'occhio, seduto contro la sponda
    - Ero un ragazzo come te, - gli dissi, - e stavo qui con Padrino, avevamo una capra. Io la portavo in pastura. D'inverno quando non passavano più i cacciatori era brutto, perchè non si poteva neanche andare nella riva, tant'acqua e galaverna che c'era, e una volta - adesso non ci sono più - da Gaminella scendevano i lupi che nei boschi non trovavano più da mangiare, e la mattina vedevamo i loro passi sulla neve. Sembrano di cane ma sono più profondi. Io dormivo nella stanza là dietro con le ragazze e sentivamo di notte il lupo lamentarsi che aveva freddo nella riva...

    - Nella riva l'altr'anno c'era un morto, - disse Cinto.
    Mi fermai. Chiesi che morto.
    - Un tedesco, - mi disse. - Che l'avevano sepolto i partigiani in Gaminella. Era tutto scorticato...
    - Così vicino alla strada? - dissi.
    - No, veniva da lassù, nella riva. L'acqua l'ha portato in basso e il Pa l'ha trovato sotto il fango e le pietre...


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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:08
  11. .

    NESSUNO SARA' FUORI DALLA GUERRA

    ( Prima che il gallo canti- 1948)



    mark2j
    Riportiamo il capitolo conclusivo de La casa in collina (il romanzo che assieme a Il Carcere costituisce il volume prima che il gallo canti ) nel quale in modo più evidente che in altre pagine del romanzo è visibile un tema che non solo ispira quest'opera, ma permea di sé tuttala produzione di Pavese. E cioè: lo scontro drammaticamente sentito e mai risolto tra desiderio di comunicazione e regressione nella propria intimità psicologica, nella ricerca di una propria mitologia dell' infanzia e della terra d'origine, in una parola nella propria solitudine.


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    mark2j Corrado, il protagonista, mentre i suoi compagni in seguito alla caduta del fascismo scelgono la strada dell'impegno e della lotta, si rifugia nelle native Langhe. Ma anche la mitica terra dell'infnzia non sfugge alla realtà storica: anche là arrivano la guerra e le lotte degli uomini, anche là i morti sparsi per la campagna costringono il protagonista a meditare sulla sua vita e sulla sua scelta. E allora proprio nelle Langhe vagheggiate come paese d'infanzia, di scappate, di giochi e che ora lo costringono a guardare in faccia la morte, il protagonista scopre che la sua vita è stata un lungo isolamento, una futile vacanza.

    mark2j
    due conclusioni si possono ricavare dal brano:

    a) la sconsacrazione della terra d'infanzia (la collina ) che sotto l'urgere della realtà perde la sua dimensione mitica e ne assume una dolorante di storia, di lotte, di sangue ( sarà il motivo di fondo de La luna e i falò );

    b) l'implicita - ma ad un certo punto del romanzo, esplicita - affermazione che la vita ha valore solamente se si vive per qualcosa e per qualcuno come dice Cate a Corrado rifacendosi ad un principio che egli stesso le aveva insegnato. E le lotte recenti e i morti - soprattutto i nemici morti – ripropongono ai vivi questo impegno.

    I due suddetti motivi, presenti in tutto il romanzo, si intrecciano drammaticamente nell'inclemente analisi, nel problematico soliloquio che occupa il protagonista e fanno di questo brano “un esame di coscienza di un letterato espresso in alcune fra le pagine più umane e commosse di Pavese”. (Milea)



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    XXIII.
    Niente è accaduto. Sono a casa da sei mesi, e la guerra continua. Anzi, adesso che il tempo si guasta, sui grossi fronti gli eserciti sono tornati a trincerarsi, e passerà un altro inverno, rivedremo la neve, faremo cerchio intorno al fuoco ascoltando la radio. Qui sulle strade e nelle vigne la fanghiglia di novembre comincia a bloccare le bande; quest'inverno, lo dicono tutti, nessuno avrà voglia di combattere, sarà già duro essere al mondo e aspettarsi di morire in primavera. Se poi, come dicono, verrà molta neve, verrà anche quella dell'anno passato e tapperà porte e finestre, ci sarà da sperare che non disgeli mai piú.

