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Posts written by Milea

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    Raffaello-Ritratto-di-Leone
    Raffaello Sanzio
    Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de' Medici e Luigi de' Rossi - 1518
    olio su tavola - 155,2x118,9 cm
    Firenze, Galleria degli Uffizi



    Un ritratto dice che la persona raffigurata è esistita.
    Che era potente, ricca, talvolta bella. Un ritratto può incutere timore e reverenza, oppure sedurre. E’ potere, vanità, illusione di vivere per sempre. I ritratti dei sovrani e dei papi, eseguiti dai più grandi pittori, sono tutti sopravvissuti. Io preferisco i ritratti degli anonimi - persone comuni di cui si sono persi nome e memoria, e che però sono vive per noi, perché ha saputo salvarle il pennello di un artista.

    Raffaello-Ritratto-di-Leone-dett2

    Come Petrus Christus, Lotto, o Holbein. La mia eccezione è questo ritratto di Raffaello. Divino genio, dio mortale su cui tutto è stato scritto, che oggi si ammira con una rispettosa indifferenza. Non è epoca, la nostra, che possa amare davvero la perfezione, la bellezza classica e la grazia che contraddistinguono la sua pittura.

    Ma questo ritratto multiplo riassume una stagione irripetibile. Raffaello lo dipinge nel 1518, al culmine della ricchezza, degli onori, della gloria. Pittore ormai al di sopra di ogni lode, sommerso di richieste, al punto da aver dovuto allestire una bottega con decine di collaboratori; architetto della fabbrica di san Pietro, senza più rivali (si è sbarazzato pure di Leonardo e Michelangelo), non ha più nulla da chiedere a se stesso – tanto che ci si domanda cos’altro avrebbe potuto dipingere se non fosse morto a 37 anni.

    Raggiunta la vetta della sua arte, potrebbe anche solo replicarsi. Invece l’occasione riaccende la scintilla. Deve fare il ritratto a Giovanni de’ Medici, ovvero papa Leone X. Ciò non dovrebbe stimolarlo, visto che è un uomo "grossolano, di brutta effigie e poca vista" (Sanudo dixit), e inoltre lo ha già ritratto almeno sei volte. Il testone e il corpo pingue e bolso del Medici ricorrono nei Palazzi Vaticani (nelle sale della Segnatura, di Eliodoro, dell’Incendio di Borgo). Ma lì recita, è in costume - travestito nei panni dei predecessori. Qui, invece, Leone X può essere solo se stesso.

    Il papa aborre la miseria e la sofferenza, evita i problemi e vuol vedere solo gente bella, sana e felice. Perciò adora Raffaello, che sente affine. Sono entrambi raffinati, gaudenti, umanisti, pagani, affascinati dalla musica, dalla classicità, dalla bellezza. Femminile il pittore, maschile il papa. Raffaello deve riuscire nell’impresa di idealizzarlo - dipingerlo come vorrebbe essere - e insieme immortalarlo così com’è. Lo raffigura nel lusso di cui si compiace - simboleggiato dal colore dominante del dipinto, il rosso, in tutte le sfumature possibili; con gli emblemi del suo potere - il camauro in testa e la mozzetta sulle spalle. Ma anche col doppio mento, le palpebre gonfie, i solchi sulle guance, le occhiaie, il naso grosso. E’ seduto al suo scrittoio, di sbieco, assorto. Le mani sono bellissime, affusolate, bianche, femminee.

    La destra tiene una lente d’ingrandimento fra le dita (modo gentile di alludere alla forte miopia che gli aveva meritato il plebeo nomignolo del Talpa), e poggia su una Bibbia miniata - aperta alla prima pagina del Vangelo di Giovanni. Sul tappeto spicca una campanella d’argento, cesellata con perizia. Serve a chiamare i domestici. Ma anche i cortigiani. Che infatti accorrono, sbucando dall’oscurità, e si fermano dietro di lui. Sono suoi cugini, quasi coetanei, amici di una vita, come fratelli. Col cardinale e vicecancelliere Giulio, quello alla sua destra, il papa ha condiviso l’infanzia, lo studio all’università di Pisa, l’esilio, i viaggi in incognito in Europa. Anche il cardinale Luigi de’ Rossi vive da sempre con lui, per questo poggia le mani sulla sedia, con familiarità.


    Raffaello-Ritratto-di-Leone-dett


    Raffaello sfida la natura, la vince e ci inganna. Stoffe, oggetti, mobili, acquistano un’evidenza tattile, materica. Il velluto, il damasco, la seta, l’argento a sbalzo, la pergamena, il laccetto della campanella, la pelliccia, i capelli, il fermafogli: ogni cosa non sembra dipinta, ma vera. Il gioco di specchi con la realtà si spinge al punto che il pomello della sedia riflette la scena: le spalle del papa, l’ombra di un corpo, la finestra della stanza che per noi è invisibile. Luigi, unico, ci guarda - smaschera la posa, ma per accrescere la finzione: tu stai guardando tre persone vive. E infatti il quadro fu mandato a Firenze in settembre, in modo da permettere ai tre di partecipare (in effigie) a un banchetto di nozze.

    Il ritratto di Leone X e cugini, lodato e imitato, è un archetipo della ritrattistica occidentale. Ciò che mi ha sempre colpito è la naturalezza. Ma non nel senso del virtuosistico illusionismo di Raffaello. La naturalezza con cui un pittore dipinge un papa. Con cortigiano garbo, e però senza servilismo. Leone X è ritratto nella sua intimità quotidiana: principe, papa, amico. Così questo quadro segna un apice nei rapporti fra arte e potere. Connessi, legati, una espressione dell’altro, e però non subordinata. Durerà poco.


    Raffaello-Ritratto-di-Leone-dett1


    Nel giro di tre anni moriranno Luigi, Raffaello, poi Leone X. Sopravviverà il più coriaceo, Giulio, che sognava il mestiere delle armi e che diventerà anche lui papa, per assistere allo scisma protestante, al sacco di Roma e alla distruzione di tanta bellezza. Nel ritratto nessuno sorride. Come sapessero che l’estate del 1518 è una delle ultime della loro dolce vita. Raffaello inventa quadri che non dipinge, rileva la mappa di Roma antica, e si gode spensieratamente i suoi piaceri. Leone X, scampato a una congiura, sull’orlo della bancarotta, sfidato da Lutero che giungerà a paragonarlo all’Anticristo, dedica tutto il suo tempo al divertimento: vive fra poeti, musici e buffoni, va a caccia e la sera posa per il suo amato pittore. La sera, sì: guardate le sue guance. C’è un’ombra scura. La barba sta ricrescendo. Di giorno, il papa e il pittore, felici, hanno di meglio a cui pensare. Melania Mazzucco


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    morte-di-Procri

    Piero di Cosimo, La morte di Procri - 1495
    olio su tavola - 65,4x184,2 cm
    Londra, National Gallery



    C’è una giovane donna distesa sull’erba.
    Il manto rosso che indossava si è disfatto, lasciando scoperti corpo e seno. Il sangue stilla ancora dalla ferita alla gola, e dai graffi sul polso sinistro e sulla mano destra. Si è difesa. Ma da chi? Non si vedono assalitori, né cacciatori. Sta morendo, forse è appena morta: il suo viso ha il colore latteo del cielo. C’è un fauno dalle zampe caprine e le orecchie d’asino, accanto a lei: le scuote delicatamente la spalla, come volesse svegliarla. La fissa - contrito, innamorato e colpevole.

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    C’è un cane fulvo, dall’altra parte.
    La veglia, con l’ostinata fedeltà dei cani. L’inutilità della carezza del fauno e dell’attesa del cane trasmettono a chi guarda un dolore non meno intenso perché sommesso. Dietro il corpo di lei, come ripetendone le curve, la costa digrada fino alla riva dell’acqua: un paesaggio idilliaco dove volano un pellicano e degli aironi, simbolo di sacrificio e di innocenza, e giocano altri tre cani. Strani fiori che non so riconoscere sbocciano sul prato e sui cespugli. Il contrasto fra i colori squillanti, la miniaturistica attenzione ai dettagli e la posizione delle figure accentua il senso di perdita e di malinconia. Di rimpianto, commozione e pietà per la giovane donna morta. Ma, stranamente, anche per il fauno e il cane che l’aspetta invano. Tutto ciò è stato dipinto a olio su tavola di legno di pioppo, fra il 1495 e il 1500, a Firenze.

    Dici Firenze in quegli anni e pensi a Botticelli, Filippino Lippi, o Leonardo da Vinci, sulla via del ritorno dopo la caduta di Ludovico il Moro, o addirittura a Michelangelo, appena partito dopo aver già meravigliato tutti. Invece il pittore di questo capolavoro non è altrettanto conosciuto - forse perché delle sue appena 56 opere solo 13 sono ancora in Italia. Si chiamava Piero di Cosimo Ubaldini, abitava vicino santa Maria Novella. Era stimato, ma anche criticato per il carattere, la solitudine, la stravaganza. Era un tipo ‘fantastico’.

    Per imporsi, un pittore doveva lavorare per i Medici, per i signori o per il Papa, meglio se in luoghi pubblici, dove le sue opere fossero viste, discusse, imitate. Lui invece lavorò per il papa solo quando era apprendista nella bottega di Cosimo Rosselli, e per il resto lavorò per le confraternite della sua città, per mercanti di lana, banchieri e raffinatissimi gentiluomini che gli chiedevano spalliere e cassoni destinati a decorare le loro camere da letto. Un altro pittore li avrebbe dipinti in fretta, e per far soldi, o li avrebbe delegati ai suoi assistenti, e si sarebbe concentrato sulle pale d’altare e i ritratti dei papi. Non Piero di Cosimo.

    A quelle spalliere, destinate a sparire nelle stanze segrete dei palazzi, viste solo dai padroni di casa e dai loro amici, dedicò le invenzioni più originali e tutto il suo singolare talento. Un pittore che fa questa scelta, a Firenze - mentre il sinistro frate Savonarola instaura la teocrazia, tuona contro il vizio, il lusso, i libri profani, e brucia in piazza sui roghi delle vanità i cassoni, gli specchi, le carte da gioco, i ritratti immodesti e quadri come questo - a me sembra degno di qualcosa di più del rispetto ironico che gli riservarono i contemporanei e i posteri.