    Abbiamo avuto dei morti anche qui. Tolto questo e gli allarmi e le scomode fughe nelle forre dietro i beni (mia sorella o mia madre che piomba a svegliarmi, calzoni e scarpe afferrati a casaccio, corsa aggobbita attraverso la vigna, e l'attesa, l'attesa avvilente), tolto il fastidio e la vergogna, niente accade. Sui colli, sul ponte di ferro, durante settembre non è passato giorno senza spari — spari isolati, come un tempo in stagione di caccia, oppure rosari di raffiche. Ora si vanno diradando. Quest'è davvero la vita dei boschi come si sogna da ragazzi. E a volte penso che soltanto l'incoscienza dei ragazzi, un'autentica, non mentita incoscienza, può consentire di vedere quel che succede e non picchiarsi il petto. Del resto gli eroi di queste valli sono tutti ragazzi, hanno lo sguardo diritto e cocciuto dei ragazzi.

    E se non fosse che la guerra ce la siamo covata nel cuore noialtri - noi non piú giovani, noi che abbiamo detto “Venga dunque se deve venire,” - anche la guerra, questa guerra, sembrerebbe una cosa pulita. Del resto, chi sa. Questa guerra ci brucia le case. Ci semina di morti fucilati piazze e strade. Ci caccia come lepri di rifugio in rifugio. Finirà per costringerci a combattere anche noi, per strapparci un consenso attivo. E verrà il giorno che nessuno sarà fuori della guerra - né i vigliacchi, né i tristi, né i soli. Da quando vivo qui coi miei, ci penso spesso. Tutti avremo accettato di far la guerra. E allora forse avremo pace.

    Malgrado i tempi, qui nelle cascine si è spannocchiato e vendemmiato. Non c'è stata - si capisce - l'allegria di tanti anni fa: troppa gente manca, qualcuno per sempre. Dei compaesani soltanto i vecchi e i maturi mi conoscono, ma per me la collina resta tuttora un paese d'infanzia, di falò e di scappate, di giochi. Se avessi Dino qui con me potrei passargli le consegne; ma lui se n'è andato, e per fare sul serio. Alla sua età non è difficile. Piú difficile è stato per gli altri, che pure l'han fatto e ancora lo fanno.
    Adesso che la campagna è brulla, torno a girarla; salgo e scendo la collina e ripenso alla lunga illusione da cui ha preso le mosse questo racconto della mia vita. Dove questa illusione mi porti, ci penso sovente in questi giorni: a che altro pensare? Qui ogni passo, quasi ogn'ora del giorno, e certamente ogni ricordo piú inatteso, mi mette innanzi ciò che fui - ciò che sono e avevo scordato. Se gli incontri e i casi di quest'anno mi ossessionano, mi avviene a volte di chiedermi: “Che c'è di comune tra me e quest'uomo che è sfuggito alle bombe, sfuggito ai tedeschi, sfuggito ai rimorsi e al dolore?”

    Non è che non provi una stretta se penso a chi è scomparso, se penso agli incubi che corrono sulle strade come cagne — mi dico perfino che non basta ancora, che per farla finita l'orrore dovrebbe addentarci, addentare noi sopravvissuti, anche piú a sangue — ma accade che l'io, quell'io che mi vede rovistare con cautela i visi e le smanie di questi ultimi tempi, si sente un altro, si sente staccato, come se tutto ciò che ha fatto, detto e subito, gli fosse soltanto accaduto davanti — faccenda altrui, storia trascorsa.

    Questo insomma m'illude: ritrovo qui in casa una vecchia realtà, una vita di là dai miei anni, dall'Elvira, da Cate, di là da Dino e dalla scuola, da ciò che ho voluto e sperato come uomo, e mi chiedo se sarò mai capace di uscirne. M'accorgo adesso che in tutto quest'anno, e anche prima, anche ai tempi delle magre follie, dell'Anna Maria, di Gallo, di Cate, quand'eravamo ancora giovani e la guerra una nube lontana, mi accorgo che ho vissuto un solo lungo isolamento, una futile vacanza, come un ragazzo che giocando a nascondersi entra dentro un cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e si dimentica di uscire mai più.

    È qui che la guerra mi ha preso, e mi prende ogni giorno. Se passeggio nei boschi, se a ogni sospetto di rastrellatori mi rifugio nelle forre, se a volte discuto coi partigiani di passaggio (anche Giorgi c'è stato, coi suoi: drizzava il capo e mi diceva: “Avremo tempo le sere di neve a riparlarne”), non è che non veda come la guerra non è un gioco, questa guerra che è giunta fin qui, che prende alla gola anche il nostro passato. Non so se Cate, Fonso, Dino, e tutti gli altri, torneranno.

    Certe volte lo spero, e mi fa paura. Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuoi dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono piú faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso, Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.

    Ci sono giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi. Può sempre succedere. Rimpiango che Belbo sia rimasto a Torino. Parte del giorno la passo in cucina, nell'enorme cucina dal battuto di terra, dove mia madre, mia sorella, le donne di casa, preparano conserve. Mio padre va e viene in cantina, col passo del vecchio Gregorio. A volte penso se una rappresaglia, un capriccio, un destino folgorasse la casa e ne facesse quattro muri diroccati e anneriti. A molta gente è già toccato. Che farebbe mio padre, che cosa direbbero le donne? Il loro tono è “La smettessero un po'”, e per loro la guerriglia, tutta quanta questa guerra, sono risse di ragazzi, di quelle che seguivano un tempo alle feste del santo patrono. Se i partigiani requisiscono farina o bestiame, mio padre dice: - Non è giusto. Non hanno il diritto. La chiedano piuttosto in regalo. - Chi ha il diritto? - gli faccio. - Lascia che tutto sia finito e si vedrà, - dice lui.

    Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è guerra, cos'è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: — E dei caduti che facciamo? perché sono morti? — Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero. (1947-48)


    La casa in collina. PDF


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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:07
  12. .

    MITO


    Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo,
    senza pena, col morto sorriso dell'uomo
    che ha compreso. Anche il sole trascorre remoto
    arrossando le spiagge. Verrà il giorno che il dio
    non saprà più dov'erano le spiagge d'un tempo.
    Ci si sveglia un mattino che è morta l'estate,
    e negli occhi tumultuano ancora splendori
    come ieri, e all'orecchio i fragori del sole
    fatto sangue. È mutato il colore del mondo.
    La montagna non tocca più il cielo; le nubi
    non s'ammassano più come frutti; nell'acqua
    non traspare più un ciottolo. Il corpo di un uomo
    pensieroso si piega, dove un dio respirava.
    Il gran sole è finito, e l'odore di terra,
    e la libera strada, colorata di gente
    che ignorava la morte. Non si muore d'estate.
    Se qualcuno spariva, c'era il giovane dio
    che viveva per tutti e ignorava la morte.
    Su di lui la tristezza era un'ombra di nube.
    Il suo passo stupiva la terra.

    Ora pesa
    la stanchezza su tutte le membra dell'uomo,
    senza pena, la calma stanchezza dell'alba
    che apre un giorno di pioggia. Le spiagge oscurate
    non conoscono il giovane, che un tempo bastava
    le guardasse. Né il mare dell'aria rivive
    al respiro. Si piegano le labbra dell'uomo
    rassegnate, a sorridere davanti alla terra.


    ( Lavorare stanca, 1936 - 1943)



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    Da giovane dio a uomo: questo è l'itinerario di ogni umana creatura; cioè: dalle illusioni e dai sogni - che proiettati sulla realtà la mitizzano - alla consapevolezza, al morto sorriso che chi ha compreso. Dalla smisurata fiducia che ci fa sentire giovani dei, alla stanchezza che pesa su tutte le membra. E' un tema presente nella poesia di tutti i tempi, ma da Pavese rivissuto in questi versi con mirabile novità di accenti, con una straordinaria capacità di trasformare il tessuto logico-meditativo in immagini di stagioni e di sole e di nubi e di acque. Come gli antichi miti con le vicende di dei ed eroi fornivano una spiegazione dei fenomeni naturali, così fa Pavese: e così la dolorosa scoperta della realtà cioè il passaggio dal mito alla storia, dalle fiducie illimitate del giovane dio al morto sorriso dell'uomo, è descritto in una dimensione da mito naturale, diventa la montagna che non tocca più il cielo, il gran sole finito, le spiagge oscurate.

    mark2j
    METRICA E STILE. Versi liberi. (Milea)


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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:06
  13. .

    LAVORARE STANCA


    Traversare una strada per scappare di casa
    lo fa solo un ragazzo, ma quest'uomo che gira
    tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
    e non scappa di casa.

    Ci sono d'estate
    pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
    sotto il sole che sta per calare, e quest'uomo, che giunge
    per un viale d' inutili piante, si ferma.
    Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
    Solamente girarle, le piazze e le strade
    sono vuote. Bisogna fermare una donna
    e parlarle e deciderla a vivere insieme.
    Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
    c'è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
    e racconta i progetti di tutta la vita.