    I quali gli riconobbero il merito di aver formato i migliori artisti della generazione successiva (Andrea del Sarto, Jacopo Pontormo). Ma trovavano troppo eccentrici i suoi soggetti e i suoi modi: ha dovuto accontentarsi dell’ammirazione dei romantici, dei surrealisti e di noi nati secoli dopo. Dunque questa incantevole opera era una favola (cioè una scena mitologica) destinata a una camera da letto. Ad ammonire o educare gli sposi, forse.


    morte-di-Procri-dett1



    Ma qual era il suo messaggio?
    Che cosa è accaduto, e chi sono la bella e le bestie? Non lo sappiamo. L’immagine conserva il suo ambiguo mistero. La tradizione riconosce nella fanciulla Procri, protagonista delle Metamorfosi di Ovidio, e di una favola di Niccolò da Correggio recitata per le nozze di una Este (la sua tragica storia d’amore in seguito piacque a Shakespeare). La vicenda è complessa, e mi perdonerete se la riassumo. Innamorata, ricambiata, di Cefalo, Procri è vittima della gelosia del compagno e della propria.

    I due si lasciano, e Procri, sobillata da un fauno che le insinua il sospetto di un tradimento, si ritira nella foresta, in compagnia del suo cane Lelape, finché Cefalo, eccellente cacciatore, scambiandola per selvaggina, la uccide. Piero di Cosimo però manipola la fonte, altera la cronologia, elimina Cefalo: insomma reinventa la storia, e la trasforma in una elegiaca meditazione sulla fragilità della vita. Degli uomini, dei fauni, e degli animali - tutti dipinti con la stessa democratica attenzione e la stessa cura. Per capire quanto era rivoluzionario Piero di Cosimo, bisogna ricordare che i suoi contemporanei ritenevano i fauni dei grotteschi mostri di natura, dal sesso priapico perennemente rizzato, e i cani esseri privi di anima razionale, come tutti gli animali (e anche gli Indiani, appena scoperti da Colombo). Per lui, invece, uomini, mostri e cani sono segnati dallo stesso dolore di vivere.

    Osservava con religioso rispetto la natura, le nuvole - perfino lo sputo di un malato sul muro non gli suscitava disgusto, ma lo ispirava. Vasari influenzò il destino dell’arte di Piero di Cosimo dedicandogli una biografia ricca di aneddoti raccolti fra i suoi allievi. Indugia sulla ‘bestialità’ del pittore, che aveva disegnato un intero libro di animali, amava la natura selvaggia e disprezzava la compagnia degli uomini. Apprezza il pittore, deride la persona. Ma è possibile distinguere l’uomo e l’artista? Nel Quattrocento credevano di no: ognuno dipinge se stesso. Io non ho risposta. Ma il pittore che ha dipinto il cane di Procri non era un uomo ‘bestiale’: era un uomo. Melania Mazzucco



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    Da Boldini a De Pisis: i
    capolavori di Ferrara in mostra a Firenze







    I capolavori di Ferrara in mostra a Firenze fino al 19 maggio. 'Da Boldini a De Pisis' accoglie nelle due prestigiose sedi museali dell'Oltrarno fiorentino (la Galleria d'arte moderna di Palazzo Pitti e Villa Bardini della Fondazione Parchi Monumentali Bardini Peyron) un'ampia rassegna dell'intero percorso museale delle Gallerie d'Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara. Due secoli d'arte dal romanticismo fino al novecento in un'unica mostra. Spiegano i curatori: “Con questo evento espositivo si è voluto in primis rispondere al disagio subito dalle Gallerie ferraresi a causa dei gravi danni recati agli ambienti di Palazzo Massari, sede delle collezioni dell'Ottocento e del Museo d'Arte Moderna e Contemporanea Filippo de Pisis, a causa del sisma che ha colpito nel maggio 2012 l'Emilia Romagna.

    Per informazioni e prenotazioni: Firenze Musei 055.290383;
    e-mail [email protected]


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    Filippo de Pisis, Il gladiolo fulminato, Ferrara
    Museo d'Arte Moderna e Contemporanea Filippo de Pisis


    Dopo avere presentato una significativa scelta delle collezioni a Palazzo dei Diamanti, la direzione dei musei ferraresi, non rassegnandosi alla necessita' di ricoverare le opere in deposito, ha domandato e ottenuto ospitalità dalla Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo museale della città di Firenze, così da consentire ad un pubblico più vasto la visione almeno temporanea di alcuni di questi capolavori, riassumibili nella sintetica cifra da Boldini a De Pisis”. A Villa Bardini 26 opere documenteranno le collezioni ferraresi a partire dal Romanticismo storico di Gaetano Turchi, Massimiliano Lodi, Girolamo Domenichini e Giovanni Pagliarini seguito dagli autoritratti dei principali artisti locali - da Giuseppe Mentessi a Giovanni Boldini - per giungere al simbolismo di Gaetano Previati con il capolavoro assoluto Paolo e Francesca (1909), tratto dall'omonimo canto dantesco. Sarà presente in particolare un nucleo rilevante di ritratti del grande Giovanni Boldini.

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    Filippo De Pisis, La rosa nella bottiglia, 1950
    Ferrara, Museo d'Arte Moderna e Contemporanea Filippo de Pisis


    Alla Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti saranno esposte invece 35 opere, tra dipinti e sculture: dal simbolismo letterario di Giovanni Muzzioli e Gaetano Previati, alle allegorie malinconiche nelle sculture di Angelo Conti ed Arrigo Minerbi. Anche qui si potranno ammirare tre capolavori di Giovanni Boldini intriganti per il sapore inedito, rispetto al repertorio consueto del pittore: due nature morte (Un angolo della mensa del pittore; Le mele calville) e la Marina a Venezia con scansioni geometriche simile ad una composizione manga giapponese. A documentare il passaggio al futurismo saranno una tela di Arnoldo Bonzagni ed un Bronzo di Annibale Zucchini; mentre la corrente che perseguì la ripresa della tradizione classica, con evidenti riprese dai maestri Rinascimentali ferraresi, sarà rappresentata dal Ritratto della sorella (1921) di Achille Funi di cui esporrà anche le sue suggestioni dall’antico del Foro romano.


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    Filippo de Pisis, Strada di Parigi, 1938, Ferrara
    Museo d'Arte Moderna e Contemporanea Filippo de Pisis


    In mostra il Bove di Carrà, “dove sembra che il peso ed il valore di un’ intera tradizione italica trovi corpo, come il buio della pena si annida nel corpo della madre del carcerato di Mario Pozzati”. Un’amplificazione in linea con i monumentali progetti della politica del Regime, sarà quella che si documenta nella forma a larghe campiture utilizzata da Mario Sironi nello “studio per un mosaico del Palazzo di Giustizia di Milano”. L’omaggio al Novecento ferrarese si concluderà con una tra le più importanti collezioni di opere del grande artista – poeta Filippo De Pisis, che racconta la sua personalissima visione d’artista attraverso nature morte, ritratti, vedute parigine, fiori raccontati e dipinti con una forma coinvolgente e sintetica. “Quei capolavori di artisti di prima grandezza nel nostro recente passato, l’Otto e il Novecento che conducono verso la contemporaneità, (e che) non hanno bisogno di commento: quelli di Boldini e De Pisis sono i più famosi e i più amati, ma la selezione è ampia e varia, e consente di aprire prospettive non ovvie anche ad un pubblico di amatori informati” spiega Cristina Acidini, Soprintendente per il Polo Museale di Firenze.


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    Giovanni Boldini, Donna in nero che guarda il “Pastello della signora Emiliana
    Concha de Ossa”, 1888 ca


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    Giovanni Boldini, La signora in rosa, 1916, olio su tela,
    Ferrara, Museo Giovanni Boldini


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    Giovanni Boldini, Ritratto del piccolo Subercaseaux, 1891
    olio su tela, Ferrara, Museo Giovanni Boldini


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    Roberto Melli, Composizione di oggetti, 1934
    Museo d'Arte Moderna e Contemporanea Filippo de Pisis



    Giovanni Boldini, Marina a Venezia, 1909-1910
    olio su tavola, Ferrara, Museo Giovanni Boldini



    Fonte: huffingtonpost.it


    Edited by Costantine Rose - 23/2/2013, 10:16
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    Isola_dei_Morti_IV_-Bocklin

    Arnold Böcklin, L’isola dei morti - maggio 1880
    olio su tela, 111 x 115 cm
    Kunstmuseum, Basilea



    Dove vanno i morti? In Paradiso? In cielo, tra le stelle? Sottoterra? Scendono nel triste Ade con una moneta sotto la lingua per pagare il traghetto di Caronte? Li aspetta la prateria degli asfodeli, oppure, come malvagi, il Tartaro - dove, come scriveva Omero, stridono di terrore come uccelli fuggenti? O, come giusti, i campi elisi? O ancora, l’isola boscosa dei beati -riservata a coloro che vissero virtuosamente? Oppure il grande nulla, dove alla fine di ogni dolore l’individuo si dissolve nel tutto? Qualunque cosa crediate, questo quadro offre una risposta seducente - e chiunque lo abbia guardato ha pensato che non sarebbe male se andasse a finire così.


    E’ uno di quei rari quadri che mettono tutti d’accordo - forse perché tutti temiamo la fine. E’ dunque consolante, cosa che in genere nuoce all’arte, e spesso la abolisce. Non è questo il caso. Fin dalla primavera del 1880, quando Böcklin lo realizzò, in un mese - per una donna che aveva appena perso il marito e che gli aveva richiesto un quadro “per sognare” - L’isola dei morti esercitò una fascinazione ipnotica. Non era nemmeno finito e già gliene avevano chiesta una replica, e poi un’altra, e un’altra ancora - al punto che oggi se ne contano quattro varianti (una quinta è andata distrutta durante la seconda guerra mondiale). Tutte apprezzabili, ma la prima di una suggestione inimitabile.


    Arnold_B%C3%83%C2%B6cklin_second-version
    Seconda versione, giugno 1880
    olio su tavola, 74 x 122 cm
    Metropolitan Museum,New York




    L’ammirazione divenne unanime, quasi assordante. Böcklin, che dipingeva da più di trent’anni, con alterna fortuna, misteriosi paesaggi popolati da draghi, tritoni e ninfe, dovette restarne sorpreso. Come sempre accade, le ragioni del successo non avevano nulla a che vedere con l’opera. I nazionalisti tedeschi vi videro il simbolo dell’arte germanica. Ciò generò un fanatismo isterico, e procurò al pittore estimatori imbarazzanti, fra cui Adolf Hitler (ma Böcklin non lo seppe mai, perché dal 1901 riposava nel cimitero protestante di Fiesole dove, dopo una vita nomade fra la Svizzera, l’Italia e la Germania, aveva scelto di fermarsi per sempre). Il quadro al Führer piaceva talmente tanto che era riuscito ad acquistarlo. C’è una celebre foto scattata nella Cancelleria del Reich il 12 novembre del 1940. Si vedono Hitler e Molotov. La guerra già devasta, milioni di europei sono morti o stanno per morire. E cosa si vede, alle loro spalle? L’isola dei morti. Ma un quadro non può scegliere i suoi amici.


    Arnold_Boecklin_Island_of_the_Dead%2C_3_Version
    Terza versione, 1883
    Olio su tavola, 80 x 150 cm
    Alte Nationalgalerie, Musei statali di Berlino




    E’ il crepuscolo: la notte cede al giorno o il giorno alla notte, perché nell’oscurità già si distingue la linea dell’orizzonte. Una barca a remi scivola sull’acqua nera, calma, immobile. Il remo è immerso, ma non solleva onde né spruzzi - al punto da rendere visibile il silenzio. La barca trasporta una bara, coperta da un drappo bianco. Ritta a prua c’è una figura inquietante, fasciata di veli bianchi, come una statua, o una mummia. Ma potrebbe anche essere l’anima del morto. La barca sta per approdare a un’isola: piccola, domina però il quadro. Falesie scoscese si ergono sul mare come montagne. In mezzo, cresce un bosco di cipressi. Un cimitero è infatti l’isola: nelle rocce, sono state scavate delle tombe - ora vuote. Un muro riverbera una luce chiara. Il buio sta per inghiottire il fantasma in bianco, richiudendosi su di lui. Tutto accade fuori dal tempo, in nessuna epoca, e dunque sempre.
    L’isola, le figure minuscole, l’oscurità, il mare fermo, la quiete impenetrabile: tutto comunica il senso della solitudine. La pittura di Böcklin non ha sorelle.


    Isola_dei_morti_quarta_versione
    Quarta versione, 1884
    olio su rame, 81 x 151 cm
    distrutto a Berlino durante la seconda guerra mondiale




    Non somiglia a quanto vanno sperimentando i suoi contemporanei, pur essendo L’isola dei morti dipinta negli stessi anni in cui Monet disfa il colore in materia, Degas scopre le ballerine, van Gogh percorre il Borinage per stare vicino ai minatori e Moreau spinge il simbolismo oltre il delirio. E’ un quadro fantastico dipinto con precisione accademica, una visione costruita con forme naturalistiche. L’atmosfera misteriosa piacque a De Chirico, Ernst e Dalì. E’ dunque un quadro che condensa - e non separa: sogno, realtà, ricordo, nostalgia.

    L’immagine, apparentemente tradizionale, combina in modo nuovo paesaggi, stili e culture diverse. Il mito classico, il romanticismo nordico e la natura mediterranea. La barca di Caronte e le tombe etrusche, i cipressi di Fiesole e le rupi svizzere. E’ insomma la sintesi perfetta della ricerca di Böcklin, svizzero di nascita, tedesco di cultura, italiano per amore, che scese a Roma per il Grand Tour nel 1850 e da allora non poté più rinunciare alla libertà e alla luce delle contrade selvagge “del mondo non civilizzato del sud”.


    Arnold_B%C3%83%C2%B6cklin-5-version
    Quinta versione, 1886
    Olio su tavola, 80 x 150 cm
    Museum der bildenden Künste, Lipsia




    Infine, è anche un funerale. Quello, solenne e austero, che Böcklin sognava per sé. Non stava affatto morendo, anzi: nel 1880 sapeva fronteggiare dolori e malinconia, era un bellissimo uomo dagli occhi blu, traboccante di idee e di amore per la sua giovane moglie romana e i suoi figli (ne aveva messi al mondo 14, molti però morti bambini). Come tutti i pittori del XIX secolo, aveva vissuto fra l’emarginazione della miseria e la coscienza orgogliosa della propria diversità d’artista. Trovato un pubblico, il benessere, la fama, ormai sapeva di essere anche lui un eletto - uno dei favoriti degli dèi che i greci destinavano all’isola dei beati. Però sapeva anche che i miti sono favole, il mondo antico è morto, e l’isola dei beati non si trova. Un pittore può renderla reale solo dipingendola - imprigionando l’infinito su un riquadro di tela.

    A volte le spiegazioni degli artisti sulle loro opere sono pletoriche, o fuorvianti. Non quella di Böcklin: un quadro deve raccontare qualcosa, diceva, far pensare come una poesia e lasciare un’impressione come un brano di musica. Non saprei aggiungere altro. Melania Mazzucco

    B%C3%83%C2%B6cklin-_Die_Lebensinsel_-1888
    L'isola dei vivi, 1888
    olio su tela, 94x140 cm
    Kunstmuseum, Basilea


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    IL BAGNO DEI PROFUMI


    tendae


    Sugli asciugamani a nido d’ape le boccette di profumo si lasciano circondare di greche fiorite: geometriche quelle che colorano le tendine di verde pastello interrotto dall’azzurro polvere dei flaconcini. Niente profumi ma soltanto la greca (la stessa delle tendine) sul tappetino imbottito.




    LE TENDINE
    Occorrente ed esecuzione
    Tela Emiane 11 bianca in misura della finestra; cotone Moulinè DMC nei colori indicati nella legenda. Le tendine sono larghe cm.37, compreso 1 cm. di orlo.
    Ripiegare un orlo di 9 cm. sul bordo inferiore della tela; su quello superiore eseguire una coulisse per la bacchetta. Ricamare il motivo dello schema centrato in larghezza e a 1 cm. sopra l’orlo, proseguendo fino a 20 cm. dalla coulisse; proseguire i motivi B fino al limite della tenda. Con il cotone preso a 3 fili, ricamare i “fiorellini” a punto stella.



    mensolina



    Fragile boccette di cristallo dai mille riflessi, tappi dorati, filigrane d’argento. Ampolline e bottigliette dal sapore antico vestono la stanza da bagno con l’atmosfera romantica delle toilette della nonna. A cominciare dal bordo copri mensola sul quale si ripetono, tra smerli rifiniti di sbieco color pastello, flaconi di profumo vagamente Liberty.


    bottiglietteprofumini





    IL COPRIMENSOLA
    Occorrente ed esecuzione
    Sbieco verde acqua alto 2 cm.; una striscia di tela Aida bianca lunga quanto la mensola da ricoprore e alta 12 cm. più la sua profondità; cotone Moulinè DMC nei colori indicati nella legenda.
    Ricamare i motivi dello schema nel centro di ogni festone, alternandoli. Tagliare la festonatura e rifinire con lo sbieco cucito a cavallo dei margini.



    tappetom





    IL TAPPETO
    Occorrente ed esecuzione
    Cm. 55x90 di cotonina verde acqua; cm. 55x30 di tessuto nido d’ape bianco; cm. 83x60 di ovattina in fogli; cm. 83x60 di tessuto antiscivolo; cm. 85x62 di tela Aida bianca; per il ricamo cotone Moulinè DMC nei colori indicati nella legenda.
    Il tappeto misura cm. 59x83. Ricamare il motivo dello schema sulla tela Aida iniziando da un angolo, a circa 9 cm. dai lati. Con il cotone preso a due fili, ricamare i “fiorellini” a punto stella e la “spighette” a punto lanciato. Nel centro del ricamo ritagliare una finestra di cm. 50x26, orlare di cm.1, inserire sul rovescio il tessuto nido d’ape bianco e cucire tutt’attorno. Tagliare dalla cotonina un rettangolo di cm. 83x60, due strisce di cm. 87x10 e due di cm. 63x10. Profilare il ricamo con le strisce di cotonina, cucite a cavallo dei margini e con gli angoli a 45°. Sovrapporre al ricamo, diritto contro diritto, il tessuto antiscivolo, il rettangolo di cotonina e l’ovattina; cucire lasciando un tratto aperto per rivoltare e chiudere a punti nascosti.



    asciugamanip






    GLI ASCIUGAMANI
    Occorrente ed esecuzione
    2 asciugamani grandi e 2 piccoli a nido d’ape bianco DMC; per il ricamo cotone Moulinè DMC nei colori indicati nella legenda.
    Ricamare il motivo dello schema A o B centrato nel bordo in tela Aida 55 degli asciugamani grandi e il motivo C o D in quello degli asciugamani piccoli. Con il cotone preso a 3 fili, ricamare i “fiorellini” a punto stella e la “spighette” a punto lanciato. (Milea)





    Edited by Milea - 13/6/2014, 20:03
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    GLI ADDOBBI DI PASQUA



    buonapasquab



    Ad ogni Pasqua il suo addobbo. per quello più giovane e allegro sono uova, pulcini e coniglietti.
    Per decorare, una “Buona Pasqua” ricamata sul bordino “pronto tutto” da appendere alla finestra insieme al pulcino story, raccontata da un coloratissimo cartoncino ondulato oppure un bordino più sottile da annodare attorno all’uovo fatto con cartapesta e carta crespa.



    L’UOVO DI CARTAPESTA
    Occorrente ed esecuzione
    Carta da giornale; colla vinilica; un palloncino gonfiato di cm. 17x18 di diametro; gesso; pennello; carta crespata verde; cm. 85 di nastro a quadretti bianchi e gialli; cm. 85 di bordino “pronto fatto” bianco alto cm.2,5; cotone Moulinè DMC verde col. 3818.
    Con il cotone preso a un filo, ricamare a punto scritto il motivo dello schema sul bordino, ripetendolo a 1,5 cm. di distanza per tutta la lunghezza.
    Strappare in pezzi non troppo grandi la carta da giornale; immergerla in una soluzione di acqua e colla (1 parte di acqua e 1 di colla); formare un primo strato sul palloncino sovrapponendo leggermente i pezzi; lasciare asciugare e ripetere per altre 4 volte. Diluire il gesso con la soluzione di acqua e colla; passarlo su tutta la superficie della cartapesta; lasciare asciugare; bucare il palloncino; tagliare con le forbici la parte superiore, frastagliandola. Ritagliare nella carta crespata un rettangolo di cm. 66x30; incollarlo all’interno dell’uovo; “strizzare” la carta crespata con il nastro a quadretti e con quello ricamato.