    Non è certo attendendo nella piazza deserta
    che s'incontra qualcuno, ma chi gira le strade
    si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
    anche andando per strada, la casa sarebbe
    dove c'è quella donna e varrebbe la pena.
    Nella notte la piazza ritorna deserta
    e quest'uomo, che passa, non vede le case
    tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
    sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
    dalle mani indurite, come sono le sue.
    Non è giusto restare sulla piazza deserta.
    Ci sarà certamente quella donna per strada
    che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.


    ( Lavorare stanca, 1936 - 1943)



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    mark2j
    La vicenda umana e la carriera artistica di Cesare Pavese sono tragicamente contrassegnate da una contraddizione non risolta: da un lato il senso angoscioso della propria solitudine, dall'altra il desiderio di superare tale condizione e la reiterata consapevolezza di non riuscire. Questo il dissidio – che in altri brani di Pavese troverà altre testimonianze – espresso in questa lirica che è una pagina veramente drammatica: sia per l'intensità poetica che la anima, sia per il complesso di sentimenti che suscita nel lettore il rapporto tra questi versi, di una spenta desolazione, e la tragica fine del suo autore che proprio in uno di quei pomeriggi che fino le piazze son vuote concluso nell'agosto del 1950, a Torino, la sua esistenza col suicidio


    mark2j
    METRICA E STILE. Versi liberi. In aperta contraddizione con l'ermetismo dominante Pavese realizza un tipo di poesia-racconto ripudiando come egli stesso dichiara, il frammento e quel linguaggio allusivo che troppo gratuitamente posa ad essenziale e realizza una poesia-racconto per la quale si crea un verso di ampio respiro con modulazione e andamento che possano far pensare alla ballata popolare o alle lasse epiche. (Milea)


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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:05
  14. .

    Alcuni testi esemplari





    Le due componenti schematicamente indicate, si intrecciano con un vario prevalere ora dell’una ora dell’altra, in tutta l’opera di Pavese. Particolarmente dominante la prima ne La casa in collina.

    Nel romanzo - che descrive l’incapacità del protagonista, un inquieto intellettuale in perenne colloquio con se stesso, a partecipare alla vita degli altri che alla caduta del fascismo hanno scelto la lotta partigiana – coesistono la lucida diagnosi dei limiti della solitudine dell’intellettuale sentita come colpa e come vergogna e la ferma, dolorosa volontà di superarla.

    Ma la volontà di superamento non è superamento: e il significato del libro è proprio in questo dilemma non risolto.

    Ritorna, a pensarci bene, un tema che già Serra aveva affrontato nel suo Esame di coscienza: e le ultime pagine del romanzo sembrano indicare il prevalere del momento civile come unica strada che possa portare allo sbocco della dolorosa situazione.

    Nei racconti cittadini compresi ne La bella estate (Il sulle colline, Tra donne sole, La bella estate) e ne La spiaggia, da un lato il mito del ritorno all’infanzia, al mare, alle colline come àncora di salvezza contro quella inesorabile caduta che è la città e dall’altro la descrizione dell’asfissiante vita cittadina priva di autenticità si intrecciano con risultati altamente suggestive.

    Pavese si serve qui di un dialogato sapientissimo, divagante, ricco di accenni e di allusioni non per descrivere naturalisticamente dei caratteri ma per far sentire una condizione di intima solitudine pur in mezzo allo sfarfallante cicaleccio mondano, per illuminare ora un segreto rapporto con l’esterno, ora l’arcano fascino della collina piemontese avvolta nelle tenebre notturne. Ma è nell’ultimo romanzo -La luna e i falò- che il tema del ritorno (collegato, ovviamente, agli altri) dà i suoi esiti più alti.



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    La luna e i falò


    mark2j
    Il protagonista è un trovatello detto Anguilla, che è cresciuto sulle colline delle Langhe, allevato da una famiglia di contadini che lavorano le terre della Gaminella, podere vicino al Belbo. Ma, dopo aver imparato a sua volta a fare il contadino andando a lavorare alla Morra, altro podere della zona, Anguilla aspira a far fortuna e si imbarca per l’America. La fortuna la trova lavorando in modi diversi, ma la vita là non dev’ essere troppo bella e soprattutto la nostalgia del paese è troppo intense se Anguilla decide tornare. Torna infatti a rivedere le stesse contrade, incontra il vecchio amico Nuto col quale rievoca tutte le tappe e tutte le vicende della propria esistenza.

    Ma tante cose e persone sono ormai cambiate a cominciare proprio da Nuto: non va più per i paesi a suonare nelle bande col suo clarino: ora è un uomo maturo che fa il falegname; ed anche le cose che racconta, spesso con ritrosia, hanno un sapore diverso da quello degli anni della gioventù. C’è stata la Guerra di mezzo, la resistenza, i morti. Ed ancora c’è la miseria: più nera, sembra ora ad Anguilla. Il mezzadro Valino che lavora adesso sulla Gaminella, per fatica e miseria diventa crudele coi suoi, folle per la disperazione uccide, incendia, si impicca. Da quel furore si salva solo il giovane sciancato, Cinto, il ragazzo che Anguilla ha preso a frequentare per la nostalgia della sua infanzia, per una sorta di identificazione con lui.

    Ed altre esistenze ancora, legate al suo passato, si trascinano tristemente o si sono tragicamente concluse. Le tre ragazze della Mora, le padroncine di una volta tanto ammirate e vagheggiate, han fatto una triste fine: una mal maritata, un’altra morta per aborto e la più giovane - la bambina di allora-uccisa e poi bruciata dai partigiano come spia fascista.


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    mark2j
    Anguilla è, come tutti i personaggi di Pavese, uno che ritorna; ma il pellegrinaggio ai luoghi mitici dell’infanzia - vagheggiati da Pavese come la strada per attingere la pienezza del vivere e la consapevolezza del proprio destino - si risolve nella constatazione di quanto ormai è perduto per sempre: di tutto quanto, della Morra, di quella vita di noialtri che cosa resta)… Scomparse le persone, mutati i luoghi, crudele la realtà presente: al ricordo dei falò che Anguilla si è portato nell’anima nella sua solitudine Americana - i falò rituali ai quali i contadini nelle Langhe ricorrono per “svegliare la terra” - ora si sovrappongono altri falò: quello con cui i partigiani bruciano una delle figlie del sor Matteo, quello del Valino.

    Nemmeno la mitica infanzia nei suoi luoghi e nei suoi miti può offrire più l’àncora della salvezza. E qui allora il ricordo, come qualcuno ha notato, non è proustiano abbandono, vagheggiamento elegiaco, ma amarezza e sapore di cenere: Anguilla-Pavese. Oppresso dal passato e dal presente, deve constatare che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, vedrà morire, ritrovare la Mora com’era adesso.
    E’ la lucida e dolorosa constatazione della irrimediabile legge di morte che è connaturata alle cose dell’uomo: pochi mesi dopo Pavese suggellava col suo tragico gesto questa desolata conclusione.

    Quel dissidio - testimoniato dalla sua vita e dalla sua produzione - che con disperato alternarsi di cadute e di riprese aveva cercato di risolvere in vari modi (con l’impegno artistico, col lavoro, con la militanza politica) si concludeva con una sconfitta che assume, vista ora in prospettiva, valore di testimonianza: “nessuno più di lui - ha scritto il Sapegno - nell’orizzonte della nostra cultura così chiusa e proclive alle soluzioni più facili e tranquillanti, ha espresso quella fondamentale riluttanza alla vita, quell’interna lacerazione e preventiva consumazione di tutti gli affetti e gli ideali che la compongono, quella primordiale vocazione di morte, che è alle radici di tanta della nostra civiltà. E il fatto di avere raccolto in sé e bruciato fino in fondo nella sua persona tutte le esperienze e il tormento di una condizione decadente, basta a conferire a quel destino d’uomo un rilievo, una funzione storica che non sappiamo chi altri da noi potrebbe più degnamente impersonare”. (Milea)


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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:04
  15. .

    La solitudine e il mito




    Una situazione, una “figura” sono ricorrenti e tipiche nell’opera di Pavese: quella dell’espatriato, di colui che si è allontanato, sradicato dal proprio mondo, è andato in giro, magari ha fatto fortuna, ma prima o poi, nel ritorno ai propri luoghi e nel rimpatrio, tenta ancora l’aggancio col passato infantile: dal protagonista della prima lirica (I mari del sud) della raccolta poetica a quello dell’ultimo romanzo: Anguilla de La luna e i falò. Condizione questa che, d’altra parte era sul piano biografico proprio quella di Pavese, sradicato dalle Langhe.