    LA PULCINO-STORY
    Occorrente ed esecuzione
    Cartoncino ondulato avorio, giallo e rosso; cartoncino nero; fili di rafia naturale; pennarello nero; colla; fustella per fori; cm.80 di bordino “pronto fatto” bianco con ondine rosse alto cm. 5; cotone Moulinè DMC rosso col. 321
    Ritagliare dal bordino “pronto fatto” un pezzo di cm.40 (cocche), due di cm.15 (code) e uno di cm.8 (nodo); ricamare il motivo dello schema sulle cocche, a 3,5 a destra e a sinistra dal centro; chiudere ad anello unendo i lati corti; “Strizzare” a fiocco con il nodo e cucire le code sul retro, con punti nascosti.
    Dal cartoncino ondulato e da quello colorato ritagliare i vari pezzi seguendo le sagome. Sovrapporre e incollare tutte le parti; con il pennarello nero disegnare i particolari. Forare (fustella) la parte alta e bassa dell’uovo e del pulcino che esce dall’uovo e la sola parte alta del pulcino, passare nei fori i fili di rafia, legarli e annodarli come illustrato; in alto legare il fiocco ricamato.



    LA DECORAZIONE A CONIGLIETTO
    Occorrente ed esecuzione
    Un uovo di polistirolo alto cm. 16; cartoncino ondulato avorio, marrone chiaro e giallo; cartoncino rosa e nero; colore acrilico terra di Siena naturale; cm.70 di nastro a quadrettini bianchi e verdi alto 1,5 cm.; cm. 25 di nastro giallo alto cm. 1,5; cm. 25 di nastro giallo alto cm. 1,5; pennarello nero; cm. 95 di filo nero di nylon rigido; colla; cm. 50 di cordoncino da tappezziere verde; cm. 10x15 di tela Aida bianca; cotone Moulinè DMC nei colori indicati nella legenda.
    Ricamare il motivo dello schema nel centro della tela Aida. Ritagliare seguendo la sagoma. Dipingere l’uovo di polistirolo con l’acrilico; lasciare asciugare; incollare sulla facciata il ricamo; rifinire tutt’attorno con il cordoncino verde formando un fiocco in alto. Dal cartoncino ondulato e da quello colorato ritagliare i vari pezzi seguendo le sagome. Sovrapporre e incollare tutte le parti inserendo sotto il naso il filo di nylon tagliato in pezzi di 11-12 cm., per formare i baffi; con il pennarello disegnare le sopracciglia. Incollare sul nastro giallo la testa, l’uovo e i piedi; distanziandoli di 1 cm.; allacciare a fiocco attorno al collo il nastro a quadretti bianchi e verdi.



    I BIGLIETTINI DI AUGURI

    biglietti-pasqua


    Campanelle, rametti d’ulivo, uova e pulcini: i più allegri simboli della Pasqua da ricamare per i bigliettini in cartoncino ondulato rifiniti con cordoncino, nastri di raso e ciuffetti di rafia. E immancabili i segnaposto ricamati su un’etichetta di tela Aida.



    IL BIGLIETTO CON CAMPANE
    Occorrente ed esecuzione
    Cm. 28x19,5 di cartoncino ondulato giallo; cm. 15x15 di cartoncino ondulato rosso; cm. 28x19,5 di carta bianca; taglierino; cm. 50 di nastrino di raso rosso alto cm.1; cm. 12x12 di tela Aida 55 bianca; cotone Moulinè DMC nei colori indicati nella legenda.
    Ricamare il motivo dello schema nel centro della tela Aida. Piegare a metà il cartoncino ondulato giallo in modo da ottenere un biglietto di cm.14x19,5. Riportare sulla facciata esterna la sagoma della campana, posizionarla a cm.2,5 dal lato destro e a cm.3,5 dal lato inferiore e intagliarla con il taglierino. Allo stesso modo ritagliare col cartoncino ondulato rosso un bordo di cm.4x14 e uno di cm.2x14; ritagliare a “onde” uno dei lati lunghi di ciascuno e incollarli sulla facciata, in alto e in basso con le linee ondulate all’interno; dallo stesso cartoncino ritagliare anche il bordo della campana e incollarlo in posizione. Incollare la tela Aida ricamata sul rovescio, in corrispondenza della finestra e la campana di cartoncino sul davanti; completare con un doppio fiocco di raso. All’interno incollare la carta bianca, piegata a metà.



    IL BIGLIETTO “BUONA PASQUA”
    Occorrente ed esecuzione
    Cm. 23,5x17 di cartoncino giallo; cm. 10x12,5 di cartoncino ondulato verde; forbici sagomate; cm 9x11 di tela Aida 55 bianca; cotone Moulinè DMC nei colori indicati nella legenda.
    Ricamare il motivo dello schema nel centro della tela Aida. Ritagliare i lati dei due cartoncini con le forbici sagomate; ritagliare una finestra di cm. 6,7x9,3 nel cartoncino ondulato verde; sovrapporlo a quello giallo, a 0,5 cm. dal lato destro e da quello inferiore, inserendo fra i due lati la tela Aida ricamata. Piegare a metà il biglietto.



    IL BIGLIETTO CON PULCINO
    Occorrente ed esecuzione
    Un rettangolo di cm. 30,5x18 di cartoncino ondulato verde; una striscia di cm. 4x18 e una di cm. 35x1,5 di cartoncino giallo; cm. 27x17,5 di carta bianca; forbici sagomate; fustella per fori; rafia naturale cm. 30 di cordoncino di di raso verde; cm. 8x8 di tela Aida 55 bianca; cotone Moulinè DMC nei colori indicati nella legenda.
    Ricamare il motivo dello schema nel centro della tela Aida. Tagliare un lato lungo delle due strisce di cartoncino giallo con le forbici sagomate; ritagliare una finestra di cm. 6,5x6 nel cartoncino ondulato verde, a 5 cm. dal lato destro e a 1 cm. da quello inferiore; incollare sul rovescio, in corrispondenza la tela Aida ricamata. Incollare la striscia gialla sul lato a sinistra del cartoncino verde (con la parte sagomata verso l’esterno) e ripiegarla verso l’interno; piegare a metà il restante cartoncino verde in modo da ottenere un biglietto largo cm. 13,5.
    Con la fustella praticare due fori al centro della striscia gialla (a circa 0,5 cm. dal lato) e due in corrispondenza sul lato a destra del biglietto ( a circa 3 cm. dal lato). Incollare la striscia gialla a “tetto” sul lato superiore della finestra e a “cornice” sugli altri lati; legare a “mazzetto” striscioline di rafia lunghe 9 cm. e incollarle al colmo del tetto; tagliare a metà il cordoncino di raso, inserirlo nei fori del cartoncino verde e incollarlo sul retro. Piegare a metà il biglietto, risvoltare e allacciare la parte gialla.



    IL BIGLIETTO CON UOVO
    Occorrente ed esecuzione
    Cm. 18x16 di cartoncino ondulato giallo; cm. 15x16 di cartoncino ondulato blu; cm. 28x16 di carta bianca; taglierino; cm. 35 di nastrino di raso giallo alto 1 cm. cm. 12x12 di tela Aida 55 bianca; cotone Moulinè DMC nei colori indicati nella legenda.
    Ricamare il motivo dello schema nel centro della tela Aida. Ritagliare a “onde” uno dei lati di cm.16 di ciascun cartoncino; incollare quello giallo per 4 cm. su quello blu; piegare a metà il biglietto; riportare sulla facciata esterna la sagoma dell’uovo, posizionarla a 2 cm. dal lato destro e a 1 cm. dal lato inferiore e intagliarla con il taglierino. Incollare la tela Aida ricamata sul rovescio, in corrispondenza della finestra; completare con il fiocco di raso. All’interno incollare la carta bianca, piegata a metà.




    segnaposti





    I SEGNAPOSTO “ETICHETTA”
    Occorrente ed esecuzione
    Stuzzicadenti ; cartoncino bianco; ritagli di tela Aida 55 bianca; cordoncino in misura: cotone Moulinè DMC nei colori indicati nella legenda.
    Ricamare il motivo delle greche e il nome, nel centro del ritaglio di tela Aida in misura. Sfrangiare di mezzo cm. oppure arrotondare gli angoli del ricamo. Rifinire con cordoncini annodati. Incollare su cartoncini in misura e quindi sullo stuzzicadenti.



    LE UOVA SEGNAPOSTO
    Il gallo e la gallina
    Occorrente ed esecuzione
    Un uovo; cartoncino bianco;colla; pennarello nero, rosso, giallo, arancione e verde; paglietta di legno da imballaggio.
    Svuotare l’uovo: forare con un ago i due poli opposti del guscio per fare uscire albume e tuorlo. Dal cartoncino bianco ritagliare 2 volte ogni sagoma relativa. Sovrapporre e incollare fra di loro le parti uguali, lasciandole aperte in basso per 1 cm.; decorarle con i pennarelli colorati e incollarle in posizione sull’uovo. Con la paglietta formare un “nido”; sovrapporrvi e incollarvi l’uovo desiderato.



    Il pulcino
    Occorrente ed esecuzione
    Un uovo; cartoncino bianco, giallo e rosso; cartoncino ondulato rosso; colla; pennarello nero. Procedere come spiegato per il gallo e la gallina (dal cartoncino ondulato rosso ritagliare la sagoma una sola volta). Sovrapporre e incollare fra di loro le parti della cresta, lasciandole aperte in basso per 1 cm.; incollare le parti in posizione e decorare con il pennarello.



    Il coniglietto
    Occorrente ed esecuzione
    Un uovo; cartoncino ondulato marrone chiaro, giallo e rosso; cartoncino bianco, rosa e nero; pennarello nero; colla; ovatta sintetica. Svuotare l’uovo: forare con un ago i due poli opposti del guscio per fare uscire albume e tuorlo. Dal cartoncino ondulato e da quello colorato ritagliare i vari pezzi. Sovrapporre e incollare fra di loro tutte le parti: decorare e disegnare l’uovo e incollarlo in posizione. Sul retro, in basso, incollare un batuffolo di ovatta sintetica (coda). (Milea)



  7. .

    Pollock%2C-Full-Fathom-Five
    Jackson Pollock, Full Fathom Five - 1947
    Oil on canvas with nails, tacks, buttons, key, coins, cigarettes, matches, etc., 129.2x76.5
    The Museum of Modern Art, New York



    Seminare parole sulla carta.
    Erigere un muro di caratteri, e poi inabissarsi nelle proprie pagine come in un labirinto. E’ il sogno di molti scrittori. Può sembrare un modo strano per cominciare un discorso su Jackson Pollock, il mito dell’avanguardia americana degli anni ‘50, il rude cowboy del Wyoming, paragonato a Marlon Brando e James Dean: ma è esattamente questa la sensazione, insieme riposante e angosciante, che mi comunicano le sue opere. Come fossero dei muri che l’artista ha eretto intorno a sé, o dei mari in cui si è tuffato per annegarvi. Infatti se gli scrittori possono realizzare la fuga nell’opera solo in metafora, o finendo in manicomio, un pittore può farlo davvero. E Pollock ci è entrato dentro col corpo, con le mani, e lì è rimasto - cristallizzato, salvo, come un insetto in una goccia d’ambra.

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    La mia lettura è influenzata dal titolo di questo quadro. Gli storici dell’arte non attribuiscono troppa importanza ai titoli dei quadri, perché sanno che di rado gli artisti li scelgono da soli, e spesso nascono invece a quadro finito, dietro suggerimento di un amico intellettuale, poeta, critico. In questo caso, del traduttore Ralph Manheim, vicino di casa del pittore. Io però sono di quelli che nei musei si ingobbiscono per leggere la didascalia, anche se il quadro in questione rappresenta un sacco di tela o un escremento. E mi mettono a disagio le esposizioni dove ci sono ottanta opere “senza titolo”. Perché, anche se non raffigurano nulla, esse hanno pur sempre un soggetto - cioè un senso per chi le ha create. Poiché nessuna opera si realizza da sé: nemmeno se fatta sotto dettatura automatica dell’inconscio.

    Anche Pollock classificò molte sue opere col nome “untitled”, seguito da un numero, una lettera e l’anno di creazione. Ma ai due quadri che prediligo, Full fathom five e Deep, ha messo dei titoli ‘verticali’. Come se volesse assimilare la superficie orizzontale del quadro agli spazi dell’oceano o del cielo. Pollock finì per odiare ciò che gli altri apprezzavano della sua opera: il sembrare frutto del caso. Dunque mi piace pensare che Full fathom five dica molto dell’opera in questione e di lui. Si tratta di un quadro astratto alto quasi un metro e trenta: del 1947, è uno dei primi esempi dello stile che diventerà inconfondibilmente suo.

    Filamenti di colore sgocciolato sulla tela formano arabeschi e ideogrammi enigmatici.
    Domina il verde,con inserti di bianco, arancione e rosso, fra geroglifici di linee nere. La superficie è butterata di relitti della vita materiale del pittore, incastrati sulla tela come in un collage: bottoni, fiammiferi, puntine, monete, sigarette con la cartina strappata, tappi di tubetti di colore e chiavi. Allora l’insieme assume una forma quasi antropomorfa: sembra di intravedere una figura prigioniera sotto lo strato di pittura. Ed è esattamente così. Le foto a raggi X effettuate per il restauro hanno svelato che esiste davvero una figura, in piedi, con un braccio alzato, sotto la ragnatela di linee.

    E’ come se Pollock l’avesse seppellita dentro il suo quadro.
    Questo infatti significa Full fathom five: A cinque braccia sul fondo. E’ la canzone che Ariel canta a Ferdinando nella Tempesta di Shakespeare, descrivendo il padre che il giovane crede annegato. A cinque braccia sul fondo giace dunque un cadavere. Ma il cadavere di chi? Si potrebbe rispondere: della figura - cioè della pittura tradizionale che Pollock, alla ricerca della sua identità, sta abbandonando. Dunque cancella, sfregia, seppellisce, con un atto liberatorio, tutto ciò che lo ha preceduto.

    Ogni età trova la sua propria tecnica. La tecnica che avrebbe messo a punto Pollock - più o meno da questo quadro - aboliva il pennello, la tavolozza, il cavalletto. Prevedeva una tela stesa sul pavimento, e la distribuzione del colore direttamente dal tubetto, mediante lo sgocciolamento (il ‘dripping’). La pittura diventava espressione delle energie dell’inconscio,azione (‘action painting’), e l’atto della creazione più importante del suo esito.

    Questa tecnica è stata paragonata all’orgasmo, all’inseminazione, e anche alla minzione.
    Allora si può forse rispondere diversamente. La figura che giace sul fondo è l’artista stesso. Aveva scelto di dipingere sul pavimento perché, come dichiarò in un’intervista rilasciata nei giorni di Full fathom five, così si sentiva parte del quadro-poteva camminarci intorno, ed essere letteralmente nel quadro. Un metodo simile a quello degli indiani del west che lavorano sulla sabbia.

    Quando sono nel mio quadro, disse, non sono cosciente di quello che faccio, un quadro ha una vita propria, che devo lasciar emergere. E la lasciò emergere, fra il 1947 e il 1950 - l’epoca d’oro di Pollock, quattro anni scarsi in cui realizzò i suoi capolavori, in uno stato di grazia febbrile. Poi tentò di cambiare strada - senza successo, perché la critica lo aveva ormai identificato con la formula degli Untitled. Allora entrò in crisi e si smarrì. Si ritrovò nel 1953, con Deep:ancora un titolo che evocava l’abisso.

    Nel bianco della tela una crepa oscura accogliente come una vagina indicava un varco, e una via di scampo. Pollock si nascose per l’ultima volta dentro la sua opera, e forse era già in salvo quando l’11 agosto del 1956 la macchina che guidava ubriaco si schiantò contro un palo e lo uccise. Melania Mazzucco




  8. .

    oscar_kokoschka_la_sposa_del_vento_1914

    Oskar Kokoschka, La sposa del vento – 1914
    olio su tela, 181 x 220
    Basilea, Kunstmuseum


    L’amore non si vede. E’ una brezza, un brivido, un vento, fin dai tempi di Saffo. E non lo si rappresenta: si fa. I pittori se la sono quasi sempre cavata dipingendo le fattezze delle loro amanti o mogli trasformandole in modelle, madonne, muse. Altre volte le hanno raffigurate con un realismo che ha scioccato i benpensanti, ma che era invece la prova più grande d’amore- perché l’amore è verità e non abbellimento e mistificazione. Molti di loro, infine, hanno semplicemente eluso il soggetto, preferendo paesaggi o astrazioni. Non c’è niente di più pericoloso per un artista che mostrare i propri sentimenti, le proprie ferite, le proprie illusioni. Il ridicolo ti aspetta al varco. Per accettare la sfida, bisogna essere o molto giovani o molto vecchi. O molto coraggiosi.


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    Oskar Kokoschkaera soprannominato il Gran Selvaggio e il Seminatore di Zizzania (cioè il Diavolo), a causa dei quadri che aveva esposto alle mostre della Kunstschau. Avevano suscitato riprovazione e disgusto. Si distaccavano in modo radicale dalla tradizione e dalle abitudini visive dei visitatori. Nessuna armonia: troppo violenti e maleducati i colori, sgraziato il pennello, troppo sconcertanti i ritratti, che denudavano l’anima dei soggetti come ai raggi X.

    Nel 1914 Kokoschka aveva ventotto anni.
    Avrebbe dipinto per altri sessantasei: una vita intera. Alla fine, dopo lo scherno, l’esecrazione e l’esilio, sarebbe stato considerato un caposaldo della pittura del XX secolo. Ma nessuno dei suoi quasi cinquecento quadri avrebbe avuto la visionaria potenza di questo.

    Non c’è disegno o schizzo preparatorio, i personaggi vengono proiettati direttamente sulla tela con larghe e fluide pennellate: la superficie è un turbine di grumi blu, verdi e viola, i colori sono arroganti e dolorosi come graffi, le forme sottolineate da tocchi di bianco, la profondità dello spazio dalla luce. Come nei quadri dei veneziani, e di Tintoretto in particolare, ammirati a Venezia pochi mesi prima, tutto è colore, luce e movimento.

    La scena rappresenta due amanti
    , un uomo e una donna di notte, sul fare dell’alba, sfatti dalla stanchezza che segue il coito. Sarebbero in un letto, se questo fosse un quadro realista. Ma siccome non lo è, sono in una forma curva che ricorda una barca, o una conchiglia, in balia delle onde, del mare e del vento. L’attrazione che provano l’uno per l’altra si comunica alle forze cosmiche, e diventa corrente elettrica, dinamismo: una tempesta, che li trascina con sé.

    La Tempesta era infatti il titolo originale che Kokoschka aveva dato al suo quadro.
    Gli amanti sono coricati, la donna in posizione dominante. Del resto siamo nel 1914: epoca in cui la donna è fatale. Vampira lussuriosa, forza distruttrice e destabilizzante, spaventa da qualche decennio l’immaginario maschile. Artisti simbolisti e decadenti, e anche psichiatri e filosofi hanno spolpato il tema dell’uomo succube, vittima designata della Femmina.

    Freud ha già rivelato i meccanismi dell’Eros e del principio di piacere ai viennesi - e Kokoschka, nato in una cittadina danubiana di provincia, a Vienna ha studiato, vissuto e amato. La donna dorme, appagata. L’uomo invece è sveglio. Non per proteggerla o difenderla. Lei dorme perché gli è sfuggita nel sonno, è già altrove - imprendibile. Lui veglia, teso, inquieto, in allarme. E’ una scena universale: il sesso, l’abbandono, l’illusione del possesso, l’enigma dell’altro. E’ una scena privatissima, quasi oscena. Perché l’uomo ha i lineamenti del pittore, e quello - benché deformato - è il suo autoritratto. I capelli lisci, il volto oblungo, gli occhi grandi e inquisitori, il mento prominente. E la donna è la sua amante, Alma Schindler vedova Mahler - che si è lasciata travolgere dal suo genio selvatico, gli ha promesso di sposarlo se creerà un capolavoro, ma invece è fuggita, spaventata dalla sua gelosia, dalla sua rozzezza, dalla sua energia.

    Nell’autobiografia, lui scrisse di aver dipinto il quadro quando fra loro tutto era già finito. Usò un verbo molto strano: disse di essersi "districato" da lei. La bellissima, esigente, vorace Alma era diventata la sua ossessione, e Kokoschka poteva trattenerla solo imprigionandola per sempre sulla tela. Lei non rimase turbata dall’esibizione della loro intimità e anni dopo, scrivendo le sue memorie, ammise che quello era il suo ritratto migliore.

    Il poeta Georg Trakl visitò il pittore nel suo studio quando il quadro si stava ancora asciugando sul cavalletto. Conosceva la selvaggia e violenta storia di passione che lo aveva ispirato. Del resto ne sparlava tutta Vienna, che allora era il cuore artistico del mondo. Suggerì un titolo più suggestivo: La sposa del vento. Kokoschka accettò il consiglio.