    Alla condizione di solitudine, alla impossibilità di avviare un colloquio con gli altri - derivante proprio da questa condizione di estraniato- si possono opporre come unica difesa il “paese” ( un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti, dichiara Anguilla), il ricordo e i legami - in una dimensione che è nel contempo sentimentale e biologica - col mondo primigenio e autentico dei luoghi e dei tempi dell’infanzia. Tutto è nell’infanzia, anche il fascino che sarà a venire… così a ciascuno i luoghi dell’infanzia ritornano alla memoria; in essa accadono cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico.

    Su questa idea del mito Pavese lavorò molto nell’intento di chiarificare quella che consapevolmente riteneva una componente di fondo della sua arte; la meditazione sul Vico, gli studi di etnologia, i suoi legami con l’irrazionalismo decadente convergono nell’elaborazione di questa sua idea-base secondo la quale in noi, in un aurorale contatto col mondo, si creano miti, simboli, che assurgono a significazione delle cose, irrazionale ma definitive e determinante per il futuro: una sorta di memoria del sangue.
    Il mito cioè è un fatto avvenuto una volta per tutte che perciò si riempie di significati e sempre se ne andrà riempiendo in grazia appunto della sua fissità, non più realistica… Esso avviene sempre alle origini, come nell’infanzia: è fuori del tempo…



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    mark2j
    Il problema, certo, è assai complesso, ma dalle riportate citazioni si può trarre già una conclusione: quanto lontano sia Pavese, partendo da premesse del genere, da ogni finalità di realistica rappresentazione. Il compito dell’artista è quindi nella escavazione di questo fondo mitico primigenio e irrazionale, nel recupero dei suoi momenti esemplari, nel dare forma, parola a tutto ciò (l’arte moderna è, in quanto vale, un ritorno all’infanzia. Suo motivo perenne è la scoperta delle cose, scoperta che può avvenire, nella sua forma più pura, soltanto nel ricordo dell’infanzia).
    Ed è significativo che, in piena battaglia per il neorealismo, Pavese sottolineasse questa dimensione evocative e lirica dell’arte, questa fondamentale importanza della parola che per lui è ben altro che strumento di mimetica registrazione, come per lui l’arte è ben altro che naturalistica rappresentazione dei fatti.


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    mark2j
    Da quanto si è detto si possono dunque enucleare due filoni di fondo da tener presenti come indicazioni-guida per la comprensione dell’opera di Pavese:
    1. La vita fatalmente ci stacca da mondo dell’infanzia, dai luoghi e dai miti in essa verificatesi ed ecco l’esperienza della solitudine, di un epidermico rapporto con gli uomini che non tocca le ragioni profonde del nostro essere, ecco la consapevolezza dell’estraneamento, del peso di vivere, dell’inaridirsi: come di un albero trapiantato in un terreno non adatto.

    Ma la solitudine di Pavese, pur se di chiara matrice decadente, ha un timbro tragico che nei testi esemplari della suddetta stagione letteraria mancava: non è sentita come blasone di nobiltà, come compiaciuta e aristocratica diversità dagli altri, ma come tragica incapacità di vivere -val la pena esser solo, per essere sempre più solo? - come bruciante problema che va posto e risolto: tuto il problema della vita è questo: rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri annota ne Il mestiere di vivere.

    Tutta la vita di Pavese è contrassegnata da questo supremo impegno, da questa ricerca di comunicazione- l’esperienza sentimentale perennemente vagheggiata e risoltosi sempre in frustrazione, la militanza politica volontaristicamente perseguita – che non trova però la sua realizzazione e approda anzi alla tragica confessione del fallimento.

    2.L’arte trarrà alimento ovviamente da questa condizione dell’uomo e metterà in luce l’elemento per così dire negativo, cioè la banalità e la non autenticità del vivere cittadino, ma soprattutto mirerà -e sarà questo il suo elemento “positivo”- al recupero dei miti dell’infanzia, alla espressione del loro potenziale simbolico. Il che vuol dire: scavo nella propria interiorità, alla scoperta delle radici del proprio essere, del proprio destino che, per le teorie del mito, si è determinato nell’infanzia. Da ciò nasce quella contrapposizione (città-campagna, Torino-Langhe) tipica di tanti libri di Pavese e il dialettico rapporto tra i due termini. (Milea)



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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:03
2573 replies since 8/4/2008
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