    Il quadro non gli riportò la sposa mancata. Anzi, finì per sostituirla, diventando non più il simbolo dell’unione spirituale e alchemica che i due si erano illusi di avere realizzato amandosi, ma il suo equivalente materiale. Intanto l’Austria era entrata in guerra. E quando capì che Alma non sarebbe mai tornata indietro, Kokoschka si arruolò volontario nel XV reggimento dei dragoni. Gli allievi ufficiali dovevano possedere un cavallo. Kokoschka vendette La sposa del vento e se ne andò al fronte, sotto le bombe, a farsi sparare in testa, in sella al suo cavallo. A volte anche l’amore assoluto, quello che fa di un giovane selvaggio un uomo, e di un pittore espressionista esecrato da tutti un maestro del Novecento, vale appena il prezzo di un cavallo. Melania Mazzucco




  9. .


    Annunciazione corridoio Nord
    Convento di San Marco





    ANGELICO_Annunciation-corridoio-nord
    Affresco (tra il 1440 e il 1450) - (cm 230 x 321)
    Convento di San Marco, Firenze



    La composizione è semplificata rispetto alle versioni con lo stesso soggetto degli anni ’30 ma molto più intensa grazie soprattutto all’uso dei colori anch’essi semplici, ma molto accesi e luminosi. La scena è dominata dalle due sole figure dell’Angelo e della Vergine, inquadrate in un ambiente architettonico che ricorda quello dello stesso convento, dove il pittore viveva. L'Annunciazione è ambientata in un portico che dà su un cortile, come le Annunciazioni su pala degli anni 1430 (Annunciazione del Prado, di Cortona e di San Giovanni Valdarno), che si affaccia su un giardino chiuso da una palizzata (allusione all'hortus conclusus che simboleggia la verginità di Maria) oltre il quale si vede un boschetto con cipressi.

    ANGELICO_Annunciation-angelo
    L'architettura è più che mai impostata alla semplice eleganza rinascimentale, con il punto di fuga all'interno del portico stesso e con le colonne più massicce del solito. L'ambientazione è spoglia ed essenziale, come la stanzetta che si apre alle spalle della vergine. L'unica nota decorativo è data dai capitelli, resi con un forte accento sulla luce, e sono sia ionici che corinzi: un richiamo agli ordini architettonici trattati da Leon Battista Alberti nelle sue opere, che alcuni hanno messo in relazione con opere del soggiorno romano come l'affresco di Santo Stefano che riceve il Diaconato. Un elemento di innovazione è la disposizione dei protagonisti lungo una diagonale, che partecipano così in maniera più efficace allo spazio, mentre riprendono opere anteriori, come l'Annunciazione della cella 3, l'umile gesto di Maria, in bilico tra accettazione e soggezione, e la sobrietà dell'Angelo, che risponde al gesto di Maria con una posizione analoga delle braccia in segno di sottomissione. L’attenzione dell’osservatore è fermata al momento in cui l’angelo è appena arrivato nella casa di Maria e si inchina per salutarla. Ella è rappresentata come giovane ragazza, seduta su un semplice sgabello di legno, con indosso vesti disadorne ma molto eleganti, le braccia incrociate sul grembo; il suo sguardo è rivolto verso l’angelo. Il dialogo riportato nel brano di Luca qui è convertito in un gioco di sguardi tra i due molto intenso: in quello di Maria c’è timore ma anche disponibilità e attesa per quello che dirà l’Angelo, in questi c’è tenerezza e tranquillità, volto a rassicurare perché il suo è un lieto messaggio che viene da Dio. Tutto l’affresco è pervaso da sobrietà, pacatezza, rigore e silenziosa spiritualità. Le parole dell'Annunciazione sono dipinte in basso, vicino alla base della colonna centrale, più o meno all'altezza degli occhi dello spettatore. Poco sotto, sullo spessore del gradino, si trova un'incitazione alla preghiera: VIRGINIS INTACTAE CUM VENERIS ANTE FIGURAM PRETEREUNDO CAVE NE SILEATUR AVE ("Quando passerai davanti alla figura della Vergine intatta, stai attento di non dimenticare di dire l'Ave Maria"). Il pittore vi usò la costosa azzurrite e mise anche inserti in oro. Notevole è la monumentalità delle figure, isolate nello schema prospettico del porticato, con un forte senso di silenziosa spiritualità.

    Fra_Angelico_corridoio-nord-vergine
    Fonte





    Edited by Lottovolante - 9/2/2013, 20:21
  10. .


    Annunciazione della cella 3 di San Marco





    Angelico_Annunciation_Cell_3
    Affresco (1438-1440 circa) - (cm 187x157)
    Convento di San Marco, Firenze



    L'Angelico si dedicò alla decorazione di San Marco su incarico di Cosimo de' Medici, tra il 1438 e il 1445, anno della sua partenza per Roma, per poi tornarvi negli anni 1450, quando completò alcuni affreschi e si dedicò alla statura di codici miniati per il convento stesso. Molto si è scritto circa l'autografia dell'Angelico per un complesso di decorazioni di così ampia portata, realizzato in tempi relativamente brevi. Gli affreschi del piano terra vengono concordemente attribuiti all'Angelico, mentre più incerta e discussa è l'attribuzione dei quarantatré affreschi delle celle e dei tre dei corridoio del primo piano. Se i contemporanei come Giuliano Lapaccini attribuiscono tutti gli affreschi all'Angelico, oggi, per un mero calcolo pratico del tempo necessario a un individuo per portare a termine un'opera del genere e per studi stilistici che evidenziano tre o quattro mani diverse, si tende a attribuire all'Angelico l'intera sovrintendenza della decorazione ma l'autografia di solo un ristretto numero di affreschi, mentre i restanti si pensa che vennero dipinti su suo cartone o nel suo stile da allievi, tra cui Benozzo Gozzoli.

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    L'Annunciazione si trova nel corridoio Est, lato esterno, nella fila di celle da cui si ritiene che sia iniziata la decorazione, e fa parte di quel ristretto numero di opere di attribuzione diretta al maestro assolutamente indiscussa, sia nel disegno che nell'esecuzione. Angelico aveva già lavorato sul tema dell'Annunciazione, per pale di altare di sapore tardogotico, ricche di dettagli minuti e preziosi, ma anche con una struttura prospettica delle architetture e un'analisi psicologica dei personaggi pienamente rinascimentale. In questo affresco, come in quello successivo dell'Annunciazione del corridoio Nord, l'Angelico ruppe con i modi del decennio precedente per dare origine a una scena severa e disadorna, con figure semplificate e alleggerite, dove la parsimonia compositiva e i modi essenziali sprigionano un forte misticismo. Questa nuova fase dell'arte dell'Angelico fu sicuramente influenzata dalla destinazione particolare degli ambienti, dove i monaci vivevano una vita fatta di contemplazione, preghiera e meditazione. Ciò portò a una lettura del fatto evangelico più essenziale e quindi più efficace, scevra da distrazioni decorative superflue e adeguata più che mai all'immediatezza narrativa e psicologica delle grandi opere di Masaccio. La scena si svolge in uno spoglio porticato, che somiglia alla cella chiusa di un monastero, aperto sul lato sinistro su un'altra stanza, non un giardino, con esili colonne che reggono archi a tutto sesto. Il centro della scena è occupato semplicemente dalla parete bianca, sulla quale si stagliano l'Angelo, a sinistra, e la Vergine. Il muro cieco oltre che fare da sfondo ha la funzione anche di evitare qualunque distrazione che allontani la mente dai confini della scena: anche i capitelli sono coperti dalle ali dell'Angelo. La volta stessa della cella contribuisce al senso di armonia e mette in relazione l'ambiente reale con la scena sacra. Forse l'Angelico aveva in mente anche le teorizzazioni dell'Alberti, che in architettura distingueva la bellezza, data dalle proporzioni armoniose, dall'ornamento, dato da elementi decorativi subordinati come colonne, capitelli, ecc. Maria è inginocchiata su uno sgabello e, tenendo un libro in mano (simbolo delle Sacre Scritture che si avverano con la sua decisione), incrocia le braccia in segno di accettazione e umiltà, sollevando anche un lembo della veste che ricade in snelle pieghe verticali.

    Angelico_Annunciation_Cell_3-angelo


    L'Angelo è estremamente sobrio e composto in confronto alle sfarzose pale d'altare come l'Annunciazione di Cortona o quella del Prado: le ali sono più piccole e la sua veste è priva delle dorature ed ha una cromia, come in tutto il resto dell'affresco, più tenue e spenta. Egli risponde al gesto di sottomissione incrociando pure le braccia sul petto. La parte superiore della sua tunica ha una forte caratura plastica, derivata da Masaccio, mentre quella inferiore, dalle pieghe a cannula che discendono inclinandosi sul dietro, ricorda l'esempio di Lorenzo Ghiberti. Manca l'usuale colomba dello Spirito Santo, ma l'elemento divino è comunque rappresentato dalla fiammella che arde sulla testa dell'Angelo. Le due figure protagoniste sono disposte lunga una direttrice obliqua, formata dall'incrocio dei loro sguardi, in modo da condurre lo sguardo dello spettatore dall'angelo alla Vergine. Lo sfondo neutro, dove domina un senso di luce e di spazio, fa risaltare, per contrasto, la forte resa plastica, ottenuta come in Masaccio tramite le ampie campiture di colore "macchiate" dalla luce e dal chiaroscuro. Sfrondando i particolari secondari si arriva così a rendendo con forza il peso e il volume delle figure. I protagonisti appaiono così come un gruppo scultoreo contenuto e immobile. Dietro un'arcata spunta la figura di san Pietro Martire in abito domenicano, che fa da testimone alla scena e la attualizza inquadrandola nella gamma dei principi dell'Ordine. Fonte



    Edited by Lottovolante - 9/2/2013, 20:20
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    Annunciazione di San Giovanni Valdarno




    annunciazione-beato-angelico-valdarno
    tempera su tavola (1432 circa) - (cm 195x158 )
    Museo della basilica di Santa Maria delle Grazie, San Giovanni Valdarno



    L'opera è probabilmente la seconda di una serie di tre grandi tavole dell'Annunciazione dipinte dall'Angelico negli anni trenta del Quattrocento; le altre due sono l'Annunciazione di Cortona e l'Annunciazione del Prado.

    Nel 1432 un documento testimonia come l'Angelico stesse lavorando a un'Annunciazione per la chiesa di Sant'Alessandro a Brescia, della quale non resta alcun'altra traccia. Poiché pochi anni dopo la medesima chiesa commissionava un'altra pala dell'Annunciazione, questa volta al veneziano Jacopo Bellini (pagata nel 1443), si è ipotizzato che l'opera a cui l'Angelico lavorava non arrivò mai a Brescia e, per motivi sconosciuti, prese altre strade. Alcuni hanno ipotizzato che l'opera sia l'Annunciazione di Cortona, altri quella di San Giovanni. L'opera venne destinata alla chiesa francescana di Montecarlo presso San Giovanni, terminata nel 1438: qui restò fino alla fine del XX secolo. Non tutta la critica è concorde sull'autografia e sulla collocazione nel percorso artistico dell'Angelico. Alcuni vi leggono un'influenza delle opere di Filippo Lippi. La scena è composta in maniera simile all'opera ritenuta la prima della serie, l'Annunciazione di Cortona, con alcune differenze. Innanzitutto la superficie dipinta invece che tripartita è bipartita, con il giardino ridotto a un affaccio dalle arcate laterali di sinistra. Per fare ciò l'Angelico ha spostato il punto di fuga all'interno della casa invece che all'esterno, concentrando maggiormente l'attenzione dello spettatore sull'Annunciazione. Come nell'Annunciazione di Masolino, anche qui lo spazio appare diviso in due dall'arcata in primo piano e segna una struttura di transizione tra il tradizionale polittico cuspidato medievale e la pala quadrata rinascimentale. Al centro delle arcate, entro un medaglione, si trova la figura di un profeta, che guarda Maria e tiene in mano un cartiglio che certifica l'avverarsi della profezia. Rispetto all'opera cortonese la sensibilità cromatica è superiore, con un concerto di colori più ricco, che va dal verde del giardino, al rosa e l'oro della veste dell'angelo, al blu e al rosso di quella di Maria, fino al cielo stellato del soffitto del portico e alle delicate incrostazioni marmoree, che in questo caso, oltre che al pavimento si estendono anche in specchiature sulle pareti.

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    La Madonna e l'Angelo hanno posizioni e abbigliamento simili alla pala di Cortona, con un maggiore risalto delle luce, che in questo caso è studiata con più cura: sono scomparse infatti le incertezze di provenienza dell'opera di Cortona e l'illuminazione arriva con coerenza dal lato sinistro, dal giardino, illuminando con più decisione i panneggi e l'architettura. L'effetto d'insieme indugia però maggiormente verso una descrizione festosa dei dettagli, compromettendo il delicato equilibrio mistico della pala di Cortona. A sinistra, come nell'opera precedente, si vede il giardino allusivo alla verginità di Maria ("hortus conclusus"), popolato da una moltitudine di piante e pianticelle dipinte con grande cura. Tra le specie legate a valori simbolici si riconosce la palma, che ricorda il futuro martirio di Cristo. In alto, su una collinetta, si trova la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre, primo momento di rottura tra l'Uomo e Dio che viene ricomposto proprio dall'accettazione di Maria. Nella predella si trovano cinque scene della vita di Maria (lo Sposalizio, la Visitazione, l'Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio, la Dormizione) attribuite ad un assistente dell'Angelico, Zanobi Strozzi. Dal primo pannello manca una porzione, dove probabilmente era raffigurata, all'interno di un edificio, la Natività della Vergine. Fonte

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    Edited by Lottovolante - 9/2/2013, 20:18
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    Annunciazione di Cortona





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    tempera su tavola (1430 circa) - (cm 175x180)
    Museo diocesano, Cortona



    Nel 1432 un documento testimonia come l'Angelico stesse lavorando a un'Annunciazione per la chiesa di Sant'Alessandro a Brescia, della quale non resta alcun'altra traccia. Poiché pochi anni dopo la medesima chiesa commissionava un'altra pala dell'Annunciazione, questa volta al veneziano Jacopo Bellini (pagata nel 1443), si è ipotizzato che l'opera a cui l'Angelico lavorava non arrivò mai a Brescia e, per motivi sconosciuti, prese altre strade.

    Alcuni hanno ipotizzato che l'opera sia l'Annunciazione di Cortona, proveniente dalla chiesa di San Domenico e spostata poi nella chiesa del Gesù, che venne verosimilmente dipinta in quegli anni, comunque non oltre il 1433-1434 (data del successivo Tabernacolo dei Linaioli). L'Angelico lasciò a Cortona anche un'altra importante opera, il Trittico, poiché i monaci domenicani osservanti del suo convento (San Domenico di Fiesole), erano stati ospitati prima a Cortona a poi a Foligno durante un periodo di esilio che si era concluso nel 1419. L'Annunciazione di Cortona viene indicata come il primo indubbio capolavoro dell'artista, che, se si accetta la datazione anteriore di quest'opera, fece da modello per una fortunata serie di pale d'altare simili, non solo dell'Angelico. Il modello di Angelico fu l'Annunciazione di Masolino nella chiesa di San Niccolò Oltrarno, con una partizione dello spazio architettonico al posto del fondo oro e al posto dei tradizionali scomparti cuspidati. La scena è ambientata in un arioso loggiato rinascimentale, immerso in un giardino recintato che simboleggia la purezza e la castità della Vergine Maria, seduta sul porticato. Le colonne corinzie ricordano le opere brunelleschiane, magari filtrate dall'esperienza di Michelozzo, e sullo sfondo si apre una parete con archi su peducci, sotto uno dei quali si trova l'apertura che dà accesso alle stanze interne, dove si vede il baldacchino appena scostato di un letto a cassone. Il soffitto è coperto da un o squisito cielo stellato. Il pavimento è di marmo con incrostazioni dipinte, un abile effetto introdotto dall'Angelico nel Trittico di San Pietro Martire (1428-1429). La scena dell'Annunciazione avviene nel portico, dove l'angelo è appena atterrato e, con il consueto stratagemma delle lettere che gli escono dalla bocca a mo' di fumetto, porta l'annuncio divino a Maria, seduta davanti a lui. Oltre che con le parole l'angelo si esprime anche con gesti altamente eloquenti: con la destra indica la Vergine, fissandola, e con la sinistra indica il cielo, intendendo il mittente del messaggio che reca e sottolineando il tono declamatorio. L'angelo è vestito da una straordinaria veste rosa decorata da numerosi ricami d'oro e inserti di pietre preziose.

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    Il tenue e luminoso colore si accorda perfettamente con gli altri colori della pala, e riesce ad esaltarsi tramite gli effetti cangianti della luce tersa. Anche le ali sono trattate con finissime velature di luce e colore, che ne esaltano il virtuoso brillio. Tra i due personaggi si sviluppa un vero e proprio dialogo, con tre versi segnati in sequenza che non rispettano l'ordine della Vulgata, ma intessono invece una singolare botta e risposta: la prima parola dell'angelo ("Sp[iritu]s S[anctus] sup[er]ve[n]iet i[n] te"), la risposta di Maria ("Ecce ancilla Do[mi]n[i fiat mihi secundum] v[er]bu[m] tuum"), scritta capovolta, per far ben capire la direzione della risposta, e infine la risposta dell'angelo ("virt[us] Alti[s]si[mi] obu[m]brabit tibi").

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    La Madonna, a differenza delle Annunciazioni trecentesche, non si ritrae, ma anzi accetta il suo incarico sottomettendosi con un cenno di inchino e con le braccia incrociate al petto. Ella è seduta su un seggio coperto da un sontuoso drappo dorato (da notare lo scorcio prospettico della fantasia del broccato), avvolta nel tradizionale mantello azzurro e con un libro appoggiato su un ginocchio, tipico richiamo alle Scritture che si avverano grazie alla sua accettazione, come sottolinea anche la figura del profeta a monocromo che si sporge, con un cartiglio, dal medaglione sopra il capitello centrale. Sulla Vergine vola già infatti la colomba dello Spirito Santo. Il punto di fuga si trova all'esterno del loggiato, verso il giardino (nelle altre Annunciazioni sarà invece sotto il loggiato stesso) e guida l'occhio dello spettatore verso la scena che si svolge all'estremità sinistra in alto: la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre, primo momento di rottura tra l'Uomo e Dio che viene ricomposto proprio dall'accettazione di Maria. Nel giardino si trovano una serie di piante disegnate con estrema precisione calligrafica, secondo l'attenzione ai dettagli minuti più tipica del gotico internazionale che del Rinascimento. Tra le numerose specie si riconoscono alcune piante simboliche, come le rose bianche, simbolo di purezza, le rose rosse, simbolo della Passione di Cristo, e la palma, albero che simboleggia la gloria dopo la morte e il martirio, poiché fiorisce solo dopo aver perso tutte le fronde ed esser, all'apparenza, morta. Fonte

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    Edited by Lottovolante - 9/2/2013, 20:16
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    Annunciazione del Prado





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    tempera su tavola (1430 e il 1432)
    (154x194 cm il pannello centrale, 194x194 compresa la predella)
    Museo del Prado, Madrid



    L’opera fu eseguita per la Chiesa di San Domenico di Fiesole, dov’era frate l’Angelico. La scena è ripartita verticalmente in due parti, che raffigurano due diversi momenti della narrazione, con a sinistra la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso (la necessità dell’Incarnazione) e a destra l’Annunciazione, composta con l’arcata dell’Angelo e l’arcata della Madonna (inizio della Redenzione). L’Angelico così collega due momenti tra loro lontani nel tempo, ma strettamente connessi, l’inizio del peccato, con la disobbedienza dei progenitori e l’avvento della grazia per l’obbedienza di Maria. La cacciata è ambientata in un giardino fiorito, popolato da una moltitudine di piante e pianticelle dipinte con grande cura (frutto degli inizi miniaturistici dell’autore). Da notare la palma, che ricorda il futuro martirio di Cristo e le rose rosse, che richiamano il sangue della Passione di Cristo. Adamo ed Eva, vestiti con semplici tuniche grigie, in composto atteggiamento penitente, lasciano il giardino su invito sicuro anche se non perentorio dell’Angelo. Lo sguardo di Eva è rivolto verso la Vergine, riconosciuta come colei che schiaccerà la testa al serpente suo tentatore. Non c’è nei loro volti e nei loro atteggiamenti il potente dramma visto nell’opera di Masaccio, perché la risoluzione del dramma si intravede nella redenzione in atto. Non è senza significato poi che l’Eden che i progenitori sono costretti a lasciare è il giardino della casa di Maria. Dall’angolo alto parte dalle mani di Dio un raggio luminoso che, attraverso la colomba dello Spirito Santo, va ad illuminare la Vergine, seduta su un seggio coperto da un ricco drappo che funge anche da tappeto ed ha sulle ginocchia un libro aperto, simbolo delle scritture che si avverano. Nell’Annunciazione due arcate delimitano frontalmente un portico rinascimentale, disegnato con sapienza prospettica e che ricorda l’architettura di Michelozzo, autore in anni successivi del Convento di San Marco a Firenze. Sotto un cielo stellato si intravede l’abitazione di Maria, dalle pareti bianche, arredata come una cella monacale, con un mobile e una panca e illuminata da una finestra; la semplicità del tutto fa risaltare la dignità dei personaggi. Al centro dei due archi, in un tondo, è raffigurato il profeta Isaia, che vede realizzata la sua profezia “Ecco: la Vergine concepirà e partorirà un figlio, che sarà chiamato Emmanuele” (Isaia 7,14).

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    Una rondine, simbolo universale della primavera, è appollaiata sul tirante dell’arco sopra la Vergine. L’angelo, dal volto bellissimo, in elegante vestito rosso tenue, ha le ali variopinte e ancora dispiegate, segno che è appena arrivato: la testa è circondata da un’aureola dorata, segno della sua santità. Le sue braccia sono incrociate e la sua figura è inclinata verso Maria in segno di rispetto e di venerazione, quasi di adorazione del Figlio dell’Altissimo che già è presente nel grembo della Madonna. Questi è vestita con una veste rosata, che esprime la sua regalità e la sua dignità di donna, e con un manto azzurro, segno del divino e della contemplazione.

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    Anche le sue mani sono incrociate, racchiuse sul petto, come a manifestare la sua disponibilità ma anche come se stesse abbracciando il figlio ormai presente in Lei. Ma è la bellezza del volto che ha fatto esclamare a Giorgio Vasari, alla metà del cinquecento, come “la Nostra Donna annunciata dall’Angelo Gabriello, con un profilo di viso tanto devoto, delicato e ben fatto, che par veramente non da uomo, ma fatto in paradiso” . La complessa iconografia e la bellezza dei volti fanno di questa opera un altissimo esempio della profonda religiosità del pittore. Biagio Distefano

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    Edited by Lottovolante - 9/2/2013, 20:13
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    Le Annunciazioni del Beato Angelico






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    Domenico da Corella, che per primo usò l’aggettivo Angelico riferito a Giovanni da Fiesole, riferisce nel suo Theotocon del 1469 che questi nella Firenze del tempo aveva grande fama di pittore di bellissime Annunciazioni. Nessuno più di lui ha raffigurato il momento dell’Incarnazione: si contano infatti ben sedici opere che hanno per soggetto l’Annunciazione, tema peraltro fra i più cari dell’arte cristiana di tutti i tempi, spiegabile perché la festa dell’Annunciazione il 25 marzo era tra le più solenni dell’Anno Liturgico sia in Oriente che in Occidente. Gli ebrei celebravano il capodanno liturgico nel mese di Nisan, durante il quale si fa memoriale della Pasqua (Esodo cap. 12). Tale data era anche il Capodanno del re e delle feste. Anche in epoca cristiana l’inizio dell’Anno liturgico nell’alto medioevo era fissato a marzo, precisamente il 25, capodanno pure civile, quindi primo mese dell’anno. In seguito l’inizio dell’Anno liturgico fu spostato a Natale e poi all’Avvento, mentre l’inizio dell’anno solare fu regolato in corrispondenza con il calendario civile di Roma, dal quale potrebbe derivare la data del Natale cristiano, il 25 dicembre, giorno in cui si celebrava il natale del dio sole. Si può quindi affermare che la festa del Natale fu fissata al 25 dicembre in dipendenza dal 25 marzo e non viceversa. Infatti fin dal II secolo per i Padri cristiani questo giorno, equinozio di primavera, era il giorno dell’inizio della creazione del mondo, il giorno della creazione dell’uomo e anche della sua caduta e il primo giorno dell’incarnazione del Verbo di Dio che si fa uomo per redimere, salvare, ridare vita all’umanità, dando inizio alla nuova era del mondo, l’era della Redenzione. Molti Padri sostengono che anche la morte del Cristo sia avvenuta il 25 marzo. Fra le opere dell’Angelico si prenderanno in considerazione solo cinque tra tavole e affreschi riguardanti il tema, effettuate tra il 1430 e il 1452; per le prime tre di queste, l’Annunciazione del Prado, l’Annunciazione di Cortona e l’Annunciazione di San Giovanni Valdarno gli storici dell’arte non sono concordi per la datazione. Biagio Distefano


    Edited by Lottovolante - 9/2/2013, 13:58
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    Santissimo Salvatore, Acheropìta,
    cappella Sancta Sanctorum di Roma


    Il Cristo acheropìta di Roma


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    A piazza San Giovanni, a Roma, in un elegante edificio rinascimentale - spesso quinta di manifestazioni sindacali e concerti - c’è uno degli oggetti artistici più enigmatici e impressionanti che siano mai stati creati. Più che vederlo, lo si intuisce: da lontano, per pochi istanti, come un lampo nella penombra. Non lo si dimentica più.

    L’oggetto - un dipinto a cera su tela di lino incollato su tavola - si trova su un altare, incapsulato in una lastra d’argento che emette bagliori lunari. Ma non possiamo avvicinarci: una spessa grata ci tiene a distanza. Stiamo sbirciando infatti nella cappella privata del Papa, che contiene i tesori più inestimabili della cristianità: per questo è nota come Sancta Sanctorum.

    I pellegrini vi giungono doloranti, dopo aver salito sulle ginocchia i 28 gradini della Scala Santa - quella del palazzo pretorio di Ponzio Pilato a Gerusalemme, che Gesù salì il venerdì della Passione e che Elena, madre di Costantino, avrebbe portato a Roma. I curiosi saliti sui loro piedi vi giungono indenni, tuttavia intimiditi dalla scritta sull’architrave: NON C’E’ IN TUTTO IL MONDO LUOGO PIU’ SACRO. Alla fine, quando si viene sospinti via, resta la strabiliante sensazione di essere stati guardati. Ma da chi?


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    La tavola in realtà è un’icona antichissima, che rappresenta il Santissimo Salvatore, cioè Gesù Cristo Pantocratore. Molte altre icone rappresentano lo stesso soggetto, e nello stesso modo, perché sono immagini del sacro, dunque identiche a se stesse, e non conoscono il tempo. Ma l’icona del Sancta Sanctorum è diversa. Non perché sia miracolosa, accechi i superbi, esaudisca desideri o guarisca malattie, benché pare faccia anche questo.

    Né perché è il talismano protettore di Roma, senza il quale la città stessa perirebbe. Le cronache raccontano che nel 753 al papa Stefano II bastò mostrarla perché il re longobardo Astolfo togliesse l’assedio. Così per secoli i papi la ostentarono in una processione notturna che attraversava tutta la città.

    Il popolo si accodava in massa, invocando pietà e protezione contro la peste, la morte, la guerra - il male, insomma. Il Santissimo Salvatore in qualche modo funzionava. Neanche i lanzichenecchi luterani del 1527 riuscirono a rubarla o darle fuoco. Si salvò da terremoti, invasioni, incendi. Però si consumò, quasi si estinse. I balsami con cui gli ungevano i piedi durante le ostensioni corrosero le membra; poi sparirono l’abito e il trono su cui sedeva il Pantocratore. Alla fine del 1100 l’immagine originale non si vedeva quasi più, e fu ridipinta. Con fedeltà. Però il corpo era svanito, e non fu ripristinato.


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    L’assenza fu coperta con un vestito d’argento, tempestato di gioielli e pietre preziose, un sudario da cui il volto di Cristo emerge perentorio e spettrale, con l’allucinata intensità di una visione.

    Si è cercato di stabilire dove è stata dipinta l’icona.
    A Bisanzio, secondo alcuni studiosi: sarebbe stata strappata dal palazzo imperiale al tempo dell’iconoclastia. Altri sostengono che essendo la tavola di noce, e non di cedro o altro legno orientale, deve essere latina, italiana, romana. In realtà, come sempre quando un’opera appare all’improvviso, il Santissimo Salvatore è un oggetto misterioso, come un meteorite. Ma ha un autore: Dio stesso. Ciò significa l’enigmatica parola di origine greca, Acheropìta (non fatta con la mano), che figura in luogo della paternità dell’opera.

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    Dunque è Dio il pittore di questo ritratto. Insomma, si tratta di un autoritratto. Poiché non è un calco del volto di Gesù (come il Mandilion di Edessa, o il sudario della Veronica), sarebbe il primo autoritratto della storia dell’arte. I pittori italiani e stranieri lo conoscevano. Venivano tutti a Roma. Si sarebbero ricordati della frontalità ieratica e degli occhi immensi di questo uomo-Dio.

    Oggi è difficile crederci. Le ricerche scientifiche hanno dimostrato che la pittura è fragile, fatta con normalissimi colori, e databile, come ogni manufatto umano. Al V secolo, non oltre l’inizio del VII. Le ricerche artistiche hanno analizzato la forma e la tipologia dell’immagine - sua volta diventata modello per altre, riproducendosi all’infinito. Più che mostrare come Dio vede se stesso, l’icona acheropìta ci dice come gli uomini dei secoli bui vedevano Cristo: sovrano onnipotente incoronato da un’aureola d’oro, ma anche dolorosamente umano. Forse non imita l’aspetto del Cristo storico, ma il senso della sua presenza sulla terra.

    Nel congiungersi alla barba, i baffi gli conferiscono un’espressione non trionfante, anzi immensamente triste. Ha gli occhi enormi e vicini, spalancati, assenti eppure penetranti, fissi nella contemplazione di qualcosa al di là del visibile e della materia. Eppure è impossibile sottrarsi alla sensazione che quel dipinto racchiuso in un sarcofago d’argento della misura di un uomo non sia un pezzo di legno inerte. Non siamo noi che guardiamo l’opera, ma è l’opera che guarda noi.

    Ci segue con lo sguardo, ci giudica. Ci legge dentro.
    Ed evidentemente è una sensazione diffusa, se un papa del Medioevo preferì coprirla con un velo di seta, perché guardandola le persone venivano colte da tremori, terrore, vertigine come di fronte all’infinito, o a un abisso.

    Ogni volta che torno a visitare l’Acheropìta, mi chiedo se il Santissimo Salvatore mi guarda perché è Dio, o perché è una magnifica opera d’arte. E mi ripeto che se un’opera d’arte non diventa presenza - specchio di un pensiero, indelebile emozione, scintilla di un significato del mondo - non è niente...


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    Fonte



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